mercoledì 31 marzo 2010

Due poesie: G. Barreca



La prima delle due nasce riflettendo su alcune fotografie consunte. Sì, non è un'ispirazione originale, ma questa è stata la sua causa. La seconda nasce dalla visione di prati deserti, butterati da vestigia di pic-nic, interrotti dalla pioggia marzolina. Una specie di istantanea di qualcosa che non c'è più.


L’inganno della camera oscura

Il sorriso degli astanti era un artificio
mentre l’obiettivo frugava le anime:
tutti splendevano di una luce incanutita.
Lui invece guardava per terra, inseguendo formiche
e i pensieri mesti di adolescente senza infanzia.
Il fotografo s’appello al “ciis”, alla concordia:
ma la zia fece le corna al marito, con le mani,
e il cugino pizzicò le forme morbide
della mamma della sua fidanzata.
Il nonno statuario sorrideva senza felicità,
mentre la nonna tendeva i muscoli per non scomparire,
per non essere la solita comprimaria.
Lui no: grigio nella giornata colorata,
indossava una cravatta scura e un po’ d’angoscia.
Alla fine il fotografo scattò: l’istante era stato infilzato
e reso immortale nell’afa del pomeriggio agostano.
Malinconia, rancori e senso di frustrazione scomparvero
nell’azzurro mormorare dell’estate del sud
che cancellava ogni velleità d’amore
da quei volti sudati e non più truccati.
Il cielo sembrava di gesso
e dei parenti indaffarati a mostrarsi immobili
rimaneva sulla lastra una striscia chimica.
Nella camera oscura le liti, la tristezza,
l’angoscia, i pizzicotti e la cravatta nera si confusero:
un guazzabuglio di vanità cadde sulla fotografia,
falsificando il ricordo, soffocandolo nella culla.


Ultime gocce di pioggia

Le macchie delle ultime gocce di pioggia,
sulla radura ormai desertificata:
bicchieri rovesciati su frange di pensieri
come onde,
onde ricamate e ricamanti,
da una mano che appare scompare riappare.
Dureranno queste ultime gocce,
dureranno fino alla fine d’ogni cosa,
al sole che annerisce il tramonto,
all’alba nuova che imbianca le case?
Non si sa, e stop.
Nessuno poi se lo chiede più:
la domanda è vana, chi l’ha posta
non gliene importa più nulla,
e la sua figura si perde nella caligine.
Le ultime gocce di pioggia non erano proprio le ultime:
altre ne verranno, le prime dopo le ultime,
le ultime prima delle prime.
Continueranno a macchiare l’erba,
dopo il pranzo all’aperto, e stop.
Sull’erba imberbe sono stesi stracci e cartacce,
parole sussurrate da nessun uomo,
una tovaglia rossa orlata di impronte
di dita e di mani intinte nel vino.

domenica 21 marzo 2010

Il treno nella tormenta puntata 5/5



Qui la prima puntata, qui la seconda, qui la terza e qui la quarta.

RIASSUNTO PUNTATE PRECEDENTI: un treno è bloccato dalla neve sull'Appennino parmense, a Fornovo Val di Taro. Sul treno un ragazzo (Andrea) conosce una ragazza (Francesca); i due cominciano presto a divenire più intimi, mentre i viaggiatori si rifugiano al bar della stazione per scaldarsi. Francesca rivela che sta scappando dalla sua vita e da un matrimonio.
Questa confessione scatena la fantasia di Andrea; lui è fidanzato, ma è attratto da quella strana e misteriosa ragazza. L'atmosfera diviene ancor più conturbante allorché la direzione delle ferrovie consiglia ai passeggeri di pernottare in un albergo del paese. Andrea e Francesca prendono due camere singole contigue.
I ragazzi cenano assieme; Francesca racconta molte cose di sé e Andrea avverte un irresistibile desiderio di lei. Anche la ragazza appare attratta da lui. Poi però Andrea ha un attacco di sonno e, suo malgrado, deve andare a dormire, mentre Francesca appare delusa, ma non dice nulla. Più tardi, nel cuore della notte, la ragazza bussa alla porta di Andrea e da quel momento scoppia l'amore tra i due, un'intesa perfetta li avvolge. Poi il sonno, il deliquio...


ATTENZIONE. IL RACCONTO POTREBBE URTARE LA SENSIBILITÀ DI ALCUNI LETTORI!!!

Francesca cominciò ad accarezzarmi il pene, con delicatezza. Ero del tutto inerme, non potevo né muovermi, né parlare, ero in balia di lei, delle sue voglie. Lei faceva ogni cosa in modo dolce, e io sapevo che non avrei resistito a lungo. Quando venni mi uscirono dei gemiti soffocati e vidi il mio corpo sussultare, e mi sentii sul punto di spezzare le corde che mi legavano al letto. Francesca continuava ad accarezzarmi lì, con tenerezza e io caddi in una specie di deliquio beato, nel quale ebbi la impressione di addormentarmi di nuovo…
Però non mi assopii perché Francesca aveva ripreso ad armeggiare con il mio pene. Lo stava baciando, producendosi in una fellatio appassionata e intensa. La vedevo muoversi su di me come una donna esperta. Ero di nuovo eccitatissimo e desideravo toccarla, ma non potevo muovermi.
Un attimo più tardi, Francesca salì sopra di me: sentii che muoveva il mio sesso per farlo entrare in lei. Mi dava la schiena: la vedevo muoversi in modo ritmico, direi armonico, assieme a me, ascoltavo il suo piacere che arrivava inarrestabile. Nella penombra la sua schiena mi appariva come l’oggetto più attraente del mondo. Cercavo di partecipare anch’io, muovendo il bacino per quel che potevo e, più mi muovevo, più la vedevo sussultare. Quando tutto finì ebbi l’impressione di strappare le corde che mi tenevano legato; il mio bacino sussultò in modo violento e mi sembrò di aver scaraventato a terra Francesca, che invece stava sopra di me e appariva del tutto inebriata dal piacere provato. Era tutto frutto di lei, del suo movimento, della sua iniziativa, della follia che l’aveva portata a conquistarmi, a fare prima del sesso “normale” con me, poi a legarmi e a sfruttarmi per le sue voglie di dominio per tutta la notte. Un’esperienza da raccontare, questa è la cosa che, ricordo bene, mi venne in mente dopo che fu tutto finito.
Poco dopo, Francesca si alzò da me lentamente. Mi pulì con un fazzoletto di carta, mi baciò di nuovo il sesso più volte: credevo che la mia eccitazione non sarebbe mai terminata. Poi pulì se stessa e se ne andò in bagno. Mentre scorreva l’acqua del bidet, percepivo nella stanza il profumo del nostro piacere, del nostro sudore, della nostra “perversione”. Avvertivo di nuovo il dolore alle giunture, da quasi un’ora strette nelle corde. Ma stavo benissimo. Non avevo mai provato una cosa del genere e mi sembrava la situazione più erotica che mai avrei potuto sperimentare. Francesca mi aveva fatto del male, legandomi in quel modo. Ma, dopo quello che era successo, mi sentivo ancora più attratto da lei. Mi chiedevo cosa avrebbe pensato il suo ragazzo se avesse saputo una cosa del genere; chissà se mai aveva sospettato di quella voglia di Francesca. E poi, mi dissi, sarà vero che sono la prima persona con cui l’ha fatto? Ormai desideravo stare con lei molto più del giorno prima, quando avevo di mira sono una semplice avventura. E Marta, cosa avrebbe detto di me? Avrebbe creduto al mio essere stato vittima delle circostanze?
dopo cinque minuti Francesca uscì dal bagno. Si vestì e venne verso di me. Mi baciò sulla fronte. Poi disse:
«Grazie tesoro, è stato l’addio al nubilato che desideravo. Non lo avevo progettato, ti assicuro, anche se mi ero portata dietro le cordicelle. Sai, mi rendo conto che piaccio e, quando vado in giro, mi accorgo quando qualcuno mi guarda con desiderio. Per cui, avendo questa idea fissa di legare un uomo e possederlo, violentarlo, disponendo di lui a mio piacimento, cercavo solo il coraggio per farlo. Ma pensavo che non l’avrei trovato mai. Invece ho incontrato te, che mi volevi ma non avevi il coraggio di dirmelo. Sono contento che sia successo con una persona come te. Certo, se non ti baciavo io, tu non facevi nulla. E, ti dico, mi piaci molto come tipo, e se fossi libera… Mah, chissà, magari libera tornerò. Ho la tua mail, ti scriverò forse. Per questo con te ho prima voluto fare l’amore, come una coppia, come due persone che si piacciono. Poi ho voluto averti tutto per me e, ti assicuro, mi è piaciuto tanto. Se non fossimo stati in un albergo con le pareti di carta avrei urlato come una matta, ma ho dovuto contenermi… Certo, scusa per la benda sulla bocca e per averti legato mani e piedi, ma vedrai che il dolore passa subito. Ora ti slego, ma sappi che non devi urlare, né fare cazzate di altro genere, capito? E non cercare di raccontare alla polizia queste cose, perché non penso che ti crederanno. Sarebbe facile inventarmi che mi hai violentata, e sai che in questi casi si crede alla donna, non all’uomo. Per favore, dunque, non raccontare nulla, fallo per me, credimi, ho cercato di farti solo del bene».
Non avevo certo intenzione di mettermi a urlare, né di prenderla a pugni e a calci. Ma Francesca stava tornando in se stessa e ora era lei ad avere paura, come donna, della mia reazione. Per cui il mio cuore tornò ad accelerare perché la ragazza, per essere ancor più persuasiva, mi puntò un coltello sul collo. Sentivo la lama fredda accarezzare la mia barba vecchia di due giorni e la mia pelle, la mia preziosa pelle. Cominciai a sudare e a tremare: una strana sensazione di freddo (avevo la pelle d’oca) e di calore mi avvolse. Cercai, con dei versi e dei gesti, di comunicarle che non avrei fatto nulla.
Poi Francesca mi slacciò le mani: feci fatica a muovere le braccia per qualche attimo; mi bruciavano i polsi e avvertivo dolore alle spalle, come se fossero state lussate. In realtà mi accorsi che non era così. Poi Francesca mi tolse la benda e mi parve di rinascere: emisi un sospiro di sollievo lunghissimo, ma non potei dire nulla perché Francesca mi baciò con trasporto. Era stupendo sentire la sua lingua nella mia bocca e avvertire il desiderio che cresceva nuovamente in me. Dopo quel bacio dissi:
«Non preoccuparti, non dirò niente e non ti farò niente. Sei una donna stupenda».
Lei mi fissò sorridente come le avevo visto fare altre volte quel giorno, cioè dischudendo appena le labbra. Sembrava tornata la ragazza fragile e senza malizia del giorno prima. Una metamorfosi che non riuscivo a spiegarmi. Ma non m’interessava per nulla.
Infine, Francesca mi diede un ultimo bacio sulle labbra e fece per andarsene. Una grande malinconia mi invase. Le dissi: «Non ci rivedremo mai più?». Lei, ormai sulla porta, rispose: «Non lo so, credimi...». E se ne andò. Erano le cinque e mezza del mattino. Poco dopo, stanchissimo e inebriato da quel ricordo tremendo e bellissimo, mi addormentai di colpo.

