martedì 26 gennaio 2010

Giornata della memoria



“I giudici [di Gerusalemme] sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro, anche se in tal caso il processo sarebbe crollato o per lo meno avrebbe perduto tutto il suo interesse. Non si può infatti rivolgersi a tutto il mondo e convocare giornalisti dai quattro angoli della terra per mostrare Barbablù in gabbia. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce ne erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe assieme, poiché implica ... che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.
(H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, p. 282)

Questa affermazione di Hannah Arendt (1906-1975) è tratta dal suo libro ricavato dalle corrispondenze da lei scritte come inviata a Gerusalemme per assistere al processo contro Adolf Eichmann (1906-1962) nel 1961. È un libro assai noto anche perché il titolo dell’edizione italiana ha un notevole appeal (sebbene l’edizione in lingua originale si intitoli semplicemente Eichmann in Jerusalem). Qui un momento del processo.
Ne parlo perché, approssimandosi la giornata della memoria, mi vengono in mente alcune rapsodiche considerazioni. La banalità del male non consiste naturalmente nella sua svalutazione, bensì nella constatazione della sua vicinanza a noi e della sua “scarsa” originalità. Alla nostra mente, che si crede illuminata, appare impossibile non tanto la comparsa di Hitler o Stalin, quanto il fatto che milioni di uomini li abbiano seguiti e abbiano permesso loro di compiere tutti quei crimini. Possibile che fossero tutti pazzi, che fossero dei mostri o dei criminali nati? Naturalmente non lo erano: molti “collaboratori” di Hitler e Stalin erano uomini “normali”, anonimi padri di famiglia, impiegati, operai. Quello che ci sconvolge, quando avvertiamo l’odore del male assoluto, è perciò la consapevolezza che esso venga spesso compiuto non da un mostro, bensì dal nostro vicino di casa. Allora ci sentiamo vulnerabili, indifesi, incapaci di fare alcunché per evitare di diventarne vittime. Siamo a rischio sempre. Sapere che il male è compiuto da un pazzo, da un individuo folle, isolato, ci rassicura perché tali persone sono in genere facilmente individuabili. E si pensa, spesso a torto, che, eliminato l'elemento malato dalla società, tutto possa tornare in ordine. Al contrario, sapere che il male è compiuto da un uomo ordinario, come noi, ci toglie ogni sicurezza.
Dunque, non solo i protagonisti, gli attori del male assoluto spesso sono persone banali; anche le comparse, ossia coloro che, pur sapendo, tacquero e indirettamente favorirono quei crimini, sono uomini banali. A proposito della corresponsabilità di chi sapeva e taceva, un sopravvissuto ad Auschwitz, l’intellettuale belga Jean Améry (1912-1978), scrive queste parole sui “reduci” che stavano dall’altra parte: “Le brave persone che tanto volentieri avrei salvato sono già scomparse nella massa degli indifferenti, dei maligni e infami, delle megere, vecchie e grasse, o giovani e carine, degli ebbri di autorità che ritenevano di commettere un delitto contro lo stato e contro se stessi se non ci apostrofavano con ordini spietati. I troppi non erano SS, ma operai, archivisti, tecnici, dattilografe: e solo una minoranza fra loro era iscritta al partito [nazista]. Messi tutti insieme erano per me il popolo tedesco. Sapevano perfettamente cosa stesse accadendo intorno a loro e che ne fosse di noi, perché al pari nostro sentivano l’odore di bruciato proveniente dal vicino campo di sterminio, e alcuni indossavano abiti che solo il giorno prima, sulle rampe di selezione, erano stati tolti alle vittime sopraggiunte” (Intellettuale a Auschwitz, Bollati-Boringhieri, Torino 1993, pp. 126-127).
