domenica 26 giugno 2011

Parlare di un classico: "La nausea" di Jean-Paul Sartre



“… il primo giorno di primavera, capisce il senso della sua avventura: la Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza”. Queste parole rappresentano una delle epifanie cui va incontro Antonio Roquentin, protagonista del capolavoro di Jean-Paul Sartre, La nausea (titolo scelto dall’editore, Gallimard, non dall’autore), che, nella finzione narrativa, è un diario scritto dallo stesso Roquentin.
La fama di filosofo e di intellettuale di Sartre è legata a opere diverse. La nausea è un romanzo filosofico, un’opera di filosofia in forma prosastica oppure un’opera di narrativa con sostanza filosofica. Essa contiene una parte dell’esistenzialismo di Sartre; mi permetto di dire “una parte” dell’esistenzialismo, perché in questo libro, pubblicato nel 1938, Sartre espone un’analisi dell’esistenza nella sua gratuità e insensatezza. È come se egli si fosse limitato a rilevare il lato oscuro del vivere, la forza nullificante dell’esistere; più tardi, penso a L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre si soffermerà sul lato illuminato dell’esistere, scrivendo per esempio: “noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore che lui e che proprio nell’abbandono egli deciderà se stesso; e perciò noi mostriamo che, non rivolgendosi verso se stesso, ma sempre cercando fuori di sé uno scopo… l’uomo si realizzerà pienamente come umano” (citazione tratta dall’edizione Mursia 1995).
La nausea costituisce una sorta di presa di coscienza della gratuità dell’esistere, del suo non dipendere da alcuna forza metafisica, da alcuna entità divina: solo dopo aver sperimentato questa innata tragicità dell’esistenza, solo dopo essere affondato nella solitudine più assoluta, l’uomo può “risorgere”, scoprire, secondo la celebre espressione di Sartre, che nell’uomo l’esistenza precede l’essenza.
Certo questa scoperta e questa consapevolezza sono ardue da raggiungere e non sono alla portata di tutti. Ne La nausea il protagonista (se così si può chiamare) è un uomo che appare al crepuscolo della vita e che scrive un diario; benché giovane, egli sembra non abbia più nulla da chiedere al mondo. Ha rinunciato a tutto: all’amore, alla carriera; vive in provincia, quasi nascosto, in mezzo a persone concrete, sode, che si danno grandi pacche sulla spalle quando s’incontrano per strada e che non pensano all’esistenza, né si pongono domande su di essa. Roquentin, invece, ci pensa, si pone domande, ma non gli serve a nulla; anzi, si rende conto di non essere migliore degli altri, di quegli uomini pieni di sostanza e di materialità che non perdono il loro tempo, non lo sprecano in vane elucubrazioni.
Lui, Roquentin, invece dilapida il proprio tempo, la propria vita. Non sa voler bene, non ha più avventure di alcun genere, ma solo “storie”, passivamente vissute e passivamente lasciate morire. Passa il tempo in biblioteca a scrivere un libro su un uomo del XVIII secolo, ma presto si accorge che un uomo morto non può salvare un vivo. Scrivere allora è un semplice divertissment, ma senza alcun richiamo a Pascal, perché questa attività non concede a Roquentin nemmeno l’illusione di stare bene e in pace con se stesso. L’uomo si rende conto che il suo tempo non è “occupabile”, perché ciò che lo angustia non è il tempo fisico, che trascorre per tutti con i suoi ritmi spesso monotoni e noiosi, bensì un tempo di coscienza, una “durata” che non scorre mai veramente per lui, poiché lo tiene sempre bloccato in un ristagno di pensieri e malinconie inestricabili: “… il tempo è troppo vasto, non si lascia riempire. Tutto ciò che uno vi getta s’ammollisce e si stira” (tutte le citazioni sono tratte dall’edizione Einaudi de La nausea uscita nel 1990).
Chi lo può aiutare? Nessuno. Nessuno può comprenderlo, né potrebbe condividere con lui un’angoscia esistenziale assai profonda. Ma cosa lo fa soffrire tanto? E perché si isola dagli altri uomini? Roquentin non lo sa dire. Avverte che c’è qualcosa che non va, qualcosa che è in putrefazione nell’aria, nelle cose, dentro lui stesso, ma s’accorge altresì che le parole quotidiane, il cui senso gli appare artefatto, insufficiente, vacuo, non possono descrivere il suo malessere. Ben presto anche la scrittura diventa un’attività inutile e dannosa; eppure, alla fine, proprio la scrittura aprirà una flebile speranza. Ma quel momento è ancora lontano.