La mattina, verso le 8.30, il telefono della camera squillò. Saltai sul letto, spaventato. Presi la cornetta. Dall’altro capo del filo una voce mi avvertiva, cortesemente, che la colazione sarebbe stata servita alle ore 9.00 e che, dovendo il treno ripartire alle 10.30, le ferrovie consigliavano ai passeggeri di affrettarsi, anche perché non avrebbero più coperto le spese di “soggiorno” a Fornovo, né avrebbero rimborsato il biglietto in caso di rinuncia al viaggio.
Con una voce da oltretomba, ringraziai e riagganciai. Sì, non desideravo rimanere in quel posto, dovevo andare da Marta. Le scrissi un sms avvertendola della partenza imminente e lei mi rispose scrivendomi che era felice. Povera Marta, se avesse saputo… Mi lavai di fretta e mi accorsi, con stupore, che le caviglie e i polsi non presentavano particolari arrossamenti. Non me ne curai, però, perché pensai che la notte non avevo avuto la possibilità di guardare il mio corpo: avevo avvertito del bruciore, ma non avevo visto i segni rossi a causa del buio. Si vede che Francesca era stata molto delicata nel legarmi.
Guardando fuori della finestra, mi accorsi che non nevicava più. Il cielo era bianco lattiginoso, ma, come dire, di un biancore piuttosto chiaro, non grigio come il giorno prima.
Scesi nella hall e mi guardai attorno con il cuore che batteva. Nessuna traccia di Francesca, benché il ricordo di lei, del suo corpo e del suo odore fosse pungente nelle mie narici e nella mia memoria. Passando davanti alla sua porta, non avevo avuto il coraggio di bussare, anche perché sarei stato molto imbarazzato a parlare con lei. Mi aspettavo però di vederla nella hall e mi domandavo come ci saremmo comportati. Ma Francesca non c’era: che fosse partita per conto suo? Che avesse deciso di rimanere lì, continuando la sua fuga? Che si fosse fatta venire a prendere dalla zia oppure dal suo fidanzato con il quale magari aveva fatto pace? Scartai quest’ultima ipotesi, vista la distanza da Sarzana e da Brescia; e poi, sapevo che nevicava su tutta la pianura Padana e che la circolazione stradale era difficoltosa. Così almeno diceva la radio accesa lì, nel bar dell’albergo.
Terminai di mangiare e salii in camera per preparare la borsa e andarmene. La porta della stanza di Francesca era ancora chiusa; mi fermai un istante appoggiando l’orecchio per provare a captare qualche rumore, ma non udii nulla. Poco prima delle 10 uscii dalla mia camera, infagottato e con la borsa a tracolla, per dirigermi verso la stazione. Nella hall riconobbi buona parte dei passeggeri del treno del giorno precedente. Nessuna traccia, però, di Francesca. Cominciai a essere preoccupato per lei: lo stato in cui si trovava, il disorientamento che stava vivendo, quello che era successo tra di noi, mi indusse a temere che avesse potuto compiere un gesto terribile. E in parte me ne sarei sentito responsabile, perché l’avevo conosciuta, anche troppo bene, quella notte. E sarebbe venuto fuori tutto, avrei dovuto raccontare ogni particolare alla polizia, perché un suicidio avvenuto in un albergo di una cittadina dell’Appennino avrebbe fatto scalpore. Anche perché io dormivo nella stanza a fianco. Avrei potuto mentire sui rapporti tra me e Francesca? No di certo, perché se le avessero fatto l’autopsia avrebbero facilmente scoperto che avevamo avuto diversi rapporti sessuali. E magari avrebbero sospettato di me e, nel frattempo, la mia vita sarebbe andata a rotoli: immaginavo il dolore e lo sdegno di Marta, la sofferenza dei miei familiari, la vergogna che mi avrebbe avvinto.
Completamente immerso in quelle immagini di tragedia, in quelle paranoie vive e pungenti, ormai convinto, nevroticamente, del suicidio di Francesca, tornai verso la sua camera, quasi di corsa. La porta era ancora chiusa. Avevo il fiatone, più per l’emozione che per gli scalini fatti a due a due. Esitati almeno un minuto prima di bussare. Avevo le nocche già appoggiate alla porta, allorché vidi spuntare un inserviente dell’albergo che stava pulendo le camere all’inizio del corridoio. Mi guardò con aria interrogativa, come se non s’aspettasse di trovare ormai più nessuno in quella zona dell’hotel. Mi chiese con voce chioccia:
«Cerca qualcuno?».
Io lo guardai con altrettanta sorpresa, come se fosse lui l’intruso in quel posto. Aveva una mascella terribilmente quadrata, da pugile in pensione. Notai una cicatrice sull’occipite destro. Decisi di darmi un contegno serio e gli risposi:
«Mi chiedevo come mai la signorina che ha dormito in questa camera non sia ancora scesa. Sa, il treno sta ripartendo e lei deve andare a Sarzana… ».
La mascella quadrata si mosse, mentre gli occhi rotearono in modo interrogativo, come se io avessi parlato in una lingua incomprensibile. L’inserviente mi venne vicino come se volesse sincerarsi della mia sanità mentale. Sentii un alito davvero sgradevole e mi allontanai impercettibilmente.
«Sta scherzando, vero?», mi disse, squadrandomi.
«Perché?», ribattei a mia volta, quasi offeso dal quel tono e dall’espressione che poteva nascondere la volontà di prendermi in giro o di darmi una sberla sul muso.
La mascella quadrata si mosse verso di me, ma solo per parlare. Osservato da quella distanza, l’inserviente mi parve gigantesco, un armadio. Le mani erano proprio quelle da pugile.
«Guardi che questa camera non la diamo mai a nessuno perché si è rotto il tubo del riscaldamento tre giorni fa e proprio oggi aspettiamo l’idraulico per la riparazione. Dunque, credo che lei si sia sbagliato di camera… non le conviene affrettarsi? Potrebbe perdere il treno… ».
Rimasi senza parole, senza fiato, senza pensieri. Ero sicurissimo che fosse quella la camera di Francesca, come ero certo della nottata passata, delle sensazioni provate, del suo corpo unito al mio. Ovviamente non dissi nulla di tutto ciò. Non ebbi il coraggio di chiedere all’inserviente se stesse scherzando lui, perché avevo come l’impressione che la sua mascella mi avrebbe inghiottito. Mi sentii molto stupido e fatuo. Balbettai confuse parole di scuse e cominciai ad allontanarmi. L’inserviente, però, aprì la porta della camera e mi disse: «Prego», facendomi cenno di entrare.
La camera era buia e fredda, ma in ordine. Odorava di chiuso e di solitudine. Entrai con circospezione, come se mi trovassi sulla scena di un delitto. Ma non c’era nulla di strano. Il letto era a posto, il bagno anche. Una chiazza d’acqua si allargava sotto il calorifero. Aveva proprio la parvenza di una stanza in cui non nessuno dormiva da giorni.