Quando ricordiamo i genocidi della storia, quando pensiamo ad Auschwitz, non dovremmo stupirci e domandarci soltanto “perché” sono avvenuti, ma anche “chi” e “che cosa” li ha permessi. Uno sterminio di massa non nasce mai dalla follia, bensì dalla ragione umana, sì, proprio da lei, da quella facoltà che produce il pensiero, la filosofia, a volte l’arte, ma talvolta pure la morte per sé e per gli altri. Quando i giudici di Gerusalemme “scoprirono” che Eichmann era una persona spaventata, misera, con alle spalle una vita ordinaria, colma di frustrazioni, di ambizioni svanite, con una moglie e dei figli, furono in difficoltà. Sia perché Eichmann probabilmente non aveva mai ucciso materialmente nessun ebreo (benché ne avesse organizzato la deportazione, o meglio, come diceva lui, “l’emigrazione”), sia perché l’uomo appariva mite, quasi incredulo di scoprire che aver agito secondo gli ordini e secondo le leggi del suo paese fosse un crimine, sia perché non era il peggior criminale nazista ancora in circolazione.
Quando, durante il processo, Eichmann sostenne di aver letto la Critica della ragion pura di Immanuel Kant e di aver seguito l’etica di quel grande filosofo quantomeno fino a quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale, egli era desolatamente sincero. Di certo ingenuo, ma Arendt coglie in questa enorme distorsione del pensiero kantiano un carattere molto diffuso nella Germania hitleriana, abituata a identificare la propria volontà con il principio, con la fonte, che sta dietro a ogni legge. Ecco le sue parole: “Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann era la volontà del Fuhrer. Buona parte della spaventosa precisione con cui fu attuata la soluzione finale … si può appunto ricondurre alla strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce. Di qui la convinzione che occorra fare anche di più di ciò che impone il dovere” (La banalità del male, p. 144).
Ma la condotta di Eichmann è stata terribile al di là dei princìpi che egli può aver seguito. Anche se fosse vero che i gerarchi nazisti abbiano "semplicemente" obbedito agli ordini e alle leggi del loro paese, la loro colpa non sarebbe meno grave, perché al di sopra delle leggi delle singole nazioni esistono leggi che impongono il rispetto dell’uomo, della sua vita, della sua dignità. Una legge universale, di carattere non giuridico bensì morale, è più cogente di una disposizione legislativa nazionale, legata alla contingenza dei tempi, dei costumi, a volte delle mode.
Lo sterminio sistematico di una popolazione non è mai frutto di un raptus, ma segue una sua logica, una ragione, un’idea guida, e un’organizzazione, molto precisa, industriale. I lager avevano un’organizzazione affinata: nulla era lasciato al caso, dalle tecniche di sterminio al funzionamento del campo, ai modi per distruggere la personalità e la dignità dei deportati. La vittima veniva spogliata di ogni avere (persino di quei piccoli oggetti che ci danno un’identità, come collanine, braccialetti, occhiali, spazzolino da denti), allontanata dai suoi familiari, resa anonima da un’uniforme, rapata a zero non solo per questioni igieniche ma anche per farla tornare a uno stato pre-puberale, di completa passività. Cosa diventa un essere umano in queste condizioni? Un nulla, un anonimo ammasso di carne, che non possiede più niente, che non può più amare nessuno e che non può più decidere della propria vita. Le SS ammazzavano delle persone già morte da tempo, che non aveva più dignità d’uomini, che apparivano privi di qualunque segno di umanità, sia nel fisico, che nell’animo. Per questo Primo Levi si domandava se “questo” fosse un uomo...

