mercoledì 30 settembre 2009

Passaggi lontani



Quando Gianmaria Testa canta che "lo sapevamo anche noi l'odore delle stive", molti di noi, forse, annuiscono, rapiti soprattutto dalla bellezza della canzone. Poi, forse, ci ricordiamo altresì che gli italiani sono stati un popolo di emigranti, storicamente.
L'emigrazione italiana è un fenomeno storico e sociale che tutti dovrebbero conoscere, sia per averlo studiato, sia per esperienze personali indirette; molti italiani hanno infatti avuto nonni o parenti che hanno lasciato l'Italia per altre parti del mondo. Alcuni non sono più tornati, altri sono tornati "come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita", come Amerigo, lo zio di Guccini dell'omonima canzone.
E gli italiani di allora, da emigranti, prima di integrarsi con le popolazioni delle Americhe, dell'Australia, della Svizzera, sono stati spesso "esclusi". Erano quelli che stupravano le donne, che portavano le malattie; messi in quarantena a Long Island, oppure giustiziati, senza avere colpa alcuna, come Sacco e Vanzetti nel 1927.
Gli italiani erano i "macaronì", il nome dato con disprezzo dai francesi agli emigranti di casa nostra. E ricordiamoci che la maggior parte delle vittime del disastro di Marcinelle, nel 1956, erano di nazionalità italiana (136 italiani su 262 vittime).
Questo per dire che, in fondo, ogni epoca ha i suoi migranti (e non "clandestini", bensì "persone"), i suoi disperati e che in ogni epoca c'è qualcuno più a sud di noi su cui scaricare colpe, frustrazioni, rabbie sociali. E se gli italiani non emigrano più (almeno all'estero, perché l'emigrazione interna, spesso precaria, è ancora presente), non è giusto dimenticare chi siamo, da dove veniamo. E non per propagandare un "buonismo" vacuo verso i migranti d'oggi, ma solo per porre un piccolo freno a un paese abituato a dimenticare tutto, a ricordare in modo troppo pro domo sua la propria storia.
E forse sarebbe bene anche leggere Giovanni Pascoli, il suo componimento "Italy", un raro esempio di letteratura italiana dell'emigrazione. Lì l'emigrante non è una macchietta, né una caricatura, ma è un uomo come gli altri.

mercoledì 16 settembre 2009

Le ragazze che passeggiano

L'altra volta, sabato, in centro, faceva ancora caldo. Ultimi scampoli d'estate. Guardavo passeggiare le persone, e pensavo alle "vasche" che facevo anni fa. Ammetto che non è originale farsi prendere dalla malinconia osservando certe scene. Come non è originale l'idea di scriverci una poesia; ma insomma, questo so fare, più o meno. Naturalmente, mi sono inventato tutto, sia la scena del "vecchio" che cammina tra le giovani, sia la scena del venditore. E ovviamente quella del maniaco. Però mi piaceva l'idea di questi piccoli ritratti brevi, appena caratterizzati, eppure vividi nella mia mente, nel mio ricordo. E forse anche questa la reciterò.

Le ragazze al passeggio, le gonne corte
e i profumi del supermercato,
galleggiano nei portici autunnali.
La vita allora forse sembra sorridere
al vecchio che cammina tra le ragazze
e cerca solo un’occhiata, un sorriso,
un’emozione scordata da rinverdire.

Il venditore di bigiotteria
non sa quel che vende; il pomeriggio è lungo,
e i braccialetti non bastano mai, nemmeno per sua moglie.
Ha un bambino senza latte e una bambina senza nome,
sulle spalle. E una donna nascosta, illecita, che piange,
un’altra invece che vive nella luce del lecito,
ma piange lo stesso.
Ma non lo sanno, questo, le ragazze al passeggio,
e sfiorano il venditore con occhi che non vedono.

Il maniaco venne arrestato all’altezza della piazza.
Le vasche stavano finendo, il pomeriggio piegato su di sé.
L’uomo aveva aperto l’impermeabile due volte:
un’anziana donna era svenuta, un’altra l’aveva guardato in faccia.
Lui sorrideva, ma il poliziotto che lo fermò
aveva tutti i vestiti al posto giusto.
Le ragazze al passeggio, però, non videro nulla,
solo una, ridendo forte, s’accorse dell’impermeabile in manette.