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© OGNI RIPRODUZIONE PARZIALE O TOTALE DEI TESTI QUI PRESENTI E' SEVERAMENTE VIETATA, PENA LE SANZIONI PREVISTE PER L'APPROPRIAZIONE INDEBITA DEI DIRITTI D'AUTORE. TALI RIPRODUZIONI POSSONO ESSERE AUTORIZZATE SOLO PREVIA RICHIESTA AI TITOLARI DI QUESTO BLOG. (legge del 22/4/'41 n°633)

mercoledì 17 marzo 2010

Il treno nella tormenta (storia in 5 parti) - p. 4



Qui la prima puntata, qui la seconda e qui la terza.

RIASSUNTO PUNTATE PRECEDENTI: un treno è bloccato dalla neve sull'Appennino parmense, a Fornovo Val di Taro. Sul treno un ragazzo (Andrea) conosce una ragazza (Francesca); i due cominciano presto a divenire più intimi, mentre i viaggiatori si rifugiano al bar della stazione per scaldarsi. Francesca rivela che sta scappando dalla sua vita e da un matrimonio.
Questa confessione scatena la fantasia di Andrea; lui è fidanzato, ma è attratto da quella strana e misteriosa ragazza. L'atmosfera diviene ancor più conturbante allorché la direzione delle ferrovie consiglia ai passeggeri di pernottare in un albergo del paese. Andrea e Francesca prendono due camere singole contigue.
I ragazzi cenano assieme; Francesca racconta molte cose di sé e Andrea avverte un irresistibile desiderio di lei. Anche la ragazza appare attratta da lui. Poi però Andrea ha un attacco di sonno e, suo malgrado, deve andare a dormire, mentre Francesca appare delusa, ma non dice nulla. Più tardi, nel cuore della notte...


ATTENZIONE. IL RACCONTO POTREBBE URTARE LA SENSIBILITÀ DI ALCUNI LETTORI

“Toc, toc”.
Qualcuno bussava alla porta. Ma chi? Mi dissi che mi sarei dovuto alzare. Il freddo della stanza mi fece rabbrividire. Una lieve angoscia mi avvolse, forse era la paura di uno sgradevole imprevisto.
«Chi è?», domandai con il cuore che ballava nel petto
Era Francesca. Da dietro la porta mi chiese scusa per il disturbo e mi domandò se poteva entrare. Aveva una voce flebile; pensai, non so perché, che fosse la voce di chi ha appena pianto ma cerca di non farlo capire.
Attonito, presi tempo, cercando di capire cosa fare. Sapevo che avrei aperto. Per qualche attimo due pensieri mi attraversarono la mente. Il primo fu questo: se una ragazza vuole entrare in camera tua a quell’ora, non lo fa certo per parlare dell’ultimo film che ha visto. Ebbi un sussulto d’eccitazione, unito alla vaga reminiscenza di scene di film pornografici visti e rivisti qualche anno prima. Poi, pensai, che avrei tradito Marta, ma mi assolsi all’istante, perché avrei classificato quella cosa con Francesca come un’avventura vissuta per cause di forza maggiore. Infine, girando la chiave nella toppa, sentii una specie di ritrosia, un’improvvisa resistenza. Fu un presentimento? Non so, ma quando aprii e vidi Francesca in pigiama rosa che mi sorrideva come volesse scusarsi e non trovasse le parole per farlo, pensai che fosse ancora più attraente.
Appena entrò in camera, Francesca chiuse la porta alle sue spalle e mi baciò con foga: un odore di dentifricio alla menta m’invase la bocca. Il mio sangue prese a ribollire e mi dissi: “Ci siamo”. Un regista esperto di film erotici non avrebbe potuto scegliere una sceneggiatura migliore di quella.
Prima di metterci nel letto, Francesca, imbarazzata, mi chiese scusa, chiedendomi di fermarmi un attimo e offrendomi un po’ di tè caldo che si era fatta portare dal bar e che era nella sua stanza.
Furono due ore trascorse divinamente. Francesca sembrava la donna con cui stavo da anni: ci fu un’intesa erotica immediata e inebriante; tra le cose che rammento con particolare forza, fu la fame di lei che esplose in me al primo tocco delle sue labbra sulle mie. Non ci staccammo per due ore buone e fu tutto fantastico, qualcosa che raramente capita nella vita e che va raccontata solo a pochi amici (maschi) fidati, facendoli impallidire di invidia e gelosia.
Dopo quelle due ore di sesso intenso e inebriante, mi addormentai di colpo, come un sasso, abbracciato a Francesca, che mi ringraziò per quello che era successo. Nel dormiveglia balbettai un “grazie” che dovette suonare un po’ inusuale, ma anche i ringraziamenti di Francesca mi erano parsi fuori luogo. Come se le avessi fatto un favore, come se io le fossi servito per un’ultima follia prima del matrimonio! Una specie di addio al nubilato sui generis, senza cene con le amiche, né spogliarellista fico, macho e vagamente pompato che si esibisce dopo cena, ma un addio passato in una stanza d’albergo di un paese dell’Appennino a fare sesso con un uomo praticamente sconosciuto. Certo che aveva scelto un bel modo per dire addio al nubilato! Che avesse preordinato ogni cosa? È vero che per una donna che vuole avere un’avventura la cosa è molto più semplice, però immaginare che Francesca avesse architettato tutto non era possibile…
Erano questi i pensieri che venivo facendo, immerso nel sonno. Fu però un sonno agitato: continuai a chiedermi il perché di quella nottata, pensavo al momento in cui avrei parlato agli amici del fatto, poi m’immaginavo che Francesca si fosse alzata dal letto, camminasse nella stanza, andasse in bagno. Sognai Marta, la vidi pura e senza colpa, ignara della mia avventura, in attesa del mio arrivo a Pisa. Francesca nel sonno (e nei sogni) mi sembrava essere sempre in movimento per la stanza quella notte, ma non avevo la forza per alzarmi e chiederle cose stesse facendo. Due o tre volte ebbi la sensazione che lei mi urtasse: ma non mi svegliai appieno per chiederle se stesse bene, se il letto fosse troppo piccolo, perché alzare le palpebre e muovere la bocca mi apparivano gesti troppo faticosi. Una specie di benefica paralisi mi teneva inchiodato al letto, steso sul materasso e sulle lenzuola come un macigno. Non volli verificare se Francesca camminasse davvero o io stessi sognando, anche perché nel sonno le immagini di Francesca e Marta si confondevano. E la cosa non mi fece bene. Infatti, dopo l’amore, mi accorsi che avrei preferito che Francesca fosse tornata nella sua camera, perché cominciavo ad avvertire, nel profondo del mio animo, un tenace senso di colpa.
A un certo punto pensai però ebbi l'impressione che Francesca mi avesse dato uno strattone e che stesse facendo un po’ troppo rumore. E poi da un po' sentivo sempre più freddo. Insomma, compresi che non stavo sognando affatto e finalmente mi scossi, cercando di alzare la testa dal cuscino. Sollevai il capo e sentii qualcosa davanti alla bocca, una specie di fazzoletto bagnato… guardai davanti a me e rimasi attonito. Ero steso supino, nudo, avevo freddo; la stanza era illuminata dall’abat-jour della piccola scrivania alla destra del letto. Sentivo la mia testa pesante. Cercai di muovermi, sempre credendo di sognare e affogato nello stupore più nero, ma non potei farlo. Voltai la testa a destra e a sinistra e, sconvolto, mi accorsi che avevo i polsi legati alle due estremità della testata del letto. Sempre più terrorizzato, con il cuore che ballava nel petto e la paura che mi pietrificava l’anima, mi accorsi che anche le caviglie erano legate con delle corde alle due estremità inferiori del letto. Avvertivo un fastidioso bruciore ai polsi: più cercavo di muovermi, più il dolore si faceva acuto.
Era davvero difficile pensare che quel che vedevo fosse reale. Eppure la sorpresa non era finita. Guardai diritto davanti a me e rimasi, se era possibile, ancor più senza fiato: sulla seggiola sedeva Francesca, nuda, con le gambe accavallate. La luce debole della lampada la illuminava fiocamente, dal suo lato sinistro, donandole un aspetto spettrale. Francesca mi guardava fisso, anche se non potevo scorgere i suoi occhi. Aveva le mani unite su una coscia, mentre i seni nudi un po' a punta e "a uscire" , nella fioca penombra della stanza, mi apparvero come due uncini appuntiti, pronti a ferirmi.
Poi Francesca parlò. La sua voce mi apparve suadente, sottile, suadente, forse sensuale. Alzandosi, e venendo verso di me, mi disse:
«Che dormiglione che sei… ».
Non potei rispondere nulla per via della benda che mi chiudeva la bocca. Tremavo per il freddo e per la paura. Nell’aria della stanza aleggiava ancora l’odore dei nostri corpi che si erano uniti fino a poco prima. La mia serata trasgressiva si stava trasformando in tragedia? Mi vennero in mente una serie di film che mi avevano sempre fatto paura e m’immaginai quanto avrei potuto soffrire e quanto sarebbe stato triste morire in quel modo. Magari dissanguato, con le vene dei polsi tagliati
Pensai pure che Francesca, disperata com’era, avesse progettato un omicidio-suicidio, con me come co-protagonista. Forse mi aveva raccontato solo bugie. Forse era una psicopatica, sadica e perversa. Ma perché aveva scelto proprio me? Pensai poi a Marta, alla mia famiglia, alla vergogna che avrebbero provato. Allo scandalo. Finalmente Francesca si sedette alla mia destra e mi disse, interrompendo quelle visioni catastrofiche:
«Non temere, non ti farò nulla di male, più di quello che t’ho fatto… Ma era necessario. Prima vorrei puntualizzare due cose importanti, anzi tre». Aveva una voce pacata, dolce, appena sporcata dall'accento bresciano.
Volli crederle. Cercai di non piangere per il terrore. Vedevo le sue gambe vicine al mio viso, il suo sesso scuro e peloso a poca distanza da me. Sentii una leggera vibrazione al mio basso ventre, come se mi stessi eccitando. Pregai affinché ciò non accadesse. Poi Francesca parlò:
«Per prima cosa, sappi che non sono una sadomasochista, né una dedita agli scambi di coppia o ad altre robe da pervertiti. Non amo nemmeno legare il mio uomo al letto, dominarlo o altro. Ma è una cosa che ho sempre sognato di fare. E stanotte la sto facendo. Ma non permetterei mai che il mio eventuale futuro marito o qualcuno di mia conoscenza venisse a sapere di questo mio desiderio. Punto numero due: non ho inventato nulla della mia storia, oggi. Sono davvero in fuga e non so che farò. Comunque non avevo previsto di arrivare a fare proprio oggi, con te, quello che sto facendo. Punto numero tre… non me lo ricordo… Ah sì, non sono matta e presto ti libererò».
Sorrise e si alzò. Io naturalmente non potei proferire parola, per via della benda. Mi limitati a grugnire, come si dice in questi casi. Temevo, infatti, di compiere qualche gesto che potesse indispettire Francesca e farle cambiare idea sulla sorte che mi avrebbe riservato. Mi sembrava fuori di sé, del tutto diversa dalla ragazza compita e sofferente che avevo conosciuto durante il giorno.
Francesca mi annunciò che sarei stato per un po’ (erano ormai le tre del mattino) il suo “schiavo del sesso”. Se non mi fossi trovato in quella scomoda posizione, piedi e mani legate, avrei riso della banalità di quella espressione, perché non ce la vedevo proprio, Francesca, che si comportava in quel modo. Ma la realtà stava vincendo e cancellando il mio stupore. Cioè, intendo dire che avevo ancora paura, naturalmente, però capivo che mi sarei dovuto adattare per quanto fosse possibile e affrontare la situazione. Era come se la mia testa e il mio corpo avessero capito che resistere e mantenere un minimo di calma potesse essere il solo modo per sopravvivere. Infatti, ero un po’ meno agitato e, soprattutto, non pensavo più ai miei genitori, a Marta, allo scandalo, alla morte e a tante cose tetre.