venerdì 15 gennaio 2010

Sbadigliando seriamente



Secondo una celebre affermazione di Giacomo Leopardi la noia sarebbe “della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente” (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare). La noia come assenza di piacere e dolore, che esiste quando né l'uno e né l’altro sono presenti: “Massime quando l’uomo non ha distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio continuo del piacere; cioè insomma quando egli è in quello stato che noi chiamiamo particolarmente di noia” (Zibaldone, p. 3622).
Nell’età moderna e contemporanea la noia è diventata oggetto di un vivo dibattito filosofico; già il filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662) riteneva la noia come la condizione dell’individuo che riflette senza ingannare se stesso sulla condizione umana, senza distrazioni di sorta. In tempi molto più recenti, Vladimir Jankélévitch ha definito la noia come: “il sentimento che non c’è alcun sentimento, il che significa la possibilità di tutti i sentimenti” (L’avventura, la noia, la serietà, Marietti 1991, p. 60).
Questa definizione apre nuove possibilità a chi voglia riflettere sull’idea della noia; essa infatti appare non più come il segno della mancanza di felicità, ma, paradossalmente, come ciò che nasce (dalla illusione) della felicità stessa, allorché essa appare completa e all’uomo sembra che non vi sia più nulla che possa essere desiderato. Uno dei caratteri più innovati che il pensiero filosofico contemporaneo conferisce alla noia, in antitesi con il pensare comune, è il suo legame non con il “non aver niente da fare”, bensì con “un avere troppo da fare, un poter possedere (ma in modo illusorio) ogni cosa”; si tratta di una bulimia esistenziale che atrofizza la nostra capacità di crescere, desiderare, diventare veramente noi stessi.
C’è un altro interessante aspetto da sottolineare. Se nei secoli passati la noia appariva un sentimento “riservato” ai ricchi e ai nobili (che non sapevano come scacciare il tempo, come succedeva alla corte di Versailles, dove Luigi XIV teneva affaccendata l'aristocrazia in balli, cacce, spettacoli, in modo da evitare che il suo potere potesse essere messo in discussione), durante il XX secolo, con l’avvento della società di massa, la noia ha preso ad “affliggere” (o privilegiare) un numero maggiore di persone. Una volta che le esigenze vitali di base sono soddisfatte, l’uomo può dedicarsi a coltivare altre esigenze, spirituali, e porsi domande sul senso della vita, su se stesso. Ecco allora che si apre il campo delle diverse possibilità e delle diverse risposte a interrogativi che toccano la radice della nostra esistenza; nondimeno, la consapevolezza della irraggiungibilità di gran parte di quel che si desidera, nonché la nebulosità di gran parte delle risposte sul senso profondo dell'esistenza, determina spesso l’insorgenza di un’insoddisfazione profonda, di cui la noia diventa l’emblema.
Jankélévitch parlava tuttavia della noia come “possibilità di tutti i sentimenti”, quindi non della loro realizzabilità. Ecco perché la noia diventa frustrazione se giunge dopo la delusione di aspettative troppo elevate, e diviene indolenza se appare nella vita di un individuo ricco, che però si rende conto che il sale della vita risiede in qualcosa di superiore che sfugge sempre, non nella soddisfazione veloce di piacere immediati (si pensi al personaggio de La noia di Moravia, ma anche a Gli indifferenti).
Nell’uomo contemporaneo la capacità di desiderare si è accresciuta in modo abnorme, ma spesso essa rimane senza scopi, perché vuole troppo. Ecco allora che appare la noia, la vacua attesa di un istante che possa donare la soddisfazione ricercata; forse ha ragione Stendhal quando, ne Il rosso e il nero, definisce la noia come: “quello stato di stupore e inquieto turbamento in cui precipita l’anima non appena ha ottenuto ciò che ha desiderato tanto. È abituata a desiderare, e non trova più nulla da desiderare...”.