Un giorno, quasi per incanto, Roquentin vive però un’epifania triste e amara. Egli si rende conto che è un’indefinibile nausea lo angustia, ossia la consapevolezza oscura che la ricerca del significato dell’esistenza non ha senso. È una ricerca per la quale egli ha impiegato vanamente anni della sua vita, per giungere a rinchiudersi in una città di provincia. Niente allora possiede un senso, dal momento che quel che ci avvolge è un immenso nulla che diventa il tutto, perché è il nulla che scaturisce dal tentativo di dare un significato razionale e obiettivo alla vita, un Dio agli uomini, una spiegazione al fenomeno della percezione.
Solo la Nausea esiste e, almeno per il momento, questa è l’unica, vacillante, certezza che Roquentin dimostra di possedere, quando, un giorno, scrive: “Se mi avessero domandato che cos’era l’esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alla cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d’un tratto era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza si era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata dell’esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, era tutto scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice”.
Si tratta di un’epifania tragica ma chiarificatrice, perché da qual momento il protagonista, benché in modo inconsapevole, comincia a comprendere qualcosa, sebbene confusamente. Il problema è che tale epifania, al momento, è fraintesa e invece di generare sollievo, produce angoscia. Al termine di un tormentato percorso di progressiva presa di coscienza, l’uomo si scopre solo al mondo e si rende conto che non valgono più le costruzioni metafisiche, le credenze, le fedi, le convinzioni sul senso e sulla direzione dell’esistenza. Ecco allora che la vita stessa appare vana, e l’uomo si trova paralizzato da un senso di vuoto che non gli consente di sceglie niente: “Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione di esser lì, né gli uni e né gli altri; ciascun esistente confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri”.
L’epifania del protagonista de La nausea appare assoluta, senza veli di Maya, né finzioni. L’esistenza, brutalmente, si svela per quello che “non è”, e l’uomo si rende conto che nessuna fede, nessuna logica raziocinante, nessuna finzione, può rendere meno cruda l’esperienza della gratuità assoluta dell’esistere: “Esistere è essere lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno credo che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza, la perfetta gratuità”.
Pur non essendo uno studioso di Sartre, né un esperto conoscitore del suo pensiero, mi pare di poter dire che tra il Sartre in apparenza “indolente” de La nausea e quello che ha teorizzato la necessità dell’impegno per l’intellettuale dopo la scoperta della radicale solitudine metafisica dell’uomo (che è solo ciò che lui sceglie di essere) non vi sia contraddizione. Credo di poter dire, anzi, che l’epifania cui va incontro Roquentin sia un passo necessario per potere, in seguito, prendere nelle proprie mani il proprio destino. Penso a un libro come La morte nell’anima, sempre di Sartre che, se ricordo bene, era il primo passo verso una descrizione di un individuo non più indolente e ritirato in provincia, ma di un individuo impegnato, anche a causa della guerra e della partecipazione alla Resistenza.
D’altra parte, per tornare a Roquentin, mi sembra interessante notare come la sua epifania drammatica non si concluda solo con la scoperta della Nausea, poiché nelle ultime pagine del romanzo il protagonista ha una piccola illuminazione, allorché ipotizza che l’esistenza possa avere un senso umbratile, nascosto, che si svela solo al passato, scrivendo di essa, come ha fatto Roquentin. Le parole scritte, infatti, benché prive del tono vivido dei fatti quotidiani, possono costruire una narrazione che, sebbene solo a posteriori, può offrire un’immagine della propria esistenza, una sorta di fotografia sbiadita ma abbastanza reale. Che sia un’àncora di salvezza questa? La possibilità di accettarsi solo al passato? Chissà. La nausea si conclude comunque con queste riflessioni di Roquentin: “Un libro… Ma naturalmente da principio ciò non sarebbe che un lavoro noioso e stanchevole; non m’impedirebbe di esistere e né di sentire che esisto. Ma verrebbe pure un momento in cui il libro sarebbe scritto, sarebbe dietro di me e credo che un po’ della sua luce cadrebbe sul mio passato. Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare la mia vita senza ripugnanza. Forse un giorno, pensando precisamente a quest’ora, a quest’ora malinconica in cui attendo, con le spalle curve, che sia ora di salire sul treno, sentirei il mio cuore battere più forte e mi direi: quel giorno, a quell’ora è cominciato tutto. E arriverei – al passato, soltanto al passato – ad accettare me stesso”.

giovedì 9 giugno 2011

Le elezioni amministrative: illusione o "quasi" realtà?



