sabato 22 settembre 2012

DIARIO POETICO. SETTEMBRINO




1 settembre
La sorpresa del non passare di qualcosa che appare eterno
svanisce la sera sullo spiovente tramonto arancio.
Un’unica idea guida gli umani afosi: abbeverarsi
e poi riarsi di caldo tornare a dormire in nottate umide
sfidando i pensieri sfibrati sulle proprie miserie
e misere esistenze che non scorrono mai veramente.
Non iniziano e non finiscono.

2 settembre
Poi anche se cade acqua da qualcosa o da qualcuno lassù
è cenere di passato che ingombra alla fine le terrazze
che mostrano fiori marci dentro vasi pieni di terra vermifera.
Sul ballatoio un suono di chitarra si spegne alla festa paesana
e il borgo rio, natio, ma senza più Silvie sbeffeggianti
accende uno a uno i propri lampioni arancioni
e il cielo notturno rosseggia d’un colore innaturale.

4 settembre
Ciaf-ciaf d’olio e di frittate con uova appena colte
dal culo caldo di galline senza voce e con poca fantasia;
solo allora il mistero dell’esistere dà angoscia
e poi l’angoscia diventa panico vino nel bicchiere
e volontà di non essere più quel che si è…
come se poi si potesse non esser più
quel che si è, oh che illusi questi bipedi parlanti
la frittata si fredda, mangiatela, suvvia, dai!

7 settembre
A volte l’alito dell’esistere traspare da un niente,
da un muro scalcinato che nessuno guarda più
o dalle borse della spesa ricolme di amenità
e di cibi da discount comprati senza guardare etichette.
Potrebbero forse essere più dolci le ore della sera
quando il tramonto ustiona le cime dei monti
e le case fumano al sole come donne soddisfatte
di avere detto falsi “no” ai loro spasimanti maleducati.

8 settembre
Sono qui le carte sul tavolo i libri i bicchieri
e il bar della strada ha chiuso le serrande contro il vento
che non sa attraversare gli alberghi del lungomare
polveroso e nero come la pece di navi
che non solcano più quel mare laggiù.
Tutto passa non passa e torna non torna mai
e sempre di nuovo la misera sera di una misera cena
mette di cattivo umore chi avrebbe motivi
per ridere o sorridere o almeno non lamentarsi
del rumore delle poche automobili che morbide
scorrono sull’asfalto sconnesso di questa città.

9 settembre
È muta la sera di una tranquilla fine d’estate
quando il mare spegne il suo colore senza urla
ma con un quieto sospiro “è finita” anche quest’anno.
Pochi turisti resistono all’argentino sorridere della luna
quando il giorno appassisce e le docce la sabbia
il profumo del sale si mischia alle fritture pesanti
che danno allo stomaco un senso leggero di nausea
che accompagna il turista all’ultima notte di vacanza.

9 settembre/2
La televisione s’è spenta e il letto è lì
disponibile bianco e fresco come sempre
e come sempre si scala il buio delle ore piccole
per tornare a sorridere su balconi bianchi ammattonati.
Le case vecchie odorano di malinconia
e la polvere antica di gesti e parole per sempre perdute
non scompare mai perché nessun panno la laverà.
Anche se poi le vecchie case sono tali
solo per quelli che le hanno vissute per primi
e che per primi per fato o volontà imbelle
le hanno abbandonate al nullificare del tempo.

10 settembre
Umani sorrisi lampeggiano al termine della notte
quando non sembrano più esserci misteri né dubbi esistenziali
né puttane gentili agli angoli delle pizzerie chiuse per turno.
Le colazioni salgono e scendono esofagi stanchi
mesti come le auto incolonnate per il ritorno infinito
alla malinconia di un tempo di una routine e di spazi vuoti
tra carte che non si sanno scrivere e parole buttate nei cessi
di autogrill odoranti mele marce e panini all’aglio.

11 settembre
Stamattina il mare vomitava granchi mezzi morti
che si mimetizzavano svogliati tra la sabbia grigia
della battigia calpestata da mani e piedi in pensione
che afferravano i granchi per il pranzo del mezzodì.
La sabbia bollita sarà stata buona perché gratis
e i miseri granchi incolori avranno condito paste magre
sull’epilogo di un’estate senza emozione
che si spegne tra le onde di un mare
autunnale stufo di essere invaso dagli umani.

12 settembre
Serenamente al vento muoiono le luci cittadine
e la pioggia dentro le grondaie canta a squarciagola
allungando l’agonia di una sera davvero strana
offesa da metafisici suoni di clacson volgari
e da zanzare ritardatarie sul finire del giorno.
Serenamente poi s’è accesa di nuovo la luce
e umani senza volto si sono svestiti e rivestiti
per costruire l’ennesimo giorno terreno
perso tra la solita fine e il solito inizio
del tutto contingente precario dell’esistere.

17 settembre
Un campanello di bicicletta richiama la poesia della notte
finché un rutto non distrugge il silenzio e poi ritrovala
l’ispirazione per dettare al computer parole decenti senza rima.
Chi se ne frega allora e torniamo a compilare elenchi di sensazioni
e chi sa chi le leggerà e se mai sporcheranno le pagine di libri
difficilmente vendibili e difficilmente regalabili.
Come i caffè presi la sera che se poi non si dorme bene
la colpa è solo loro, poi è finita, stop, resta l’ignominia
dell’insonnia e di un inelegante sogno mattutino.


sabato 15 settembre 2012

Per un altro poeta che se ne va. Roberto Roversi (1923-2012)







