martedì 22 giugno 2010

Carlo Michelstaedter, cento anni dopo...



Quando scrive alla madre: “Ora è il tempo che io agisca, ora è tempo che tu riceva e che io dia, che io per la mia forza riempia la tua speranza, che ti sia per la mia azione per le mie opere veramente l’uomo che hai sognato … Io ho qualche cosa da fare in questo mondo, so quello che voglio fare”, non sembrava sull’orlo del suicidio. E invece, appena un mese dopo, Carlo Michelstaedter si toglierà la vita, il 17 ottobre 1910. Aveva 23 anni. Sono passati da quel momento quasi cento anni…
Michelstaedter è un filosofo da leggere, rileggere, forse non da studiare in senso classico, pedante; perché non espone un sistema filosofico (è morto appena completata la sua tesi di laurea), ma dona spezzoni di sapienza a chi sappia ascoltare. Scrive bene, è un uomo di letteratura. Non sempre i filosofi suono buoni letterati, anzi.
Michelstadter è stata una voce isolata nell’Italia d’inizio secolo, sia perché era nato a Gorizia, ancora sotto l’impero asburgico (ma poi studierà a Firenze), sia perché l’Italia allora era dominata, filosoficamente, dall’idealismo crociano-gentiliano. La filosofia italiana, naturalmente, aveva anche altri protagonisti; alcuni di essi erano spesso imbevuti di un nazionalismo chiassone, di un irrazionalismo che scimmiottava Nietzsche. Altri protagonisti della filosofia italiana, invece, erano uomini nobili e pieni di contenuto, ma minoritari.
La tesi di laurea di Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, è un bellissimo libro. Tra le altre cose, esso contiene una denuncia di un modo di vita illusorio e del tutto inautentico. Attraverso questa critica della sua contemporaneità, il giovane filosofo, ignorato per anni dalla critica italiana, anticipa l’esistenzialismo, e lo fa vivendo su se stesso, sulla propria pelle, il disagio, la percezione di un abisso interiore infinito, la sofferenza, la mancanza di senso dello stare al mondo, che altri esistenzialisti, invece, vivranno in modo puramente distaccato e intellettuale.
Mi colpisce, di Michelstaedter, l’analisi che lui compie della società del primo decennio del ‘900. Partendo da un pessimismo che guarda a Schopenhauer, ma che appare molto più “vissuto” e sofferto sulla propria pelle, Michelstaedter sostiene che la maggioranza degli uomini vive secondo la “rettorica”, ossia secondo la via, all’apparenza più comoda, che nutre l’illusione di poter porre una protezione, un velo, che possa occultare il volto drammatico dell’esistenza. È un’illusione ben architettata, che agisce in campo sociale, economico, religioso e spirituale in molte forme, per esempio “inventando” l’idea di un’anima immortale che è una prima catena che blocca la vita dell’uomo: “[gli uomini] da quando sono nati, qualunque cosa facciano o dicano, hanno già il privilegio di un’anima immortale che li accompagna dalle braccia alla balia, dai primi passi, dalle prime cadute per tutti il triste giro della loro ansia, del dolore, della paura per tutte le illusioni e delusioni, le transazioni, gli accomodamenti: fino al letto di morte. E nello sguardo umido e supplichevole che invoca dal dottore la continuazione qui sulla terra, e del prete la continuazione oltre tomba, dove dà l’ultimo guizzo la paura della morte, essa ancora là è l’anima immortale”.
È una società che sembra evolvere, che grazie all’autonomizzazione del lavoro, alle macchine, a un aumento (relativo) del benessere, sembra poter guardare con ottimismo al futuro; ma non è così. In essa albergano disorientamento, frustrazione, risentimento. E la religione istituzionalizzata, svuotata di spiritualità autentica, è alla fine solo complice di questo sistema che depaupera la ricchezza dell’essere umano.
Michelstaedter pensa che questo disagio esista perché l’ordine sociale, basato sulla subordinazione di tanti in funzione della ricchezza di pochi, abbia allontanato dall’uomo quel bisogno di spiritualità e di vera esistenza che dovrebbe albergare in tutti noi. La società moderna, capitalistica, crea infatti un controllo stretto sugli uomini; è un controllo all’apparenza non violento, ma nella realtà ben peggiore di quello costruito con le armi. Per l’uomo moderno non esistono più sorprese, né possibilità di sperimentare la propria forza creativa: ogni cosa è già pronta per lui; per esempio, l’operaio non è un artigiano, non deve usare la creatività nel suo lavoro, ma deve limitarsi a svolgere un “compito” già assegnato; ognuno deve seguire una strada già tracciata dal sistema sociale e politico. Non c’è spazio per le deviazioni e per gli errori:
“[l’uomo] è sotto tutela, non ha voce; deve guardare, invece, d’andar dritto pel sentiero che gli hanno preparato, dove conduca non è cosa sua. Agli occhi porta come i cavalli da tiro i ripari perché non gli accada di guardar a destra o a sinistra. La sua previsione deve limitarsi a quella strada e a quel tratto prossimo per guardar di non incespicare”.
La riflessione di Michelstaedter non è politica, ma è più generale, perché egli pensa che anche la politica, in sé, non serva per riscattare l’uomo. La politica è infatti fatalmente complice di un sistema che vuole annullare l’individualità, diluirla in un’indistinta massa di persone silenti, lavoranti che obbediscono non più in quanto costrette, ma ormai volontariamente, perché la loro autonomia esistenziale è stata sapientemente annullata. D’altra parte, se qualcuno tenta di ribellarsi a un ordine costituito, viene bollato all’istante con aggettivi quali “pazzo”, “folle” e viene emarginato:
“La società che non può difendersi dalle verità enunciate da quelli, che per lei sono rivoluzionari e che minacciano la sua sicurezza, ‘onestamente’ rispondendo con argomenti razionali agli argomenti, ma opponendo la violenza e la materialità del suo esistere come dato di fatto, quando non li può imprigionare come delinquenti, può porre così la pregiudiziale della pazzia e non incaricarsene. Se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce, ma il ben peggiore calvario d’un indifferenza inerte e avrebbe la soddisfazione di esser un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi”.
Le ultime tre righe di questa citazione, poi, mi hanno particolarmente colpito per due ragioni. La prima, abbastanza intuitiva, riguarda l’estrema modernità della riflessione di Michelstaedter, perché non mi pare che queste parole non possano adattarsi alla società attuale. Forse sono parole universali, adatte in ogni tempo alla società degli uomini. In fondo i grandi pensatori, gli artisti del pensiero, sono tali perché scrivono parole che non diventano mai fuori moda.
La seconda ragione è legata al tema del ritorno di Cristo nel mondo. È un tema religioso solo in modo indiretto, perché concerne la religiosità dei gesti e dei pensieri, non quella delle istituzioni. Anzi, polemizza con quelle istituzioni che intendono rappresentare Dio in terra.
Non so se Michelstaedter avesse letto il libro di Dostoevskji, I fratelli Karamazov; ma in un celebre capitolo di quest’opera, intitolato Il grande inquisitore, Ivàn Karamazov racconta una storia che parla del ritorno di Cristo nel mondo quindici secoli dopo la sua morte. E afferma che Cristo sarebbe stato certamente incarcerato, processato e condannato a morte dalle stesse autorità ecclesiastiche, da un feroce inquisitore. Ma perché? Perché gli uomini, come dice l’inquisitore a Gesù, hanno bisogno di un’autorità forte, proprio quella da lui rappresentata, che dia al popolo i suoi veri bisogni materiali e richieda loro obbedienza, in modo che essi siano davvero felici. Non dover pensare da soli, non dover capire da soli quel che è benefico, ma essere sempre guidati: invece, chi esorta gli uomini a essere liberi, autonomi, è braccato, minacciato, ucciso. Come succede a quel Gesù redivivo.
Alla fine di queste riflessioni, un pensiero mi è sorto, rileggendo queste pagine: cosa accadrebbe se Cristo tornasse oggi? Di certo sarebbe visto come un povero idealista, un illuso; o forse, come un pericoloso eversore dell’ordine della società, come un pericolo. Ora che i manicomi ufficialmente non esistono più, non so quale fine farebbe, di certo non avrebbe molto spazio nella vita del nostro tempo.
Ma la filosofia di Michelstaedter, ovviamente parziale e incompiuta, offre una piccola, parziale soluzione, alla vita “retorica” e inautentica. Sono parole, forse un po’ vaghe, ma m’immagino la passione che ha spinto l’autore a scriverle e allora non posso non riportarle: “Non dare agli uomini appoggio alla loro paura della morte, ma toglier loro questa paura; non dar loro la vita illusoria e i mezzi a che sempre ancora la chiedano, ma dar loro la vita ora qui e tutta, perché non chiedano: questa è l’attività che toglie la violenza alle radici”.

