venerdì 28 maggio 2010

Stadio Heysel, 29 maggio 1985. Tragedia



Questa è la storia di un bambino. Undici anni e una incontrollabile passione per il calcio e per la Juventus. Una passione smodata che non lo fa pranzare o cenare quando c’è una partita; che rende le sue domeniche spesso cariche d’ansia, d’attesa e poi di una gioia irrefrenabile o di un’enorme tristezza. Un bambino un po’ eccessivo. Per questo il papà spesso cerca di distrarlo, di fargli amare altre cose; ma non ci prova più di tanto, perché è un bambino bravo a scuola. Dunque il papà gli permette di lasciarsi andare mentre guarda in TV o ascolta alla radio le partite della Juventus. E poi questa sera nulla può distogliere il bimbo dalla televisione; il papà lo sa e non dice nulla. Anche a lui piace il calcio.
Il bimbo quella sera mangia poco, è molto eccitato: è appena tornato da una gita con la scuola sul fiume Po e non sta più nella pelle, in attesa dell’inizio della partita. È la finale della Coppa dei Campioni, l’unica coppa europea che la Juve non ha ancora vinto, la coppa più prestigiosa, che la squadra insegue da anni, dopo aver perduto ben due finali: con l’Ajax nel 1973 e con l’Amburgo nel 1983. Il bimbo è impaziente di vedere i suoi eroi, con la maglia a strisce bianco-nere, scendere in campo. Perché questa volta è sicuro che vincerà la Juve: quella coppa non può sempre essere stregata. Anche se l’avversario, il Liverpool, è uno squadrone, composto da giocatori fortissimi, esperti. Ma forse un po’ decadenti. Per questo il bimbo, che ha seguito tutta la cavalcata della Juve quell’anno, è fiducioso.
A cena il bimbo mangia poco, ha lo stomaco chiuso per l’agitazione. La gita sul fiume Po è già dimenticata, perché ora c’è solo la Juve. La gita è stata bella, con i compagni di scuola non si è parlato d’altro che di calcio, la “Gazzetta” è stata la compagna fedele del giorno. Il bimbo non si ricorda quali luoghi ha visitato, né dove ha pranzato. Ha in testa solo la Juve, stasera, il divertimento, il pallone, l’emozione, il cuore che batte in attesa della partita.
Manca poco alla partita, sono quasi le sette e mezza. Il bimbo è impaziente. La Tv trasmette in diretta dallo stadio di Bruxelles, lo stadio Heysel. È il 29 maggio 1985.
Il bimbo è seduto sul divano vicino al papà, ma capisce subito che c’è qualcosa che non va. Perché il papà fa commenti strani, quasi preoccupati, mentre guarda le immagini. Pure lui ama il calcio, ma non è juventino, è milanista. Però non commenta la partita, che non è ancora cominciata; dice che sta succedendo qualcosa, qualcosa di brutto. Il bimbo guarda e non capisce, i suoi occhi non sanno ancora distinguere bene il “brutto”, soprattutto quando si tratta di una partita di pallone, cioè di qualcosa che per lui è il massimo della bellezza, del divertimento.
Eppure in quello stadio belga qualcosa di brutto dev’essere successo davvero. Il telecronista, Pizzul, non racconta la partita (che dovrebbe essere già cominciata), ma parla di incidenti; le immagini della Tv riprendono una curva piena di bandiere bianco-nere. Ma non sventolano affatto; il bimbo vede che i tifosi della Juve corrono, scappano, sembrano delle formiche che fuggono davanti a un gigante. Alcuni scappano verso il campo di gioco, ma ci sono poliziotti a cavallo che li bloccano, li manganellano; altri corrono verso altri tifosi, che però hanno le bandiere rosse, sono quelli del Liverpool: e si picchiano, tanto. Il bimbo non capisce, il papà dice: “che deficienti ... cosa fanno? Chi li ha fatti incontrare?”. I tifosi delle squadre avversarie non dovrebbero stare lontani in una partita così?
Il bimbo ha letto sulla Gazzetta che tra i tifosi inglesi ce ne sono alcuni molto cattivi, tremendi, chiamati “hooligan”; non sa cosa significa questa parola, però, ora che li vede in azione, capisce che sono tifosi molto bravi a menare le mani, a inseguire i tifosi avversari, a farli scappare. Ma anche gli juventini si danno da fare, sembrano cattivi anche loro.
Poi il telecronista dice che la partita non può iniziare: forse è rinviata, forse sospesa perché ci sono tanti feriti, qualcuno anche grave. Feriti gravi? Allo stadio? Il bimbo non ci crede. A un certo punto squilla il telefono: sono i nonni dalla Calabria che hanno visto le immagini e chiedono se il bimbo è lì a casa o se magari è andato a Bruxelles a vedere la partita. I nonni! Che esagerati! Il papà li tranquillizza. Mentre il bimbo sorride sentendo la telefonata, vede in Tv i giocatori della Juve in campo. Ma non sono lì per giocare: hanno la tuta addosso e parlano con i tifosi. Il bimbo riconosce Platini, Tacconi, Bonini, Scirea: tanti tifosi stanno attorno a loro, li abbracciano, li salutano, ma c’è anche qualcuno che piange, che quasi li prega…