Due amici alla ricerca di una ragazza da corteggiare:
se la disputeranno con calma, tra la folla,
cercando di farsi notare, ridendo, con gli occhiali scuri.
Uno dei due è alto, mesto, l’altro piccolo, con un neo sulla faccia.
Camminano ammirati, tra i profumi del pomeriggio di sabato,
e l’odore si scarpe nuove; ma nessuno li nota.
Le ragazze al passeggio li calpestarono nella calca,
ma non se ne accorsero, perché fuggivano…

In fondo che rimane il sabato sera, dopo le vasche?
Le cartacce per terra, le serrande abbassate, il silenzio spigoloso
dei rimpianti degli uomini, dei batticuori delle donne.
Qualche gatto, un lampione difettoso, il profumo di frittelle,
rimasugli di progetti nati e defunti tra le pieghe del pomeriggio.
Qualcuno passeggia ancora, da solo, nella penombra:
le ragazze non ci sono, il venditore accarezza un figlio non suo,
il maniaco piange a casa, il ragazzo con il neo sorseggia una sconfitta,
il suo amico scrive parole senza sapere per chi e su che cosa…

venerdì 4 settembre 2009

Il poeta senza identità. Il poetà è un'entità

Il libro di Saul Bellow (1915-2005), Il dono di Humboldt (1975), è un’opera che si presta a diverse interpretazioni. Leggendolo, però, mi sono venute in mente considerazioni che esulano dal contesto di un’opera che comunque consiglio a tutti di leggere. Il protagonista del libro, Humboldt Fleischer, è un amico dello scrittore, un poeta morto anni prima, dopo essersi minato l’animo e il fisico. Mi viene in mente l’idea, forse un po’ usurata, della solitudine dell’artista. È appena passato il 59° anniversario del suicidio di Pavese. Edgar Allan Poe morì a quarant’anni nel 1849 fuori di sé. E poi molti artisti sono stati ubriaconi, tossici, suicidi e così via. Ma non è tanto questo il punto; m’interessa il ripresentarsi, oggi, nell’epoca contemporanea, del dilemma della funzione del poeta. È la questione delle questioni, dunque dirò solo due parole rapide. Io credo che solo il porsi la questione della “funzione” di un poeta distrugga l’immagine del poeta stesso. La poesia non “serve”, non ha utilizzazioni pratiche. La famosa “arte per l’arte” (la frase di T. Gauthier) non è un dogma, perché attraverso l’arte si può combattere, ci si può comunque spendere per un’idea, ma l’arte in sé non serve a nulla. Questa è una prima convinzione che dovrebbe stare nelle nostre teste. Poi possiamo applaudire il poeta che recita in piazza, andando a casa pieni di quell’indefinibile soddisfazione che deriva dal profumo dell’arte. E poi? Scriveva Ezra Pound: “L’arte non chiede mai a nessuno di fare nulla, di pensare nulla, di essere nulla. Esiste come esiste l'albero, si può ammirare, ci si può sedere alla sua ombra, si possono coglierne banane, si può tagliarne legna da ardere, si può fare assolutamente tutto quel che si vuole”.
Bellow scrive: “I poeti sono amati, ma solo perché non sanno stare al mondo”, aggiungendo che è grazie a loro che il resto del mondo sopporta il cinismo a cui la vita lo costringe o a cui l’esistenza lo invita. Allora il poeta non serve davvero, e lo dimostrano le pagine più pure delle poesie che amiamo. Un poeta non sa operare un paziente, né guidare un aereo, progettare una casa o un ponte. Ma è un’entità che scrive e crea. Mi sovviene qui un’altra idea di Bellow. Il poeta non deve avere un’identità. Quest’ultima ci viene dalla sfera sociale ed è un’etichetta che ci rende riconoscibili all’esterno. Siamo operai, impiegati, insegnanti, professionisti, ingegneri, attori, musicisti, disoccupati e così via. L’identità è un segno o un odore di riconoscimento. “Il tuo cane ti riconosce”, dice Bellow.
Invece, gli uomini di grande valore (e non sempre gli artisti lo sono) sono un’entità, non si possono quindi limitare ad avere un’identità. Il poeta non ha questa identità, perché sa guardare dall’alto il qualcosa, magmatico, che vive nel mondo. Egli è un’entità, è un uomo che non si perdona mai, che non è indulgente con se stesso, perché ha nella testa la sua grandezza. Chi ha un’identità è più buono con se stesso, si siede sul divano, si versa da bere. Chi è un’entità, invece, è uno schiavo dell’arte. “Un’entità è una potenza impersonale che può fare spavento”, afferma Bellow. Ecco, il poeta dovrebbe imparare a spaventare gli altri, a mettere in crisi, a pungere le anime atrofizzate. Un destino davvero ingrato, ma irrinunciabile.

martedì 1 settembre 2009

Quando la notte avrà finito le lettere

Quando la notte avrà finito le lettere
e smetterà di partorire zanzare,
un’ultima frase galleggerà nella stanza.
Ma chi l’avrà detta poi?
I sogni si faranno da parte, compiti.
Silenzio, madido, extrasistole e sbadigli,
figli di un’attesa ormai breve.
Poi la finestra s’aprirà senza fare rumore più:
e sarà una mattina diversa, quieta,
forse bella come la prima e come l’ultima
di una vita.
E i sogni sembreranno solo ricordi senza sangue,
la testa leggera come un peso dolce,
le gambe fluttueranno nell’indistinto,
graffiando il vuoto appoggiato sui tetti
e sulle imposte ancora chiuse
nell’alba degli uomini.
E gli altri saranno lontani, evanescenti,
e la pioggia non bagnerà più i capelli,
nessun dolore, forse, farà più male.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...