La sinistra ha vinto le elezioni amministrative senza nemmeno aspettarselo: è questa la prima impressione che si ricava, ascoltando i leader di un PD incredulo sul successo. Ma si tratta di un successo? I numeri lo dicono. Tuttavia, per riferirsi alla vicenda di Milano, penso che il PD, quando c’erano state le primarie in autunno, aveva puntato su un uomo senza dubbio capace, un ottimo professionista, ma, come dire, un po’ troppo organico al partito. Per fortuna, il “popolo” delle primarie ha fatto saltare il banco e ha premiato Pisapia. Perciò, mi domando: se il candidato sindaco del centrosinistra a Milano fosse stato Stefano Boeri, Letizia Moratti sarebbe stata riconfermata sindaco? Forse.
Il caso di Milano (ma anche di Cagliari, credo, e di Napoli, dove il PD ha dato vita a uno spettacolo penoso con le primarie), insegna alcune cose. Primo, non è vero che la sinistra è destinata a essere minoranza in questo Paese. O meglio, è vero che in Italia esiste un blocco sociale conservatore, se non reazionario, che ha una grande influenza, che guarda ai propri interessi e si nutre di slogan politici semplici ed immediati perché diffida della politica e preferisce delegarne la gestione a un solo uomo. Si tratta di quell’impasto di qualunquismo, meschinità culturale ed egoismo di classe che è stato alla base del fascismo, e che il berlusconismo, nonostante si definisca “liberale”, incarna in modo mirabile. Questo blocco sociale era presente, sebbene in modo più defilato, anche negli anni ’70, gli anni dell’impegno politico; a partire dagli anni ’80, tale blocco sociale ha ripreso vigore, sfruttando la stanchezza del paese, dopo quasi due decenni di lotta politica spesso inconcludente e violenta. Dopo aver cercato in Craxi il proprio referente politico, dopo aver occhieggiato alla Lega Nord, tale blocco si è innamorato, nel 1994, di Berlusconi e non ha più avuto paura di mostrarsi per quello che è: illiberale, qualunquista, antipolitico e anti-culturale (non nel senso di “privo di cultura”, bensì nel senso di diffidente verso una cultura che giudica egemonizzata dalla sinistra). Chiedo perdono se generalizzo, ma è per farmi capire.
Eppure, nonostante le presenza di questo blocco sociale, nonostante la sua forza, queste elezioni mostrano che anche la sinistra può dire la sua in Italia e che non deve stupirsi se vince le elezioni. La sinistra italiana, traumatizzata dalla disfatta del 2008, sgomenta di fronte al successo culturale del berlusconismo e alla povertà di idee di un’intera generazione di uomini di partito ormai in declino (da D’Alema a Veltroni), forse ha vinto proprio perché, sicura di perdere, ha deciso di essere se stessa. Si è resa conto che fare la brutta copia della destra, proporre politiche di destra rivedute e corrette in senso buonista, è deleterio, perché chi è di destra ovviamente preferisce l’originale alla copia, mentre chi è di sinistra spesso si astiene. Per questo si può ipotizzare, che la sinistra abbia vinto perché convinta di perdere. Per esempio, mi domando: il PD milanese avrebbe sostenuto con tanta convinzione Pisapia se fosse stato convinto di poter vincere le elezioni?
Un’altra riflessione che mi sorge spontanea è legata alle primarie. E si tratta di una riflessione lapalissiana: quando le primarie sono un’autentica competizione, spesso fanno vincere il candidato più adatto, quello che ha già conquistato un pezzo di elettorato. Per cui, basta aver paura delle primarie, basta temere il pronunciamento degli elettori, basta snobismo verso la “ggente”, basta con l’idea che il popolo vada comunque guidato, anche in modo velato, perché da solo cade nello spontaneismo e sceglie con emotività. Per cui, sì alle primarie vere, aspre, con tanti candidati che competono, e basta con le primarie in cui è già tutto deciso (tipo quelle del 2005 e del 2007).
Un altro insegnamento potrebbe essere questo: una grossa fetta dell’elettorato italiano ha fame di vera democrazia, ed è stanco della telecrazia berlusconiana, di vedere l’etica ridotta a burla, di vedere la giustizia presa in giro, di vedere che viviamo in una società dove tutto appare in vendita e dove trionfa il cinismo sempre e comunque. Invece, c’è ancora qualcuno che sostiene l’etica, senza essere moralista; che non ha paura di difendere la scuola pubblica, per esempio, o di battersi per i diritti dei migranti senza per questo ignorare la giusta esigenza di sicurezza dei cittadini. Perché vergognarsi di essere di sinistra? Perché aver paura a dire quel che si pensa, pur facendo la figura dei sognatori e degli idealisti? È un peccato? No. Anche se, per vincere le elezioni è necessario pure un tocco di pragmatismo.
Infine, il futuro. Mistero. C’è ha la sensazione che possa verificarsi un cambio politico epocale in Italia, ma si sa anche che l’Italia è un paese politicamente assai refrattario alle svolte, ed è impregnato di gattopardismo. Di certo Berlusconi non mollerà la presa da solo. Sarà dura scalzarlo. E il centro sinistra che deve fare? Domanda delle cento pistole. Forse dovrebbe, da subito, smetterla di stropicciarsi gli occhi, incredulo, di fronte alla vittoria alle amministrative. Dovrebbe diventare un po’ meno politicamente e un po’ più autentico. Dovrebbe lasciar perdere il “terzo polo”, che ha preso pochi voti, e allearsi con chi gli è più vicino.
Il centro-sinistra si trova nella situazione di quella squadra di serie B che, andando a giocare contro una squadra di serie A, alla fine del primo tempo, contro tutti i pronostici, vince inaspettatamente 2-0. Riuscirà nel secondo tempo a non cedere all’emozione e a portare a casa la vittoria? Chissà…