Ma non si gioca allora? Sono le otto e mezzo ormai. Nessuno dice nulla in Tv. Poi, più tardi, il bimbo vede che ci sono tifosi con le bandiere e le sciarpe della Juve che sembrano accatastati l’uno sopra l’altro. Il papà, che è tornato sul divano, è sconvolto, dice che sono aggrappati a un palo di ferro, che saranno centinaia, che presto il muretto che confina con quel palo crollerà. Molti tifosi sono scappati verso quel muro per sfuggire ai tifosi del Liverpool: ma ora sono tutti ammassati, schiacciati. In Tv si vedono alcune facce: c’è chi ha i baffi, chi gli occhiali, i visi sono sconvolti. Si vede un uomo con una giacca blu sospeso nel vuoto: ha le gambe in mezzo alla folla, il corpo sul vuoto, ed è aggrappato disperatamente al palo di ferro… poi succede che tutti vengono giù, non si capisce bene, il telecronista dice che deve essere crollato il muretto. Si vedono tifosi cadere, altri tifosi correre sopra di loro, scappare, calpestare i corpi, i maglioni, i pantaloni degli altri e fuggire, liberi finalmente, verso il campo, verso la pista d’atletica.
Il bimbo si stringe al papà, ha una strana paura. L’emozione per la finale di Coppa dei Campioni è svanita. Ha visto quelle facce, quelle persone schiacciate contro quel muro, poi le ha viste cadere tutte insieme, a centinaia una sopra l’altra. Forse si sono salvate, si sono tolte dalla calca. Non si sa, perché il telecronista non dice nulla, le immagini della Tv inquadrano diversi settori dello stadio. Sono ormai quasi le nove. La Tv continua a dire che ci sono feriti gravi, forse “molto” gravi. Intanto il bimbo vede che ci sono poliziotti a cavallo davanti alla curva degli juventini, quella che è crollata. E poi vede tante ambulanze andare e venire, sembra una “guerra”, dice il papà.
Poi la notizia attesa: la partita si giocherà, l’Uefa, che organizza la finale, dice che se non si gioca succede il finimondo. E il bimbo ha di nuovo un sussulto d’emozione, perché ora la Juve scende in campo e bisogna tifare, vincere quella coppa. Però non è contento come altre volte, quando vedeva le partite…
Alle 21.15 comincia la partita, con un’ora abbondante di ritardo. Il bimbo vede i suoi eroi, recita a memoria la formazione della sua squadra, di quella fortissima Juventus piena di italiani campioni del mondo e di quel poeta del pallone di nome Platini. Il bimbo non pensa ad altro, se non alla partita. Il cuore batte forte. Ma il telecronista non alza la voce quando c’è un’azione pericolosa, né sembra raccontare una partita; il tono della sua voce è monocorde, mesto. Spesso non parla della partita, ma delle notizie che arrivano dallo stadio, dagli ospedali di Bruxelles. Dice che fuori dallo stadio sono state montate alcune tende dove sono curati i feriti più gravi. Poi dice che sente continuamente sirene di ambulanze. Poi dice che forse c’è stato un morto tra i tifosi italiani; il bimbo non ci crede, il papà è sconvolto, nemmeno lui ci crede. Ma perché il papà è così sconvolto? Non conosciamo nessuno che è andato a Bruxelles. Il bimbo non capisce bene…
Il primo tempo scivola via, zero a zero. Ma il Liverpool è forte, il bimbo freme, ha paura, perché la Juventus soffre, ha rischiato di prendere più volte il gol, non ha attaccato molto. Ci manca pure di perdere anche questa finale!
Inizia il secondo tempo e la Juve sembra più intraprendente. Finalmente i suoi campioni si sono svegliati e Platini comincia a pennellare poesia con i piedi. La partita è combattuta, coinvolgente, ma il telecronista non sembra accorgersene: dice che forse c’è più di un morto, che le autorità belghe non diffondono notizie attendibili, che certe cose non possono succedere in uno stadio. Il bimbo non ascolta più: vede un pallone lanciato da Platini, vede Boniek che corre verso la porta del Liverpool, da solo. Poi però cade: l’arbitro fischia il rigore, non si capisce bene perché, Boniek era fuori area. Ma è rigore. Platini segna, esulta, il bimbo è felice, corre per il salotto di casa pieno di gioia. La partita riprende e quelli del Liverpool sembrano indemoniati: attaccano con forza, vogliono pareggiare, Tacconi para tutto, è il migliore in campo. Alla fine la Juve vince, la Coppa dei Campioni prende la strada di Torino.
Il bimbo ha seguito con il cuore in gola il secondo tempo e al fischio finale può liberare la sua gioia. Non sta più nella pelle. Il papà invece ha la faccia triste, ma non dice nulla al bimbo, lo lascia sfogare. Forse, quando sarà più grande, capirà, e lui gli spiegherà la tragedia che si è consumata allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio 1985. Ma stasera il papà vuole fare sognare suo figlio ancora un po’. Fra qualche tempo gli parlerà dei 39 morti di quella sera.

