giovedì 29 aprile 2010

Ricordare e dimenticare...



Questo brano è uno stralcio della conclusione del romanzo La soppressione benevola, uscito in edizione elettronica per LeggereLeggere di Milano. Il protagonista riflette, a posteriori, sull’epoca da lui vissuta vent’anni prima, quando una legge aveva decretato la morte obbligatoria per gli anziani. Anche suo padre era stato colpito dagli effetti della legge. Questa conclusione dà l’occasione al narratore della storia di elaborare alcune riflessioni sul senso del ricordare e sulla necessità, talvolta, di dimenticare.

La legge è stata abolita diciotto fa, solo poco dopo la morte di mio papà. Mio padre aveva avuto la sfortuna di essere tra i “sopprimendi” nel momento iniziale, quando la fobia anti-anziani era al suo climax. Per non perdere la mia testa e la mia vita, ho deciso di non pormi più domande troppo profonde su quel che è accaduto in quegli anni. Molti di quelli che, come me, hanno vissuto quegli anni tragici, da decenni non si fanno più domande: è un meccanismo di difesa. Eppure il male assoluto non si dimentica mai e resta impresso sulla pelle, avvinghiato ai filamenti nervosi del cervello, incastrato tra lingua e gola. È come un pezzo di pietra che non scende e non sale. Niente lo cancella. Ma ci si deve pur difendere da lui. Per questo, per quanto è possibile, si convive con il male assoluto: lo si tratta come un mobile brutto, che però non si ha il coraggio di buttare via perché è ingombrante e non passerebbe mai attraverso la porta di casa nostra, se non a prezzo di immani sforzi. E noi siamo vecchi: non abbiamo più la forza, né la voglia per compiere certi sforzi.
Non tutti ci riescono però. Qualcuno non è capace di convivere con quel rimorso che diventa un senso di colpa assiduo, e ne muore. Sì, è successo. Avevo un amico che negli anni ha vissuto sentendosi in colpa per la morte di suo padre. Naturalmente, sapeva che non avevano alcuna colpa reale; ma questo lo diceva la ragione, mentre il suo animo gli suggeriva un’altra cosa. Per decenni il mio amico ha resistito. Poi, un anno fa, diciannove anni dopo la soppressione di suo padre, si è ucciso. Si è lanciato dal balcone del terzo piano. Non è stato il solo. Altri, consumati dai rimorsi, si sono uccisi molti anni dopo la soppressione benevola dei loro congiunti anziani. Non è strano che si siano suicidati dieci o vent’anni dopo che il loro caro è stato soppresso. Il tempo non lenisce nulla e la sofferenza assoluta non è come il colore di una parete che sbiadisce con il trascorrere degli anni. Questa sofferenza, l’ho detto, diventa parte di noi e non tutti la sopportano allo stesso modo. Io e altri abbiamo deciso di convivere con lei: senza ignorarla, siamo riusciti a metterla in un cantuccio, in modo che non si facesse vedere né sentire eccessivamente. Perché non potevamo dimenticarla. Altri invece, forse più coraggiosi e onesti, non l’hanno messa in nessun cantuccio, ma hanno lottato ogni giorno contro di lei, finché, come il mio amico, hanno capito che non ce la facevano. E hanno trovato l’unico modo, per chiudere i conti a viso aperto con questa sofferenza: uccidersi. Loro, sì, si sono comportati da uomini, io invece... Credo di no.
Forse alcune volte la capacità di mettere da parte i ricordi tragici è una qualità, se non nobile, quantomeno utile. La memoria si conserva solo se riesce a ripulirsi con frequenza, a resettarsi. Quando vado nelle scuole a fare delle conferenze per rievocare il periodo della soppressione benevola, e dico che la memoria va ripulita, sento chiedermi dai giovani: se dimentichiamo quell’orrore, come faremo a evitare che torni? Chi ci racconterà di lui quando voi testimoni sarete morti? I libri?
Io rispondo sempre che il problema non è non dimenticare la barbarie rappresentata da quella legge, ma è come ricordarla. Il ricordo che funzione possiede? Perché non possiamo rinunciarvi? Io credo che i ricordi siano paragonabili a delle piccole ancore che ci tengono attaccati a un’asticella. Noi siamo uomini, dunque esseri fragili, e penzoliamo da queste asticelle. Alcune di esse sono robuste, altre meno, ma è più importante che robusti siano i ricordi, ossia le ancore, perché sono loro che ci tengono legati alle asticelle e che ci fanno sopravvivere. Per questo io penso che un uomo senza ricordi non sia più un uomo: l’asticella non lo può sorreggere più e lui cade nel vuoto. Credo che la nostra società soffra oggi di una malattia pericolosa, legata all’eccessiva quantità di ricordi accumulati. Quando dico queste cose, i giovani spesso strabuzzano gli occhi. Forse pensano che la mia sia una boutade; e invece non lo è. Io sostengo che dovremmo salvaguardarci sia dalla perdita dei ricordi, sia da un loro accatastarsi alla rinfusa. È una questione di ordine. Del periodo della soppressione benevola abbiamo parecchie testimonianze: filmati, libri, quotidiani, pagine web. Non manca nulla. E ogni mezzo di comunicazione illumina una prospettiva particolare sull’evento: ma io a volte mi perdo. Possediamo troppi ricordi, troppe immagini e rischiamo di non capire più qual è l’argomento in discussione e qual è l’uso corretto che di queste testimonianze dobbiamo fare.
Ci vorrebbe un po’ di igiene mentale. Nel senso buono del termine. Dovremmo diventare più rigorosi, affinare la capacità di selezionare i ricordi, le fonti, ossia la capacità di buttare via i ricordi superflui. Per questo io credo che una memoria troppo ricolma non serva a nulla. È come se le ancore di cui parlavo nella metafora diventassero, sovraccaricate di ricordi, troppo pesanti per le asticelle e le spezzassero. L’uomo scompare se è schiacciato da ricordi che non sa gestire. Un po’ di pulizia è necessaria. Perciò di quel che è accaduto non dobbiamo conservare tutto, perché non avremo poi nulla in mano che potesse darci la consapevolezza dell’orrore patito. Non sapremo che farcene di mille testimonianze. Quel che accaduto deve diventare memoria collettiva in modo sobrio, misurato, corretto. Parlando di me, io posso affermare che combatto ancora la mia battaglia quotidiana con i fantasmi di un passato atroce. La forza mi manca sempre più spesso, ma conservo ancora la lucidità per distinguere la mia vicenda personale da quella collettiva. E per parlarne. Spero che qualcuno, soprattutto tra i giovani, mi voglia ascoltare. E non sia semplicemente stupito, né solo inorridito, nell’apprendere cosa è successo. Domandarsi: “Come è stato possibile?”, è sbagliato, perché è un modo per assolversi a prescindere, pensando che quell’abominio di legge appartiene al passato, a una fase barbara della nostra società, e sia stata solo un’interruzione, dolorosa, del suo felice percorso storico. Ma non è così…