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domenica 14 marzo 2010

Il treno nella tormenta - puntata 3



Qui la prima puntata e qui la seconda.

RIASSUNTO: un treno viene bloccato dalla neve sull'Appennino parmense, a Fornovo Val di Taro. Sul treno un ragazzo (Andrea) conosce una ragazza (Francesca); i due cominciano a conoscersi, mentre i viaggiatori del treno si rifugiano al bar della stazione per scaldarsi. A un certo punto Francesca rivela che sta scappando dalla sua vita, dal suo uomo.
Questa confessione scatena alcune fantasie in Andrea che, sebbene già fidanzato, comincia a pensare a un'avventura con quella singolare ragazza. L'atmosfera diviene ancor più misteriosa e conturbante allorché la direzione delle ferrovie consiglia ai passeggeri di pernottare in un albergo del paese. Andrea e Francesca prendono due camere singole contigue.


Appena entrato nella camera, mi stesi sul letto qualche minuto, affondando nel materasso un po’ troppo morbido. L’odore solito delle lenzuola d’albergo mi avvolse. Avvertii subito un benefico tepore: ero stanchissimo, sul punto di addormentarmi. Ma erano solo le cinque e mezza e alle sette, ci avevano detto, sarebbe stata servita la cena, non un minuto più tardi. La direzione dell’albergo, infatti, visto l’eccezionale afflusso di ospiti, era costretta a chiedere la massima puntualità per questioni organizzative.
Per evitare di assopirmi, accesi la televisione, ma prima litigai qualche minuto con i cuscini, perché le TV degli alberghi paiono fatte apposta per essere guardate soltanto se si è sdraiati sul letto. Qualsiasi altra posizione rende impossibile adocchiare il televisore. Alla fine comunque lasciai perdere. Mi avviai verso il bagno, ma prima dovetti rispondere al telefono: era Marta che voleva avere notizie sulla situazione, perché aveva letto su internet del treno bloccato. Come al solito, i media avevano cominciato a sparare scempiaggini, alimentando l’allarmismo solo per avere più audience. Io tranquillizzai Marta, cercando di essere affettuoso e rassicurante. Mentre parlavamo, riconobbi lo scroscio della doccia della stanza a fianco, quella di Francesca, e un brivido di eccitazione mi attraversò il corpo. Salutai Marta, avvertendo subito dopo il senso di colpa che mi saliva lungo la schiena, mi accarezzava le spalle, mi solleticava il petto.
Naturalmente cenai con Francesca nella grande sala dell’albergo. Gli altri passeggeri sembravano più quieti, o forse rassegnati, ora che si stavano rifocillando. Anche Francesca mi apparve più distesa e calma. Ne fui felice. Eppure io ero sempre meno tranquillo, in preda a un’agitazione che non dominavo e che non capivo. O che fingevo di non capire. In realtà c’era un motivo chiaro. Non sapevo che fare per “conquistare” Francesca, perché avevo deciso che quella notte sarebbe dovuto succedere qualcosa tra di noi. Mi sembrava un destino quella nevicata eccezionale, quella sosta forzata, quell’intimità “obbligata”. Ho sempre avuto una predilezione particolare verso quelle storie che narrano di incontro di una sola notte, di amori intensi e brevissimi. Quella sera ero euforico, eccitato, ma anche incapace di elaborare una strategia per fare mia quella ragazza così strana, in fuga da un possibile matrimonio. Non ero ancora del tutto certo della verità di quello che mi aveva raccontato, però non me ne importava molto. Durante la cena Francesca, più ciarliera, mi mostrò più volte un sorriso fanciullesco, che si disegnava con dolcezza sulla sua bocca piccola dalle labbra tanto rosse. Quel sorriso appena accennato mi aveva ormai definitivamente conquistato.
Finimmo di mangiare e ordinammo, prima del caffè, un sorbetto al limone. Era una vera schifezza, ma non me ne accorsi, perché in quel momento praticamente bevevo le parole di Francesca, e non m’interessavo a nulla d’altro. La ragazza diceva:
«Sai, posso apparire una matta, perché Alfredo, a guardarlo dall’esterno, è proprio un tesoro, ha tante caratteristiche che adoro e che mi piacciono. Perché l’ho scelto, mi chiedi? Bella domanda, ma non so rispondere. Io penso che giustificare i sentimenti sia impossibile, perché non hanno quasi mai una logica, se non quella del cuore… ».
Sentire quelle frasi da fiction italiana moderna mi depresse un po’. Odiavo le frasi celebri dei baci Perugina: per un attimo Francesca mi parve una ragazza un po’ scontata. Ma continuava a muovere con delicatezza quelle sue labbra rosee che avrei baciato all’istante. E poi quel suo viso, lievemente soffuso di un colore roseo, mi pareva ancora più delicato. Per cui stetti ad ascoltarla senza dire nulla, anche se tra me e me pensavo a come agire per poterla avere, almeno per una notte.
«Comunque so che sto facendo una grande scemenza… E che prima o poi dovrò affrontare la realtà, tornare nel mio ambiente, rivedere Alfredo, spiegargli tutto. So quanto possa stare male per la mia assenza e quanto dolore gli abbia dato. Non s’aspettava questo gesto. Ma io piangevo quasi tutte le notti, e più Alfredo era gentile, comprensivo, più mi veniva da piangere. La decisione di sposarlo è nata in me senza pensarci, solo perché mi sembrava di fare la cosa giusta, di sposare la persona adatta. Per mesi tutti mi hanno fatto i complimenti per la scelta, incoraggiandomi, dicendomi che ero fortunata, che avevo l’opportunità di vivere con una persona di valore e così via. Mia madre, quando ha saputo delle nozze, ha pianto per dieci minuti. Si vedeva che non aspettava altro. E io, arrivata a trent’anni, mi sono sentita, come dire, quasi obbligata a farlo. Convivevamo da tre anni, come ti ho detto e, sai, a volte giunge un momento in cui la convivenza, come dire, non basta più. Non è una questione morale, perché non me ne frega niente. È una questione di direzione della vita, di progetto da abbracciare assieme. Almeno, questi sono i pensieri che ho fatto l’anno scorso, guardando al mio futuro. Allora abbiamo deciso il matrimonio. Ma solo in questi ultimi tempi mi sono accorta che ho fatto tutto con la testa, con la logica, ascoltando sempre e soltanto gli altri, mai me stessa, né il mio cuore. Mi ero lasciata guidare, perché non avevo mai rovistato nella mia anima. È come quando passiamo davanti ogni giorno agli stessi negozi e ormai non badiamo più a come sono fatti, a quale merce vendono. Poi una mattina, senza apparente motivo, ci accorgiamo invece di mille particolari che ci erano sfuggiti le altre centinaia di volte che eravamo passata da lì. A me è successo in questo modo: mi è bastato osservare con calma il mio animo, e scoprirmi indecisa, forse non innamorata di Alfredo».
Quell’immagine mi piacque. Avrei voluto approfondire l’argomento. Ma erano le dieci di sera, avevo sonno, eravamo nella hall dell’albergo, c’era un bel tepore e io mi ero alzato alle sei. La storia che Francesca mi aveva raccontato non era poi così rara, ma lei la riferiva bene, disegnando un sorriso lieve, appena accennato, sulle labbra, quasi un estremo atto di riservatezza. Ma ormai, benché ci conoscessimo ufficialmente da undici ore, molte barriere erano cadute tra di noi.
Eppure, nonostante i miei propositi di conquista e la mia brama di avventura a sfondo sessuale, del genere “bottarella”, la combinai grossa. Da qualche minuto, infatti, sentivo che mi stava assalendo una grande spossatezza. Cercai di resistere, ma ogni sforzo fu vano. Alla fine, non mi trattenni più, e comincia a sbadigliare… Francesca mi guardò indulgente, sorridendo in modo amabile. Ma ormai la diga era saltata: gli sbadigli mi salivano alla bocca uno dietro l’altro, facendomi lacrimare gli occhi. Ero arrabbiato con me stesso, perché capivo che in quel modo mandavo a Francesca segnali di un mio disinteresse. Lei mi apparve delusa: mi domandò scusa per aver parlato troppo, e dignitosamente volle salutarmi. Io protestai, assicurandole che non era vero, ma gli sbadigli salivano a pioggia sulla mia bocca, non c’era nulla da fare. Anzi, più opponevo resistenza, più essi si accanivano, come se il mio organismo non ce la facesse più e reclamasse il riposo. In effetti, avevo tanto sonno e lei lo aveva capito. Si alzò e mi diede la buonanotte. E io, a malincuore, salutai Francesca, abbracciandola su una poltrona della hall. L’abbraccio mi scosse, mi diede l’impressione di un corpo pronto a unirsi al mio. Ma non feci nulla, mi mancò il coraggio. La vidi allontanarsi piano, con la sensazione che se l’avessi rincorsa e le avessi toccato una spalla, molte cose sarebbero successe. Non lo feci.
Poco dopo mi diressi verso la mia stanza. Passai vicino alla porta della camera di Francesca, guardandola solo di sfuggita, quasi fosse qualcosa di sacro e di intangibile per me. Poi, spinto da una specie di impulso incontrollabile, sfiorai con le nocche il legno della porta. Non posso affermare che bussai, perché il tocco fu proprio lieve, accompagnato da un batticuore furioso e dal sudore alle mani. Infatti, Francesca non rispose. Interpretai il tutto come un segno del destino. Deluso e amareggiato, entrai in camera mia.
Credo di essermi addormentato all’istante. Non ricordo nemmeno se mi lavai i denti. Credo che m’infilai il pigiama come un automa, pieno di sonno e di scoramento per aver fatto quella figura davanti a Francesca. Sapevo che il giorno successivo saremmo ripartiti e che non l’avrei più rivista. Alla fine, mi dissi, sarebbe tornata sui suoi passi, sposandosi, e accontentandosi di vivere un’esistenza dignitosa ma un po’ spenta, forse. Poi caddi in un sonno pensante.
“Toc”.
Mi svegliai di soprassalto, con il cuore in gola. Sì, sembrava il rumore di qualcuno che bussa alla porta… Mezzo addormentato, tesi l’orecchio per sincerarmi se ci fosse effettivamente qualcuno che bussava o se fosse stata un’allucinazione. Nel frattempo, guardai l’orologio e vidi che era mezzanotte.
“Toc, toc”.
Qualcuno bussava alla porta. Ma chi? Mi dissi che mi sarei dovuto alzare. Il freddo della stanza mi fece rabbrividire. Una lieve angoscia mi avvolse, forse era la paura di uno sgradevole imprevisto.
«Chi è?», domandai con il cuore che ballava nel petto.

mercoledì 10 marzo 2010

Il treno nella tormenta - puntata 2



Qui la puntata precedente.

RIASSUNTO: un treno viene bloccato dalla neve sull'Appennino parmense. Sul treno un ragazzo (Andrea) conosce una ragazza (Francesca); i due cominciano a conoscersi, mentre i viaggiatori del treno si rifugiano al bar della stazione per scaldarsi. A un certo punto Francesca rivela che sta scappando dalla sua vita, dal suo uomo...