mercoledì 19 maggio 2010

L'anti-lirico Edoardo Sanguineti



È difficile non scrivere un "coccodrillo" quando muore un uomo di cultura già anziano. Sanguineti però era un poeta, e, non è retorica, non credo che "intellettuale" e "poeta" siano sinonimi, soprattutto oggi.
Leggendo e rileggendo a casaccio versi sanguinettiani, questo pomeriggio, mi ha colpito il suo antilirismo. Perché questo antilirismo non significa solo amore per l'avanguardia, gusto anti-retorico, scarsa attrazione verso l'ermetismo ecc., ma soprattutto è una "dissacrazione religiosa" del reale.
Questa espressione non è un ossimoro, ma mi è nata in animo rileggendo Sanguineti. Non ci avevo mai pensato prima, ma la bellezza del leggere i poeti consiste anche nel sentire, ogni volta che li si legge, qualcosa di nuovo.
In Sanguineti gli "oggetti" sono veri, esistono, non correlano nulla. Non rimandano a nulla, se non a se stessi, al poeta che cerca: "e spegnevo la luce, e la riaccendevo, e ancora spegnevo,/ di nuovo; e dicevo, nel buio, ma immobile: ma non succede niente". Perché il poeta non "usa" un linguaggio canonico, esoterico, ma attraverso la sua lingua ri-crea l'universo, perché le parole non sono solo segni, bensì hanno carne e forse ossa.
E poi, più in là del Gruppo '63, quei versi così lunghi, quasi uno sfregio alla stringatezza ungarettiana... e quella volontà di non "mandarla a dire", ma di affrontare la realtà, il dibattito poetico, per non sottrarsi al dovere di dissacrare una verità enunciata come pura. Ma dissacra argomentando, non togliendo il saluto.
Rispondendo a Franco Fortini che difendeva l'oscurità del linguaggio poetico come passo necessario che chi scrive poesia deve compiere per diventare chiaro, Sanguineti scrive:


la poesia è ancora praticabile, probabilmente: io me
la pratico, lo vedi,
in ogni caso, praticamente così:
con questa poesia molto quotidiana (e molto
da quotidiano, proprio): e questa poesia molto
giornaliera (e molto giornalistica,
anche, se vuoi) è più chiara, poi, di quell'articolo di
Fortini che chiacchiera
della chiarezza degli articoli dei giornali, se hai
visto il "Corriere" dell'11,
lunedì, e che ha per titolo, appunto, "perché è
difficile scrivere chiaro" (e che
dice persino, ahimè, che la chiarezza è come la
verginità e la gioventù): (e che
bisogna perderle, pare, per trovarle): (e che io dico,
guarda, che è molto meglio
perderle che trovarle, in fondo):
perché io sogno di sprofondarmi a testa prima,
ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi che ho
perduto tutto, o quasi): (e
questo significa, credo, nel profondo, che io sogno
assolutamente di morire,
questa volta lo sai):
oggi il mio stile è non avere stile.
(1977)

Non so perché ho riportato questi versi, ma oggi mi sono parsi i più significativi che ho letto di Sanguineti. L'ultimo verso, poi, non è retorico, né programmatico, né moralistico, ma è un richiamo a una purezza, alla schiettezza poetica. Magari alla sua elegante rozzezza. Forse merce rara...

venerdì 7 maggio 2010

L'odore delle case che si abbandonano



Si cambia, ci si sveste di alcuni panni, se ne indossano altri, ma poi il "contenuto" rimane abbastanza uguale a sé. Eppure, quando i traslochi si succedono con frequenza, il sospetto che si fugga da qualcosa diventa concreto. Ma non siamo alberi, né pietre, e dunque camminare è il nostro destino. E si cammina con i piedi, con la mente, con le parole. Ma ciò che si lascia non scompare e il suo ricordo, talvolta, si lega alle cose più singolari: una voce stridula, il verso di un'oca, un odore particolare. Ecco allora che, sull'orlo di un nuovo spostamento, è sufficiente un odore, conosciuto, per risvegliare una cascata di ricordi, sensazioni, pensieri. Non vorrei tirare in ballo la teoria del "correlativo oggettivo", ma più o meno è andata come dice la poesia...

L’odore di una casa che si lascia
è sempre vecchio, ammuffito.
Le ore puzzano senza saperlo
e le tendine non proteggono più,
ma sfidano l’odore, lo assumono su di sé,
stemperandolo nel dolore
per un altro inatteso abbandono.
L’anno scorso l’odore era profumato,
vestendo d’illusioni l’avvenire;
era come una porta aperta,
una luce fissa su felicità attese.
Poi qualcosa non è andata bene,
l’idea del futuro era già vecchia, confusa,
l’avvenire agognato, nelle sue pieghe di speranze,
era solo un capriccio di adolescente.
O forse era solo un fuggire circolare, inutile,
e non avrebbe portato a nessun dove,
né a un progetto, a un’idea,
a un filo, una ragnatela, a qualcosa,
a un nuovo modo di esistere o essere.
Un avvenire profumato non puzza di nulla:
un libro da scrivere non ha muffe,
e le parole si sciolgono tra le dita dell’autore,
mentre le tendine offendono il sole
godendosi egoiste il vento che corre.
Quando l’odore di casa è vecchio
e un anno trasparente scivola via, vergine,
la riserva di illusioni è vuota;
l’inizio, la fine, la noia dell’oggi
sono insetti estivi, muffe bianche,
funghi che sguazzano nell’umidità dei giorni morti.
L’istante si rinnova solo in apparenza,
poi le gocce di pioggia ritornano, insultanti,
a picchettare il davanzale delle case degli altri,
le più belle della strada.
Non la mia.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...