giovedì 22 aprile 2010

E-book: "La soppressione benevola" (G. Barreca)



È appena uscito, all'indirizzo del sito LeggereLeggere un mio racconto lungo in formato elettronico. Senza svelare nulla di particolare, si tratta di un libro che racconta di una società che, per superare una crisi economica e sociale, decide di sopprimere benevolmente coloro che hanno più di 85 anni...
Presento qui il prologo:

Sì, avevo ammazzato mio padre. O meglio: l’avevo soppresso, come un animale; anzi, lo avevo abbattuto. Avevo fatto tutto da solo, come fosse un vecchio cane? Dopo quella tragica mattina, queste domande me le ripetevo in continuazione, e, ogni ora della mia giornata, ogni momento delle mie notti, erano pregni di queste parole d’accusa. Avevo ammazzato un uomo che amavo, che mi aveva fatto crescere, che mi era stato vicino. Un uomo ormai anziano, inoffensivo, mite, pieno di saggezza e di ricordi. Il senso di colpa per me era atroce, insopportabile. Pensai anche al suicidio, in quei giorni, mentre l’estate esplodeva sulla città e io cadevo nel buio assoluto del niente che nutre le rabbie peggiori, quelle che non hanno ragioni, né bersagli contro cui indirizzarsi.
Alla fine però non mi uccisi; c’erano già troppi cadaveri in città. Con il passare dei mesi, forse per trovare un modo per continuare a vivere, al rimorso per la morte di papà si sostituì, nella mia anima, l’idea, assolutoria, che non lo avevo ucciso da solo. Questa idea, sottile, lenì il mio dolore perché quasi subito si legò a un’altra idea, ossia alla consapevolezza per cui nessuno mi avrebbe mai condannato per quel parricidio. Nessuno mi avrebbe arrestato, né avrei visto poliziotti con la faccia severa perquisire il mio appartamento. Non sarei andato in carcere, disprezzato dai secondini e seviziato dai compagni di cella quale reo di un delitto infame. Nessun avvocato avrebbe dovuto difendermi, o chiedere una perizia mentale per evitare l’ergastolo….