venerdì 3 giugno 2011

"La vita in versi" di Giovanni Giudici (1924-2011)


Poco più di una settimana fa è morto Giovanni Giudici. Un altro “pezzo” della poesia italiana del Novecento se ne va; è normale, certamente, l’età, il tempo corre via per tutti, e non hanno perciò molto senso le litanie sulla scomparsa dei poeti veri. Però, si afferma talvolta, quando muore un poeta una piccola luce si spegne, nel cielo della cultura e della letteratura. La frase è banale, ma efficacissima, come efficacissime sono le poesie di Giudici, che nella vita ha fatto il giornalista, l’impiegato, il maestro (nel senso di “colui che insegna a scuola”), ma soprattutto è stato poeta. Perché un mestiere “si fa”, mentre un poeta “lo si è”. Differenza non da poco, quella che passa tra un fare e un pensare, tra un trasmettere conoscenze e dare forma a propri moti interiori attraverso il verso, la rima.
Ma i poeti muoiono veramente? Fuor di retorica, sì, come tutti; eppure qualcosa rimane, è inevitabile, soprattutto se sono riusciti a infrangere, almeno in alcuni punti, il muro dell’anonimato, della banalità, della noia. A trovare “quella maglia rotta nelle rete” di cui Montale ha parlato e scritto. Allora certi poeti, possiamo dire, muoiono, sì, ma non “scompaiono”. Forse anche Giudici, come altri, ha così raggiunto quella condizione, che lui ha descritto in alcuni suoi versi, paragonabile a quella “di chi mai non sia giunto/A esserci né a sparire”.
Per omaggiare e salutare questo raffinato e, all’apparenza, semplice poeta, vorrei citare una poesia che è una sorta di suo manifesto poetico, La vita in versi, dove troviamo a mio parere una terzina iniziale mirabile,che tratteggia il senso dello scrivere una poesia paragonandolo, forse, al tentativo riprodurre fedelmente una scena veduta ma mai del tutto compresa.


Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l'evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d'accordi. E gli astanti s’affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l'illustre.

Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...