La rividi quasi un’ora dopo. Ero tornato nel bar e avevo parlato un bel po’ di minuti al telefono con la mia ragazza. Non avevo badato all’assenza così prolungata di Francesca. Stavo bene al calduccio. Avevo anche raccolto alcune informazioni che parlavano dell’autostrada della Cisa, anche lei bloccata dalla neve. I treni che salivano da S. Stefano di Magra verso l’Emilia (provenienti dalla Liguria o dalla Toscana) limitavano le loro corse a Pontremoli, dall’altra parte del valico. I tecnici delle ferrovie avevano, infatti, parecchie difficoltà a raggiungere il tratto di linea danneggiato dalla neve. Oltretutto le previsioni del tempo non erano favorevoli. Insomma, difficilmente saremmo potuti andare avanti entro la serata. Qualcuno accennò alla possibilità di pernottare a Fornovo, a spese delle ferrovie. L’idea mi parve bizzarra.
Quando Francesca tornò, appariva più rilassata. Si scusò per la sua assenza, assicurandomi che aveva parlato al telefono con sua zia, che l’aveva avvertita del ritardo e così via. Le credetti, naturalmente.
Era ormai l’una e mezza passata. Dovevamo mangiare. Uscimmo dalla stazione in mezzo a una nevicata furiosa. Camminavamo a fatica: c’erano almeno 30 cm di neve al suolo. Diedi il mio braccio a Francesca per evitare che scivolasse, stante le sue scarpe basse. Mangiammo una pizza in una trattoria nei paraggi, passando due ore liete. Durante il pranzo Francesca apparve sollevata, tranquilla, quasi leggera. Discutemmo di varie cose, e la trovai sempre più simpatica, interessante. Mi disse che si dilettava di fotografia e mi raccontò dei suoi servizi e del blog che aveva messo rete, dove pubblicava le sue foto. Mi feci dare l’indirizzo del blog e la sua e-mail, perché, pensai, magari avrei potuto rivederla o comunque tenermi in contatto con lei. Avrei voluto sapere più cose sulla sua vita, avere delle spiegazioni dopo la frase che mi aveva detto in mattinata, capire perché stesse scappando. Non sapevo come fare, ma fu Francesca a trarmi d’impaccio, perché dopo il caffè mi raccontò tutto.
Conviveva da tre anni con un ragazzo di Brescia (lei era originaria di Rovato). A suo dire, le cose erano andate sempre molto bene tra loro. Lui lavorava in banca, lei aveva un lavoro sicuro. Poi, un anno prima, avevano deciso di sposarsi. Francesca affermò che aveva accettato con gioia questa cosa, perché amava quell’uomo. Si era aperto per lei un anno colmo di faccende, di progetti da elaborare e da realizzare.
Si sarebbero dovuti sposare tre giorni dopo il nostro incontro di quel momento. Ossia a ridosso del Natale. Io rimasi stupito di questa cosa, ma lei mi assicurò che non è rara come eventualità, anche perché sarebbero dovuti andare alla Seychelles in viaggio di nozze. Tuttavia Francesca aggiunse che, man mano che si avvicinava la data del matrimonio e che la frenesia dei preparativi si acuiva, qualcosa in lei aveva cominciato a spezzarsi. Disse che non si trattava della classica paura che coglie le persone di fronte a eventi rilevanti per la propria vita. Perché quell’agitazione è umana, la si sopporta bene e anzi serve a creare maggiore concentrazione per quello che dovrà succedere. No, lei avvertiva dentro di sé un’inquietudine solida, un groppo alla gola quasi continuo, e non si spiegava il motivo. Lei e il suo compagno avevano iniziato a litigare per cose da nulla, e più lui si mostrava comprensivo, più lei trovava occasioni per questionare. Insomma, confessò Francesca, era cominciato una specie d’inferno quotidiano. Mi raccontò di diverse notti passate tra le lacrime e della decisione, presa solo il giorno prima del nostro incontro, di “fuggire”. O meglio, di rifugiarsi dalla zia di Sarzana, la sorella della madre, con la quale c’era uno speciale rapporto di confidenza fin dall’infanzia. Quella mattina aveva fatto finta di andare al lavoro, poi era salita sul treno e adesso si trovava lì con me… Le chiesi se non stesse in pena per sua mamma che era all’oscuro di tutto, ma mi assicurò di averla chiamata in precedenza, quando era stata in bagno, per spiegarle la cosa.
Questa facilità nel confessarsi, questa improvvisa loquacità di Francesca mi stupì molto, anche se avvertivo che tra me e lei esisteva ormai un’affinità. Lei si fidava spontaneamente, ma io pensavo che probabilmente non ci saremmo più rivisti e la cosa mi dispiaceva.
Verso le quattro del pomeriggio tornammo in stazione, perché ci era venuta la strana idea che il treno fosse ripartito senza di noi. Ma sapevamo che era impossibile, dato che in pizzeria avevamo incontrato altri viaggiatori. Faceva freddo, nevicava ancora e il giorno declinava. Fornovo rimaneva spettrale sotto quella nevicata che non finiva più, anche se il gestore del bar della stazione e della pizzeria di fronte si fregavano le mani per gli affari che avevano fatto.
Quando entrammo di nuovo nella stazione, dissi a Francesca di aspettarmi nell’atrio: io sarei andato a informarmi, dato che avevo scorto un capannello attorno ai ferrovieri. Ricordo che mi colse un’angoscia improvvisa quando varcai la porta d’entrata della stazione, appena scorsi quell’ambiente così tetro. Francesca si sedette su una panchina. Stava calando l’oscurità e l’ambiente della stazione, già di per sé cupo, assumeva, in quel crepuscolo dai colori anestetizzati dalla neve, un’atmosfera sepolcrale.
La situazione, secondo i funzionari delle ferrovie, non era risolvibile entro sera. La linea sarebbe stata ripristinata non prima delle due di notte, sempre che la nevicata si fosse calmata. I cavi dell’alta tensione erano caduti per il peso della neve e del ghiaccio. Era inutile tenere i viaggiatori in attesa, sarebbe stato meglio ripartire l’indomani mattina. La soluzione era una sola: le ferrovie avevano chiesto a due alberghi che si trovava nelle vicinanze della stazione se poteva ospitare le duecento persone presenti sul treno. Le camere erano libere e dunque sarebbe stato opportuno farsi assegnare una camera, rifocillarsi, mangiare un pasto caldo e andare a dormire presto. Naturalmente le ferrovie avrebbero pagato il pernottamento, non la cena. Molti protestarono, alcuni presero a male parole i ferrovieri, i quali non poterono far altro che allargare le braccia sconsolati. Mi allontanai per comunicare la notizia a Francesca.
Mi fermai però quasi subito. L’atrio era sempre più buio. Francesca sedeva lontana, con le mani nella giacca a vento e lo sguardo, mi pareva, perduto nel vuoto. Ebbi per un istante l’idea di vedere un film americano, come quelli in cui i passeggeri di un aereo naufragano sulle Ande o non so dove e riescono a sopravvivere dopo giorni di sofferenza, mangiando i cadaveri dei passeggeri morti durante l’incidente. Certo, la nostra situazione era migliore, però ogni cosa stava assumendo, quel giorno, un’aria inconsueta, singolare. Anche l’incontro con quella ragazza, così attraente e così strana (o dovrei dire ambigua?), mi pareva surreale. Di nuovo ebbi un piccolo sussulto d’ansia, senza capire il perché.
Quando la raggiunsi, raccontai tutto a Francesca. Lei non rispose quasi nulla, limitandosi a mostrarmi un sorriso stanco, che mi parve un segno di prostrazione psichica e fisica unito a una specie di strano sollievo. Non so perché ebbi quest’impressione tanto netta, ma mi sembrò il sorriso di chi vede realizzarsi un’aspirazione inconfessata, desiderata e temuta al tempo stesso. Un’altra cosa che mi sorprese fu la remissività del suo atteggiarsi: Francesca rimaneva sulla panchina, come se non le avessero appena detto che avrebbe dovuto passare la notte in una cittadina dell’Appennino, in mezzo a una fitta nevicata, con gente che non conosceva. Ma non volli chiedere alla ragazza il motivo di quell'atteggiamento: avevo fretta, così la guardai solo per un istante, perché mi premeva recarmi in biglietteria dove avevo sentito che si stavano assegnando le camere. Non vedevo l’ora di una doccia calda e di stendermi sul letto.
C’era una lunga fila di fronte alla biglietteria. Molta confusione, concitazione, irritazione nei passeggeri. Le fronti dei controllori e del personale delle ferrovie erano madide. E corrucciate. Alla fine, quando toccò a me, erano rimaste due stanze singole e una doppia. Ebbi la tentazione di chiedere la doppia in modo da stare con Francesca e spiegarle poi che, per una sfortunata serie di circostanze, era stata l’ultima camera disponibile e io ero stato praticamente costretto a prenderla. Ma non lo feci. Tuttavia, mi andò “bene” lo stesso: ci diedero due singole attigue. Più tardi, tornando verso Francesca, un forte desiderio di lei, la voglia di trasgressione e una sensazione di indifferenza verso Marta, si impadronirono di me. La situazione mi rendeva eccitato e curioso. Comunicai a Francesca l’esito dell’assegnazione delle camere, la vicinanza delle nostre stanze, e lei si illuminò di un sorriso che mi fece battere il cuore. I suoi occhi, che apparivano più larghi e dolci in quel momento di contentezza, mi parvero bellissimi, mentre mi resi definitivamente conto che avrei voluto passare con la notte con lei.
La camera d’albergo era dignitosa: un letto matrimoniale (la famosa “doppia uso singolo”), un tavolinetto di legno, un comodino in fòrmica, l’armadio, la televisione in alto, di fronte al letto. Un bagno ampio e accogliente. Per arrivare all’hotel ci volle un po’ di tempo perché, nell’oscurità illuminata da esili lampioni coronati di piccole stalattiti, la neve aveva ripreso a cadere con violenza, accompagnata da un vento gelido che tagliava la pelle e ci faceva sussultare di freddo. Mentre camminavamo, Francesca, per non scivolare, si appese due volte al mio braccio. Quando lo fece per la terza volta, non glielo lasciai più e lei mi parve contenta di quel supporto. Il contatto con il suo giaccone mi rese ancor più desideroso di lei, mentre Marta mi appariva una presenza lontana, sfumata, che mi aspettava, ignara del mio tradimento sognato, lì nella piovosa Pisa