Per questo si può affermare che oggi, la noia, sovente sia il risultato dell’impossibilità di scegliere, dovuta sia al non aver più nulla da desiderare, sia all’avere aspettative troppo ampie. La noia sembra essere il portato del contorcimento su se stesso di un benessere diffuso ma essenzialmente superficiale e materiale; esso tende a negare possibilità di espressione alle esigenze spirituali più profonde, in modo tale da rendere gli individui uguali tra di loro, uniformi, consentendo loro di possedere non quello che effettivamente desiderano, bensì quello che i modelli sociali fanno credere sia desiderabile. In una società siffatta abbandonarsi a riflessioni filosofiche diventa “pericoloso”, perché distrae dalla corsa alla ricchezza materiale; secondo questa interpretazione, un’inclinazione eccessiva verso il pensiero può far avvertire all’uomo la sua pochezza, la sua fragilità di fondo, la sua debolezza esistenziale, e renderlo meno controllabile, dato che egli si rende conto che la soddisfazione che quel benessere gli concede prova è illusoria.
Naturalmente la riflessione filosofia, la poesia, sono rispettate da certi modelli sociali perché esisteranno sempre persone cui piace la filosofia o leggere i poeti; ma tali attività vengono depotenziate, istituzionalizzate, incanalate in percorsi pre-definiti (i festival poetici, letterari, le case editrici che pubblicano solo poeti affermati, le università dove i docenti sono quasi sempre assunti in base a concorsi finti), in modo da essere controllabili e incapaci di dare sfogo a effettive esigenze spirituali.
La noia invece può diventare, per chi è in grado di estraniarsi, almeno saltuariamente, dal ricatto sociale materialista, un’alleata, sebbene pericolosa. Solo chi è capace di avvertire quanto siano fallaci certe esigenze materiali che invece la nostra società fa apparire come assolute, potrà annoiarsi e cercare di ritagliarsi spazi autentici all’interno della propria esistenza. Solo per le persone più sensibili la noia avrà quel significato filosofico e puro, ossia di insoddisfazione che nasce dalla pienezza o dalla percezione del gran numero di possibilità spirituali esistenti (benché non raggiungibili). Chi soffre perché non può soddisfare le proprie possibilità materiali, proverà di contro un’insoddisfazione effimera, ossia una noia intensa quale semplice ammazza-tempo.
Diverso quindi sarà il destino di chi si innamora delle “cose” spirituali; egli sa che percorre un sentiero difficile, doloroso e avaro di soddisfazioni immediate. Seguendo Lacan, si potrebbe asserire che le fantasie non devono essere mai realizzabili, perché nel momento in cui otteniamo ciò che cerchiamo non possiamo più volerlo. Noi non proviamo il piacere dal possesso di qualcosa, ma dal desiderio di possederla. Forse è veramente così; ma chi si innamora delle esigenze spirituali, e fruga l’esistenza alla ricerca di risposte, proverà una noia nobile, non imputabile al tempo che “non passa mai”, bensì “al tempo che corre troppe in fretta”. L’esistenza potrebbe divenire nauseante , alla Sartre (però del Sartre prima della seconda guerra mondiale), ossia insensata, non tanto perché ogni senso ci sfugga, quanto perché troppi sensi ci vengono proposti per comprendere il reale, impedendo la scelta. Ma è veramente possibile scegliere?
Per questo ci sfugge il senso del reale e per questa ragione la nostra noia moderna, più che come apatia, potrebbe essere definita quale “indifferenza” (moraviana), che nasce quando ci si accorge della progressiva perdita di attrazione verso la realtà, i suoi oggetti e gli individui stessi. La noia come raffigurazione di una stasi della temporalità che non fluisce, non è né amore, né odio, né angoscia: essa è priva di oggetti (perché li cancella o li priva di ogni colore, lasciando loro il solo valore strumentale), o meglio, essa rende vuoti e anonimi gli oggetti stessi. La noia contemporanea, se la si vuole guardare veramente negli occhi senza temere di esserne pietrificati, impasta di sé ogni attimo dell'esistenza; ogni cosa trasuda di lei, di questa noia impalpabile, vacua e che sfugge a qualsiasi tentativo di definizione o di rappresentazione.
Per fortuna c'è la vita, allora; perché ogni tanto una caduta nella materialità può essere salutare, in modo da attenuare la perdita di senso profondo cui la realtà quotidiana sembra andare incontro.