Da DOPO CAMPOFORMIO
Una terra

Un bioccolo di lana
frusta nel tramonto alberi, fiori,
muove il trotto dell’onda.
Sulla sponda i ragazzi con la schiena
inarcata puntano i piedi nella rena;
“dài pa’ssì, oh… ooh!” lo scafo stride
sulle palanche nere, Antonio padre
sfiora l’acqua, è nel mare,
apre cigno le ali, le lampare,
anatrelle, l’avvincono con corde
e la flottiglia corre in alto mare.
Nella notte, chini sul fondo, gli uomini
pescano se la luna è piena
o la corrente non spinge in Dalmazia
il cefalo che volge guizzi in oro.
Un lume è acceso
laggiù oltre il mio dito:
Antonio padre al palpito
del primo fiore in cielo tornerà.
L’inverno è lungo stretto dentro un mare
pauroso; quando giugno allora
brucia il dorso ai delfini
i marinai avventano nei solchi
sonno, fatica, reti rammendate.
È morto il capitano. Cade
in mare ogni luce di festa
dai giovani cuori; a riva
le donne attendono ammucchiate.
Un marinaio è al timone, bianco agnello;
così gli uomini antichi veleggiavano
approdavano a isole felici.
La barca vira, si torce, si china
mentre s’alza il lamento. Una voce:
“Tu, tesoro di mamma, meschina
perla bruciata da un vulcano,
sei trascinato a terra con la mano
in croce, sulla sabbia, dal vento, uccello
spento di rabbia, scuro, ecco il riposo”.
Vanno in tumulto con le ali aperte.
I fortunali cadevano sulle onde deserte
al colpo della frusta di questo uomo.
Steso sul sacco è un tronco incenerito,
è tuono offeso, esploso, dileguato;
il calzone al ginocchio accartocciato.
Vita, mia vita come
sei terribile e amata: uno sconforto
senza consolazione è ancora vivo
negli occhi di questo morto che ieri
con tutti i suoi pensieri era nel mare.

Il venditore di pesce per strade e sentieri
fu in America un tempo.
“Sempre un fumo nel cielo;
pane, carbone, nel vino la polvere;
tristi le donne, negli occhi la polvere;
i ricordi chiamavano lontano.
Ora mio figlio lavora a Milano
e quella è la mia casa. Addio America”.
Sul prato ferma ride la sua casa
cresciuta in fretta.
Spinge la bicicletta, grida il pesce
giallo sul ghiaccio e viole:
“chi prende il pesce, pesce fresco di mare?”
va scalzo a chiamare
sul viale nell’ombra dei tronchi,
sfiorato da siepi a filo del mare.
Un vagabondo canta e ruvidi
marinai ascoltano a un fanale.
Sulla strada appassiscono i gerani
bucati dai fari delle macchine,
autotreni scuotono l’asfalto,
i pioppi coprono fra lo stridio dei freni
l’agonia di un gatto sfracellato.
“A Senarica, amica di Venezia…”
fuochi verdi aprono la gola
ai cani sulle aie del monte
screziato da barbagli sereni all’orizzonte.
Il vecchio intona con pena un canto triste
e i fiori tremano, cadono,
muoiono nella polvere.
L’erba è gialla, pietre; il cimitero
con gli ulivi e cipressi sbiaditi.
Anche nella pace i morti
non hanno tregua, risaliti
dal profondo si stringono le mani
rotte dalla fatica.
Madri stroncate dalle gravidanze,
invecchiate con pazienza infinita su reti,
uomini stanchi più dell’aria d’autunno:
con il viso inchiodato fra due date
sanno che non c’è pianto non gridato
né un giorno senza male: che la vita
nel dolore fu tutta patita.
Rimpiangono solo l’oblio dei vivi,
d’essere dimenticati in poche ore.
I ricchi almeno
hanno il nome dipinto nelle prore
delle barche che rosse sul lido
con gli alberi e vele ammainate
attendono la piena primavera
per gettarsi con un grido sui branchi
morbidi e azzurri
nelle calme correnti verso l’Africa.
La rocca ancora incombe a precipizio.
Un tempo sulle alture
i noci contorti strisciavano a terra
foglie di quattrocento anni, eppure
adesso il silenzio è favola
per i vecchi che muoiono nel sole.
Le case all’ombra delle tamerici,
fra le siepi, case di girovaghi
e pescatori, pittate di bianco,
formaggio fresco su una foglia
di fico, sono cadute;
scompare adagio la gente
che non trema alle nevi dell’inverno.
Crescono giovani aspri, amare mandorle
in un tempo d’inferno, di lampi
e sorprese telluriche nell’aria
grigia che illividisce ogni città;
il sangue arde dentro i cuori straziati
dall’unghia del mostro che si torce.
Ma quale mondo apparirà
dopo la pena necessaria!
Là il monte, laggiù è il mare:
il mare con le speranze strappate
a una barca che adagio s’avvicina.
Sui chioschi di benzina
cantano i tordi e volano nelle vallate
alle ragazze dal petto tremante
oh così dolcemente.
Quelle del mare, ardite fiere
contrastano, sono restie agli sguardi
maliziosi e azzannano
come i lupi di selva.
(Pace con voi, ragazze dell’Abruzzo,
una è sangue al mio cuore.)
A Corropoli fumano i camini,
gli alberi difendono le case
dove i topi imperversano e la razza
degli uomini passati consumò
nel rancore una vita vile.
Case per amori di monache,
per grida soffocate, per pugnali
cavati al frusciare di un uscio
o all’ombra di un cortile.
Ma strappa la tenda dal cielo
una donna accosciata nel vento,
canta un riso gentile;
palpita l’aria fatta azzurra
al lume dei suoi occhi
mentre con le mani in cui traluce l’osso
sceglie e vaglia il frumento.

Per un approfondimento, interessante e denso questo contributo del 2005 della rivista “Poesia”: http://www.poesia.it/servizi/ROVERSI.pdf

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