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lunedì 8 marzo 2010

Il treno nella tormenta (storia in 5 puntate) - p. 1



Solo quando il treno si fermò all’altezza di Fornovo Val di Taro, in provincia di Parma, mi resi conto di quanto stesse nevicando. Per la verità non ricordavo quando la nevicata fosse cominciata. Ero partito di buonora, la mattina, e già prima di Fidenza avevo guardato distrattamente fuori dal finestrino, scorgendo un biancore uniforme che mi aveva fatto venire sonno. Mi ero poi immerso nella lettura del giornale per spezzare la noia di quel viaggio fino a Pisa, ma avevo avvertito i continui rallentamenti del treno con crescente fastidio. Anzi, due o tre volte avevo avuto l’impressione che il convoglio slittasse sui binari. Qualche sospiro di nervosismo mi era salito persino alla bocca. D’altra parte, sapevo che quel treno era classificato come “interregionale” e che il materiale ferroviario non era di prima scelta. Da Fidenza in avanti il treno aveva proseguito a singhiozzo, inerpicandosi a fatica sull’Appennino. E ora si era fermato con un rauco rumore dei freni. Fuori la neve cadeva fitta ma calma e placida. La stazione di Fornovo appariva bianca, immobile, silenziosa, senza presenza umana.
Davanti a me, sulla carrozza senza scompartimenti, sedeva una ragazza bionda, poco truccata, pallida, che leggeva Ritratto di signora di Henry James. Un capolavoro, a mio parere. Avrei desiderato dirlo alla ragazza, magari per cominciare una conversazione, ma non mi aveva quasi mai guardato durante il tragitto. Aveva gli occhi chiari, verdi, i capelli lunghi fin sotto le spalle. Non aveva detto parola da quando era salita a Brescia. Mi era apparsa subito bella e triste, un po’ come l’eroina del romanzo di James. Avevo notato che tre o quattro volte aveva guardato fuori del finestrino con lo sguardo assente, perduto. Chino sul mio quotidiano, avevo fantasticato un po’ su di lei, come faccio di solito, immaginandola triste, delusa, avvilita, magari a causa di un fidanzato burbero e cattivo.
Dopo dieci minuti di sosta a Fornovo cominciai a preoccuparmi. Perché sapevo che in quella stazione il treno sta fermo al massimo due minuti. Fuori la nevicata proseguiva copiosa, ma pacata, senza vento. Il paesaggio era molto bello, soffice: si scorgevano i piedi dell’Appennino parmense, ma non le cime, nascoste dalla foschia. La stazione di Fornovo era sepolta nel biancore e nulla in lei sembrava vitale. Però scorsi due o tre volte il capotreno andare avanti e indietro, affannato, lungo il convoglio. Parlava al cellulare con una certa concitazione. Di sicuro c’era un problema e stava chiedendo lumi a qualche superiore.
Nell’attesa, sentii sbuffare qualche passeggero, il quale lamentava il solito ritardo di quel treno. Beh, come dargli torto: la “Freccia della Versilia”, a dispetto del nome, “freccia” non lo è quasi mai. Anche perché la linea che si arrampica sull’Appennino Emiliano per sbucare al di là, alla confluenza tra Liguria e Toscana a Santo Stefano di Magra, non consente traversate rapide. Però quella volta la sosta si prolungava eccessivamente, ed eravamo tutti un po’ seccati. A un certo punto, la ragazza seduta di fronte a me chiese, a bassa voce: «Scusa, che ore sono?».
La cosa mi stupì. Non credevo mi avrebbe mai rivolto la parola: fino a quel momento i suoi occhi erano stati per lo più fissi sulle pagine di James, con qualche capatina furtiva verso il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. Aveva una voce esile, che mi parve adatta al suo visino acqua e sapone.
Le risposi prontamente: erano le 10 e mezza. Aggiunsi, per non lasciare cadere quell’opportunità di dialogo: «Chissà con tutta questa neve se il treno ce la farà… ». Sorrisi dopo questa frase, ma la ragazza mi guardò come se avessi detto una cosa grave e importante. E ribatté seria e compita: «Mah, non so, sapevo che non dovevo prenderlo oggi, questo treno». Mi domandai se quella risposta fosse un modo per avviare una conversazione o per troncarla sul nascere... La ragazza riprese subito a leggere. Io non aggiunsi nella perché non desideravo fare la parte di quello che “ci prova” sul treno. Perciò tornai a scorrere il mio giornale.
«Arriveremo mai a Pisa?».
Quella domanda mi colse quando stavo per leggere un articolo di politica estera. Chi aveva parlato? Ancora lei, la ragazza dal volto bianco… Pensai che, per spezzare la noia di quella sosta forzata, volesse dialogare con me. Alcuni passeggeri, sfidando il freddo, erano scesi sul marciapiede a fumare. La ragazza mi guardava con un sorriso delicato, timido, come volesse scusarsi per il disturbo. Risposi con una frase fatta:
«Con le ferrovie si sa quando si parte, non quando si arriva… ».
La ragazza mi guardò sorridendo ancora di più. Le guance avevano preso un po’ di colore. Mi disse: «Certo… Ehm, scusa, piacere, io mi chiamo Francesca», e allungò la sua mano verso di me… Poi aggiunse: «Quando parlo mi piace sempre sapere il nome dell’altro».
Io, sorpreso, le diedi la mano senza dire nulla. Toccai una mano dalla pelle morbida, asciutta. Temo che la mia fosse invece un po’ sudata, ma Francesca non parve accorgersene. La sua stretta fu salda, franca. Alla fine io dissi: «Piacere mio, Andrea».
Con quel colorito sulle guance e l’aria un po’ meno abbattuta, mi piaceva ancora di più. Soprattutto, quando sorrideva lo faceva con garbo, ma spontaneamente, non perché cercasse di controllarsi, ma perché, dedussi, la sua indole era fatta a quel modo. Compita, timida, dolce.
Ricominciammo a parlare ma fummo interrotti quasi subito. Arrivò il controllore. L’uomo, chiuso nel suo cappotto blu orlato di neve, era entrato nella carrozza con una certa precipitazione, arrestandosi sul limitare della porta di comunicazione tra le carrozze e assumendo un atteggiamento guardingo, come se temesse la reazione dei passeggeri. Disse: «Avvertiamo i signori viaggiatori che, a causa dell’intensa nevicata in atto, si sono spezzati alcuni cavi dell’alimentazione sulla linea. Al momento non sappiamo quando potremo riprendere il viaggio. Vi consigliamo di recarvi presso il bar della stazione per avere un po’ di caldo. Ci scusiamo per il disagio».