domenica 10 gennaio 2010

Una recensione: "Il re della pioggia" di Saul Bellow

Nella seconda metà del 2009 mi sono appassionato ai libri di un grande autore americano, Saul Bellow (1915-2005), premio Nobel per la letteratura nel 1976. L’ultimo volume che ho letto, in ordine di tempo, è Il re della pioggia, pubblicato nel 1959; ho già parlato di un libro di Bellow,Il dono di Humboldt, in questo post. I libri che finora ho letto di Bellow (ai due citati va aggiunto il suo capolavoro, Herzog) danno l’impressione di un autore coltissimo, raffinato, e che è intento, allorché descrive le proprie elucubrazioni esistenziali, a svelare le angosce e le paure dell’uomo moderno, smascherandone pregiudizi e meschinità.
Il re della pioggia è però in apparenza un testo diverso dagli altri: in esso infatti, quantomeno a un primo livello di lettura, predomina l’azione ed esiste un certo pathos, mentre la vicenda raccontata (la storia di un benestante americano, Eugenie Henderson, che per superare la sua crisi esistenziale fa un viaggio in Africa entrando casualmente in contatto con due tribù locali), può sembrare una specie di storia fantastica. Per la verità, il testo di Bellow non è solo un racconto d’azione: in esso è evidente la metafora che lega il viaggio in Africa del protagonista, che va alla ricerca di se stesso, all’idea in base alla quale quando ci si smarrisce è impossibile pensare di ritrovare se stessi nel proprio ambiente sociale e geografico.
Un’altra caratteristica che vorrei sottolineare, nel libro, concerne il suo lato fantasioso: il protagonista entra in contatto con due tribù africane che vivono lontane dai ritmi e dalle credenze della società occidentale. Egli racconta i caratteri, le credenze religiose, le superstizioni, i modi di vivere e di vestire di queste due tribù, mostrando una grande capacità di invenzione, e consentendo al lettore di costruire nella propria mente immagini vivide, intessute di odori e rumori. Ma non si deve pensare che la narrazione si smarrisca in una serie di invenzioni fantastiche che stupiscono chi legge. Essa, infatti, è altresì intessuta di riflessioni personali, di rievocazioni di fatti dell’infanzia o comunque della vita passata del protagonista. Si crea perciò, nel testo, una benefica tensione tra il racconto temporalmente scandito dal trascorrere degli avvenimenti, e la rievocazione di vicende trascorse. Il ricorso sapiente al flash-back prende talvolta le fogge di un flusso di coscienza nel quale Bellow occhieggia all’Ulysses di Joyce. Per questo il lettore forse si domanda quale sia il centro del romanzo: la vita carica di noia leopardiana di Eugenie Henderson o il suo viaggio in Africa e l’amicizia con il re dei Wariri Dahfu?
Un terzo aspetto che mi pare significativo nel libro è legato alla scelta del luogo per la rigenerazione di Henderson, ossia l’Africa dell’immediato secondo dopoguerra. Qui l’autore si mostra davvero molto fine e saggio: egli non ripropone il mito della ricerca di un luogo incontaminato, genuino come mezzo per purificarsi dalle sovrastrutture psicologiche e sociali dell’occidente. Henderson infatti incontra per caso, mentre sta vagando, le due tribù; soprattutto la seconda, quella dei Wariri, è una società fortemente gerarchica, verticistica e violenta, dunque affatto incontaminata. Il re della tribù, Dahfu, domina, ha tante mogli, tanti servitori, un corpo di guardia formato da amazzoni; ma egli, che diventa amico intimo di Henderson, non è onnipotente, perché appena perderà la forza per "soddisfare" (non solo sessualmente) tutte le sue mogli, verrà strangolato e il suo successore diverrà veramente re solo quando riuscirà a catturare il leone nel quale, secondo la credenza dei Wariri, si è incarnata l’anima del re appena strangolato. Infatti Dahfu, l’amico di Henderson, non è ancora pienamente re e la ricerca del leone da catturare costituirà un drammatico epilogo della vicenda.
Un ultimo aspetto che mi ha colpito nel testo riguarda proprio il re dei Wariri. Mentre gli altri personaggi, come i dignitari di corte, sono tratteggiati in modo più sfumato dall’autore, la figura del re è ampiamente descritta; egli non è un selvaggio: ha studiato medicina nelle scuole inglesi di Malindi e conosce tante cose, ma, dopo che suo padre è stato strangolato, ha deciso di tornare tra la sua gente e di diventarne il re. Henderson stringe amicizia con lui, e i due costruiscono un rapporto di scambio che fa comprendere come il re dei Wariri sia in realtà l’alter ego di Henderson, il quale crede di poter ritrovare se stesso divenendo amico di un uomo forte, saggio, profondo, capace di discutere di filosofia e di dare la caccia a un leone feroce.
Alla fine, però, un senso di amarezza, ma non di scontentezza, accompagnerà Henderson che torna in America; egli si rende forse conto che la sua rigenerazione è stata parziale, perché fuggire è sempre sbagliato. Certe angosce assomigliano al guscio delle lumache che non abbandona mai chi lo deve portare sulla schiena. Scrive Hendersom (Bellow): “… forse il tempo è stato inventato per porre fine alla disperazione. Perché non duri in eterno. Forse è proprio così. E la felicità, il suo opposto, è forse eterna? Non c’è tempo nella felicità. In cielo hanno buttato via tutti gli orologi…”.

sabato 9 gennaio 2010

Un pensiero veneziano




Su Venezia sono stati sparsi i proverbiali fiumi d'inchiostro; la città è citata in tante opere d'arte, libri (romanzi e poesie), canzoni... non voglio dunque aggiungere nulla, né pensare di poter affermare qualcosa di originale. Solo, mi piace "pubblicare" questo mio "pezzo", nato dopo una visita novembrina alla città (nebbia, freddo, cielo e mare spenti) per vedere la Biennale d'arte. Tra le tante immagini che la poesia ospita in sé, quella di un'enorme nave da crociera che passava davanti a piazza San Marco, trainato dal rimorchiatore... chissà perché mi ha colpito quell'immagine...

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...