venerdì 11 giugno 2010

Guccini, omaggio a un burattinaio di parole



Gli auguri si fanno a persone conosciute; a quelle sconosciute ma note perché artisti, si può offrire un pensiero, un omaggio affettuoso. Anche se questo omaggio non arriverà mai nelle mani del “festeggiato”.
La canzone qui sopra, una delle tante affascinanti, racchiude in sé sia il tema del disagio esistenziale, la perdita di alcune certezze e dell’innocenza di una generazione (“Ma le strade sono piene di una rabbia che ogni giorno urla più forte/ son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte”) che, anche nella pacifica Bologna, si avviava a vivere gli anni di piombo. E fa tenerezza ascoltare l’autore che canta “Io ora mi alzo tardi tutti i giorni, tiro sempre a far mattino” oppure “ma non ho scuse da portare, non dico più d’essere poeta,/ non ho utopie da realizzare: stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta” oppure: "non passo notti disperate/su qyel che ho fatto o quel che ho avuto,/ le cose andate sono andate e ho come unico rimorso/le occasioni che ho perduto".
Chissà se Guccini, all’alba degli anni ’70, era veramente così dimesso, così angosciato, così tanto “francese” e così poco “americano”, dylaniano, come alla fine degli anni ’60.
Ma questa canzone, e l’album che la contiene (Stanze di vita quotidiana, 1974), secondo me sono importanti per altri due motivi. Il primo, facile da esporre, è che, da quel momento in poi, Guccini apparirà tutt’altro che dimesso e rinunciatario. Il secondo, invece, è gustoso. Quel disco, che Guccini afferma di aver “odiato” perché fu lunghissimo da registrare a causa dei dissidi con il suo produttore d’allora, venne recensito da un giovane critico musicale, Riccardo Bertoncelli. Bertoncelli criticava il tono dimesso delle canzoni, la tendenza rinunciataria, la volontà di chiudersi dentro il piccolo mondo antico delle osterie bolognesi; poi criticava gli arrangiamenti confusi e chiassosi dell’album (e aveva ragione!), mentre concludeva con un’ingenerosa critica a Guccini, definito ormai un autore che non ha più niente da dire e che pubblica dischi solo per vendere. I due poi si conobbero e diventarono quasi amici, appianando il dissidio, anche se nel 1976, nella celebre Avvelenata, Guccini dice che, alla fine, ci sarà sempre “un Bertoncelli a sparare cazzate”. E Bertoncelli, forse, lo ringrazia ancora di questa notorietà.
In effetti Canzone delle osterie di fuoriporta è molto più bella quando è eseguita dal vivo, perché nell’album aveva una struttura musicale un po’ caotica. L’album, tanto vituperato, contiene però un’altra perla di Guccini, Canzone per Piero, che è una nobile volgarizzazione del Dialogo tra Plotino e Porfirio di Leopardi (autore citato peraltro nella canzone).

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...