Se ne andò quasi subito, mentre qualche passeggero scattò verso di lui, anelante ulteriori informazioni. A me e a Francesca quell’intervento fece solo ridere, perché il capotreno aveva parlato come un libro stampato e ci era parso buffo. Evidentemente le ferrovie avevano ancora molta strada da fare per curare bene le pubbliche relazioni e l’assistenza alla clientela. Ma che importava alle ferrovie dello stato della clientela di un misero treno interregionale, bloccato dalla neve nella sperduta stazione di Fornovo Val di Taro?
Il bar della stazione era il classico bar della stazione: un po’ tabaccheria, un po’ tavola calda, un po’ circolo ricreativo. Deprimente e affumicato. Francesca e io riuscimmo a sederci in un tavolino logoro, del genere “i favolosi anni ’60 non passano mai”. Gran parte dei passeggeri si erano riuniti nel bar per sfuggire alla tormenta. Lì dentro era caldo, si stava bene, anche perché fuori la nevicata era aumentata di intensità e aveva preso a spirare un vento gelido da nord. Io avevo fame e mi mangiai un panino, mentre Francesca prese un cappuccino con brioche.
Fino a quel momento avevamo conversato amabilmente. Devo ammettere che quella sosta non si stava rivelando per niente seccante. Anche Francesca non appariva contrariata. Molti viaggiatori, invece, imprecavano, sbuffavano, parlavano in modo concitato al cellulare, chiedendo notizie a casa a chi poteva guardare la TV o consultare internet. Io non avvertii la mia fidanzata che mi aspettava a Pisa per le 18.20, perché ritenevo che il ritardo non fosse ancora eccessivo. O forse perché volevo chiacchierare con Francesca e non rivelarle il mio status di uomo “impegnato”?
Nemmeno Francesca scrisse, né telefonò a qualcuno. Discorreva con me, ma senza guardarmi quasi mai negli occhi, e senza dirmi nulla di lei, ma solo frasi fatue, banali. Così, approfittando di un momento di calma nel bar, le chiesi con affettata noncuranza:
«Tu hai avvertito a casa? Io aspetto, perché non so come andrà».
Mi fissò solo un istante quasi stupita. Ebbi l’impressione che i suoi occhi si fossero arrossati. Stava per piangere? E perché? Avevo ragione allora a vederla triste e preoccupata… Non rispose alla domanda, ma mi fece questa proposta:
«Ti va se usciamo un attimo da qui? Fumo una sigaretta».
Uscimmo. Ci accomodammo su una banchina di cemento sul binario uno. C’era una calma irreale là fuori. Riparati dalla tettoia, contemplavamo la neve cadere e depositari sui binari davanti a noi e sulla tettoia che sovrastava gli altri binari. Il nostro treno, al binario 4, appariva spettrale, perso nel biancore gelido di quella giornata. Sentivo freddo, ma non potei pensarci troppo perché Francesca divenne all’improvviso ciarliera.
«Sai, io non do molte confidenze agli estranei di solito. Però tu mi sai ascoltare, e non mi accade spesso ultimamente. Intendo, non succede di incontrare persone che mi sappiano ascoltare veramente. Forse la situazione facilita i contatti, non so. Tu dove stai andando? A Pisa dalla tua ragazza? Ah, ho capito. Io invece scendo a Sarzana, c’è una mia zia che abita lì. E come mai la tua ragazza sta a Pisa? È di lì, vive lì? Ah, ho capito, frequenta la Normale. In cosa si laurea? Ah, capisco, sta facendo il dottorato. Bello. Io sono un’impiegata amministrativa. Naturalmente è un mestiere che odio, però mi dà da campare a sufficienza. Perché vado a Sarzana? Perché avevo bisogno di un po’ di vacanza. So che manca una settimana a Natale, ma ho voluto anticipare il tutto per starmene tranquilla».
Francesca aveva parlato velocemente, senza quasi attendere le mie risposte alle domande che mi aveva posto. Quando tacque io non replicai nulla, perché sentivo bisogno di silenzio. Mi piaceva molto quella ragazza dal viso limpido e pulito, ma presentivo che nascondeva in sé un grumo di dolore, una sofferenza. Cercavo nella mia testa la domanda giusta da porle: desideravo sapere altre cose di lei, ma temevo di apparire indiscreto. Intanto guardai nervosamente l’orologio: erano le dodici e mezza. Eravamo fermi da due ore in quella stazione, ma non me ne ero quasi accorto. Non le feci nessuna domanda, perché fu lei che riprese a parlare:
«Sai, non vorrei apparirti una sprovveduta se ti concedo tutta questa confidenza. Non voglio annoiarti… Sì, grazie, mi ascolti volentieri, grazie che lo dici. Voglio crederti».
Un’altra pausa. Mi parve sempre più abbattuta e triste, lì al mio fianco, sulla panchina. Il ritratto della solitudine. Che fosse pazza? Che volesse farla finita? Ebbi un brivido di freddo e di paura. La voce di Francesca nel frattempo era divenuta più salda, mentre i suoi occhi rimanevano fissi a terra, come se non stesse dialogando con me, bensì con se stessa. Aveva le mani rosse per il freddo. Ebbi l’impulso di prenderle nelle mie. Mi trattenni. Poi lei disse, sempre senza guardarmi:
«Io sto scappando, lo sai? Dal mio futuro, dal mio fidanzato, dalla mia vita. Anzi, da un pezzo della ma vita».
Questa volta aveva parlato a scatti, con un tono di voce asciutto, come se dovesse confidarmi una cosa scomoda e avesse fretta di farlo. Come per sgravarsi da un peso. Rimasi di sasso, sconcertato. Mi aspettavo altre parole da lei, a mo’ di spiegazione dopo quella frase così enigmatica, ma Francesca si appoggiò allo schienale e sospirò, tacendo. Poi si strinse la sciarpa al collo e cominciò a piangere piano. Io ero esterrefatto e imbarazzato. Non sapevo che fare. In fondo lei per me rimaneva un’estranea. All’improvviso Francesca mi disse: «Scusa un attimo, vado in bagno. No grazie, non accompagnarmi. Anzi, torna al bar, vedo che hai freddo». E si alzò dirigendosi verso la toilette.