Il seguito qui

lunedì 5 aprile 2010

DIVAGAZIONI LETTERARIE. CARLO EMILIO GADDA CONTRO UGO FOSCOLO



da A. Arbasino, L’Ingegnere in blu, Adelphi, Milano 2008

Carlo Emilio Gadda di certo non amava Foscolo. Ne rispettava “il dolore e l’opera, nelle parti in cui merita d’essere rispettata”. Tuttavia lo definiva “uomo furbo e scaltro e innegabilmente commediante”, giudicandolo “uno dei personaggi meno accattivanti della letteratura italiana”. Arbasino ci dice che Gadda chiama Foscolo il “Basetta”, bollandolo come roditore, scimpanzé, scoiattolo e… piteco. Niente di meno!
Sembra che l’antipatia verso il Foscolo sia artistica, poetica ma anche, potremmo dire, semplicemente umana. Leggiamo: “Nella cosiddetta ‘poesia del Foscolo’ tutto si riduce a ricerca onomastica ellenizzante o comunque classica, a un macchinoso e inutile vocabolario, a una sequenza di immagini ritenute greche e marmorine, a un vagheggiamento di donne di marmo in camicia, o preferibilmente senza, da lui dette ‘vergini’. Mi sa che gli piacessero di quattordici anni, anche se in pratica, a scanso di grane, le sue amanti ultraconiugate ne ebbero un po’ di più…”.
E poi: “In Ugo Foscolo io non odio il poeta: se mai odio l’istrione, il basettone. Non odio l’innamorato. Odio, caso mai, quello che si finge tale per tirare il colpo alla figlia diciottenne dell’ospite babbeo: il quale ospite, facitore di versi, ha una opinione iperbolica del creduto Poeta Iperbolico… Vantarsi del pelo! È un’opinione da parrucchiere!... Una volta nudo, era sicuro di riuscire irresistibile. Avanti, signore e signori! Una lira, una misera liruccia! Per vedere il petto a Ugo Foscolo…”.
Quando Arbasino domanda perché Gadda odia a tal punto il Foscolo, la riposta è questa: “Questo risentimento ha origini in me bassamente moralistiche… In questo senso: non mi sento di moralizzare nessuno, ma sospetto in Foscolo in qualche modo una teatralità sprezzante cattivona che non gli competeva. Ha cercato di imporsi nelle lettere e con le donne a base di basette, col pelo, con questo ‘largo petto’, ‘nudo petto’, ‘irsuto petto’: come se fosse merito suo quello d’avere un irsuto petto! E come se fosse vero che molto pelo vuol dire molta musica! È un narcisismo da torero! Senza contare che il narcisismo dell’irsuto petto è sbagliato anche come narcisismo, perché il Narciso classico è appetibile a se stesso perché è glabro…
Inoltre, l’abuso che fa di alcuni vocaboli rivela in lui una fissazione probabilmente edipica per la femminilità della madre. Fra questi vocaboli, ‘sacerdotessa” ricorre in misura crescente in tutte le testimonianze del suo Gradus ad Parnassum: Caduta da cavallo, Amica risanata, Sepolcri, Grazie, sempre come aumento di frequenza. Sempre la donna promossa a sacerdotessa!
Poi, l’abuso della parola ‘vergine’, e anche della parola ‘diva’… L’abuso di virtù sempre riferita alla donna senza camicia (o che sta per togliersela) pone il poeta talora moralista in contraddizione con se stesso. Non rimprovero che gli piacessero le donne: ma in quanto la vergine in camicia è destinata a diminuire nella società umana il pourcentage di vergini che sembrano inebriare lo spirito del poeta. Rapito da un vaporare di fantasie femminili in camicia, scopre delle ‘vergini’ persino sull’aereo poggio di Bellosguardo! Tutte vergini per lui! Ci sono più vergini nei millenovecento versi del Foscolo che in tutta la storia di Roma antica. Nelle Grazie, poi, sono vergini anche i quadrupedi. Vergini gli uomini, vergini le donne, vergini che si salvano a nuoto, vergini i cavalli, vergini le cavalle, vergine la cerva di Diana. E Diana stessa. E le Muse. E Minerva. Nessuno si salva dalla verginità. Però il Foscolo non par mai voler incontrare il martirio (coltellata del rivale) per la vergine. Ha sempre tentato di adire donne maritate, e soprattutto malmaritate, di condizione agiata, per conquidere il cuore delle quali non occorreva pagare scotto né di buona entrata né d buona uscita”.
Vi è Gadda altresì una critica dell’atteggiamento ambiguo che il Foscolo avrebbe tenuto verso l’esercito francese e il suo condottiero, Napoleone. Ma vi è anche una critica potremmo ‘testuale’ alla poetica foscoliana, che non va taciuta. Dice Gadda che Foscolo ha impiegato delle espressioni poetiche che risultano “ridicole” per mancanza di controllo: “L’inizio delle Grazie è una sciarada… ‘Entra ed adora’… Ma che verso è? Chi entra ed adora si troverà col naso all’altezza dei tre cocò...”. Oppure: “Il Foscolo è capace di scrivere in una lettera ‘Ho passato un’intera notte a piangere’. È fisiologicamente impossibile!”. E ancora: “ ‘Vorrei coprire di rose la tua tomba e sedermi sopra in perpetuo pianto’. In questo caso, la prima cosa che gli sarebbe capitata sarebbe stata di pungersi…”. La conclusione è icastica: “il Foscolo, col Carducci, è il più grande strafalcionista del lirismo italiano ottocentesco”.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...