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lunedì 1 marzo 2010

L'uomo e l'animale (o l'uomo "è" un animale?)



“La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell’universo, all’ultimo piano della casa e al più lontano dalla volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle tre condizioni; e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa sua immaginazione che egli si eguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forza che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro?
Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei? Platone, nella sua descrizione dell’età di Saturno, annovera fra i principali vantaggio dell’uomo di allora la possibilità che egli aveva di comunicare con le bestie, e informandosi e imparando da loro, conosceva le vere qualità e differenze di ciascuna di esse; in tal modo egli acquistava un’estrema perspicacia e saggezza mediante cui conduceva una vita di gran lunga più felice di quanto noi sapremmo fare”
(M. de Montaigne, Apologia di Raymond Sebond, in Saggi, cap. XII, a cura di R. Solmi, Adelphi, Milano 1994)

La riflessione di Michel de Montaigne (1533-1592) rappresenta la più felice sintesi dei risultati filosofici cui è approdato lo scetticismo del XVI secolo. Montaigne è un filosofo gradevolissimo, un “inattuale”, in scarsa sintonia con un secolo, il XVI, nel quale in campo filosofico la facevano ancora da padroni il dogmatismo aristotelico-scolastico e le fumose argomentazioni neo-platoniche post-rinascimentali. Galileo era, infatti, ancora giovane, Descartes sarebbe nato solo nel 1596…
Secondo Montaigne l’essere umano possiede una natura molteplice, non definibile in maniera univoca, essendo l’uomo “un soggetto meravigliosamente vano, vario e ondeggiante” (Apologia di Raymond Sebond). Inoltre, l’autore nota come spesso noi stessi, a seconda delle condizioni in cui ci troviamo, giudichiamo un identico fatto in maniere completamente differenti. L’uomo, come si legge “È un foglio bianco preparato a ricevere dal dito di Dio quelle forme che gli piacerà di imprimervi”.
Rifacendosi ad argomentazioni scettiche ben note, Montaigne dichiara che nulla consente di definire l’essere umano padrone della natura. Egli si richiama al poeta latino Lucrezio, per sostenere che la natura è una grande Madre nella quale è infuso il soffio della divinità, che si manifesta attraverso fenomeni dei quali l’uomo non può comprendere le cause ultime, poiché esse sfuggono alle sue deboli capacità conoscitive. Invece di pretendere di dominare la natura, l’uomo farebbe bene a conformarsi a essa, come fanno gli animali, giacché “La natura ha universalmente abbracciate tutte le creature; e non ve n’è alcuna che essa non abbia pienamente fornito di tutti i mezzi necessari alla conservazione del suo essere”. Secondo Montaigne è necessario riconoscere l’essenza finita e limitata dell’uomo; egli chiama in causa la dottrina pirroniana, che giudica utilissima a questo proposito, perché insegna che le nostre facoltà (sensi e ragione) sono fragili e fallaci: non a caso i pirroniani “si servono della loro ragione per indagare e discutere, ma non per decidere e scegliere”. L’individuo dovrà allora “essere un uomo vivo, che discorre e ragiona, che gode di tutti i piaceri e vantaggi naturali, che mette in opera e si serve di tutte le sue parti corporali e spirituali con norma esatta e sicura”.
Nel Saggio sulla crudeltà, l’attenzione e la valutazione delle facoltà degli animali è funzionale al riconoscimento della infondatezza dell’idea dell’uomo quale padrone assoluto del mondo. Montaigne afferma che ogni essere vivente è stato creato da Dio, il quale ha infuso in esso il medesimo desiderio di continuare a vivere: quindi, che diritto ha l’uomo di uccidere gli animali a proprio piacimento? Avvertiamo, nelle parole, di Montaigne l’insegnamento dei filosofi antichi, si (pensi a Pitagora, Plutarco e Lucrezio), diretto a mostrare come la benevolenza verso gli animali sia simbolo di un’umanità placida e rispettosa della natura. L’uomo non ha il diritto di mostrarsi tanto presuntuoso e arrogante da trattare a proprio piacimento individui così simili a lui.
Sempre nell’Apologia di Raymond Sebond, Montaigne critica alcune delle ragioni con lui l’uomo intende legittimare la perfezione, in particolare l’assurda la pretesa di essere simile a Dio. Inoltre, l’accostamento tra uomini e animali mira, in questo contesto argomentativo, a elaborare un atteggiamento scettico nei confronti delle pretese conoscitive umane, perché a suo parere le “presunte” grandi conquiste della ragione ci hanno aiutato a creare un mondo non migliore, bensì peggiore di quello degli animali. Il fatto che sappiamo apprendere molte cose non basta a impedirci di essere governati da funzioni e passioni corporee.
Invece, gli animali mostrano di possedere molte somiglianze con gli uomini: non soltanto essi sono dotati di sensibilità, bensì possiedono anche quelle facoltà che noi definiamo “intellettuali”. Montaigne anzi osserva che spesso gli animali si rivelano più intelligenti, più laboriosi, più riconoscenti e più sinceri: a che titolo dunque l’uomo si sente tanto superiore a essi? È evidente che gli animali possiedono facoltà e capacità assai simili alle nostre: a supporto di questa idea, Montaigne richiama esempi già presenti negli autori classici, come quello delle api che sanno ben governare la propria comunità o delle rondini che sono in grado, ogni anno, di fare il nido nella posizione migliore. La superbia umana è perciò un gran male, mentre sarebbe più proficuo affidarsi totalmente alla natura, come fanno saggiamente gli animali. “È chiaro che non è per un vero ragionamento, ma per una folle superbia e ostinazione che noi ci mettiamo al di sopra degli altri animali e ci isoliamo dalla loro condizione e compagnia”.
Infine, nemmeno il linguaggio è una facoltà soltanto umana: Montaigne si domanda a tal proposito come facciamo a essere certi che gli animali non comunichino tra di loro, dato che, per esempio, anch’essi mostrano di modulare i suoni a seconda delle diverse circostanze in cui si trovano. Non è neppure fedele alla realtà un’altra immagine molto in voga nell’antropologia classica, quella dell’uomo che nasce come l’animale più debole e che poi, in virtù di ragione e intelletto, si riscatta assoggettando tutti gli altri esseri viventi. La natura, invece, sostiene Montaigne, ha dotato ogni animale delle “armi” necessarie per vivere, per cui l’uomo deve smetterla di lamentarsi e di sostenere che la natura lo ha abbandonato a se stesso.
Nel secolo successivo le riflessioni sull’anima e il corpo dell’uomo, la constatazione della loro diversità essenziale (essendo il corpo una sostanza materiale e l’anima una sostanza spirituale), condurrà Descartes a concludere che gli animali, non potendo essere dotati di un’anima pensante, hanno solo un corpo che, come quello dell’uomo, sarà governato da leggi precise, fisse, naturali, ossia“meccaniche”. Ma l’idea dell’animale considerato come una “macchina semovente”, per fortuna, non sarà una delle intuizioni cartesiane più felici. E alla fine Montaigne avrà per molti aspetti ragione, se pensiamo a come, nei secoli, è migliorata la considerazione degli animali. I quali, si badi bene, non vanno considerati esseri umani, perché non lo sono, bensì esseri viventi con qualità, capacità, sofferenze, interessi e, forse, anche desideri. Ma di tale questione, vastissima, se ne può discorrere un’altra volta.

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