lunedì 12 novembre 2012

LA PRIMA NOTTE DI QUIETE (regia di Valerio Zurlini, 1972)





Una Rimini invernale, sferzata dalla pioggia e dalla nebbia; un uomo affondato in un cappotto marrone, l’aria dimessa e trasandata, la barba incolta, che cammina da solo lungo il molo, avvolto dalla foschia, mentre scorrono i titoli di testa. Queste prime scene riassumono i temi di questo film cult, diretto da un maestro come Valerio Zurlini (1926-1982) nel 1972. Il protagonista è un uomo dall’esistenza sospesa, che non sembra voler più nulla dalla vita, che non spera nulla e che si lascia vivere mollemente, annegato in una caligine indistinta nella quale sfumano i contorni delle case, dei sentimenti, delle persone.
Un affascinante Alain Delon dà il volto al personaggio principale, il professore Daniele Dominici, supplente di lettere in un liceo di Rimini. È un poeta, un uomo che ha dietro di sé un passato oscuro e che vive stancamente una relazione con una donna, Monica (interpretata da Lea Massari). Il grigiore e il tono dimesso del film sono interrotti dall’incontro del protagonista con un’allieva, bella e malinconica, Vanina Abati (Sonia Petrova). La ragazza è fidanzata con un ricco giovane, Gerardo, che gira con una macchina fuoriserie e che è il tipico bullo di provincia.
Sarà proprio grazie alla somiglianza del nome dell’allieva con quello della protagonista del romanzo Vanina Vanini di Stendhal, che il professore riuscirà ad avere un primo contatto con la studentessa, allorché le regalerà il libro. L’eroina del libro di Stendhal è di nobili origini e ama un carbonaro. La Vanina del film di Zurlini non è nobile, né materialmente né spiritualmente. Il suo volto pallido, il suo viso accigliato, la bellezza perlacea, creano attorno a lei un’aura di mistero che spinge Dominici a invitarla a uscire con lui.
Nel film non esistono demarcazioni nette tra i personaggi. Infatti, il professore, benché sia un disincantato intellettuale, non esita a frequentare un circolo di vitelloni di provincia che si trovano la sera per giocare d’azzardo oppure per celebrare festini nei quali il sesso è solo una tra le diverse droghe che vengono assunte per godere il più possibile dell’istante. Lo stesso fidanzato di Vanina partecipa a questi festini, gioca a carte e frequenta mignotte d’ogni genere.
Dominici alla fine riesce a fare breccia nel cuore di Vanina. I due si baciano dopo un pomeriggio passato assieme; hanno visitato a Monterchi il quadro di Piero della Francesca, la Madonna del Parto: il professore, davanti a questo quadro, perde la sua aria dimessa e offre un’interpretazione poetica del dipinto (nobilitata dalla recitazione del celebre incipit del canto XXXIII del Paradiso della Divina Commedia di Dante Alighieri)  che colpisce la sua allieva che, per la prima volta, sta vicino a un uomo che le parla da pari a pari e che non è attratto solo dalla sua bellezza.
Tuttavia, dopo il bacio, Vanina deve scappare a casa. E allora il professore s’incontra con i soliti vitelloni di provincia che lo invitano in discoteca per festeggiare il compleanno di uno di loro, un tale detto Spider (interpretato da Giancarlo Giannini), un uomo all’apparenza cinico e vacuo, ma che nasconde una grande sensibilità. In discoteca Dominici incontra Vanina e Gerardo; la ragazza, che balla abbracciata al fidanzato sulle note della canzone Domani è un altro giorno cantata da Ornella Vanoni, è turbata quando scorge il professore. La scena è molto bella: il regista, sulle note della canzone, inquadra alternativamente il volto del professore, che fissa Vanina con un’espressione di stupore inerte, e il viso di Vanina, illuminato dalle luci stroboscopiche, che diventa sempre più cupo, nonostante stretti gli abbracci del fidanzato.
Poi Gerardo invita tutti a casa sua e, per mettere alla berlina il turbamento della fidanzata, proietta un filmato la cui protagonista è Vanina stessa, ripresa a Venezia durante una gita e poi mentre si trova nuda sul letto. La provocazione è riuscita: la compagnia si scioglie imbarazzata, Vanina fugge via e sparisce per un po’. Anche Daniele è turbato.
Il professore la cerca invano per diversi giorni; si reca a casa di lei, dove è cacciato in malo modo dalla madre. A casa sua, intanto, la sua compagna riceve lettere anonime sulla relazione di Daniele con Vanina. Ma non ci sono scene di gelosia, anzi; il loro rapporto appare spento e anche quando fanno l’amore sono lontanissimi l’uno dall’altro, entrambi intenti a pensare ad altre persone o a godere in solitudine. Ora che Daniele ha perduto Vanina, l’illusione e il disincanto salgono in lui al massimo grado: tornano le scene di pioggia e di nebbia, in una Rimini in cui gli alberghi per le vacanze deserti e le spiagge vuote simboleggiano la desolazione morale dei protagonisti.
Un pomeriggio, quasi per caso, Daniele conduce Spider a visitare una casa abbandonata, raccontandogli che lì era vissuta una ragazza che si era suicidata giovanissima per amore. Poi quella sera stessa, sentendosi sempre più smarrito, Daniele partecipa al solito festino, durante il quale sta per abbandonarsi alle carezze di una donna, ma Vanina all’improvviso torna a cercarlo e, dopo una notte d’intenso amore in una casa messa a disposizione da uno dei vitelloni (interpretato da Renato Salvatori), avviene l’agnizione. Infatti, la mattina l’ormai ex fidanzato di Vanina ha un confronto durissimo con lei davanti a Daniele e agli altri amici. La ragazza gli confessa che non l’ha mai amato e che stava con lui solo per i soldi. Gerardo allora, adirato, racconta che la madre di Vanina, quando questa aveva 15 anni, l’aveva venduta al gruppo di vitelloni di provincia, facendole avere rapporti con tutti loro, comprese alcune donne. Lo squallore di questa confessione, un gesto di vendetta che svela la desolante esistenza di Vanina e del gruppo di uomini che anche Daniele conosce bene, non muta il destino del film. Il professore decide di stare ugualmente con Vanina: forse crede di poterla redimere, di renderla migliore o forse spera, proprio grazie a lei, di poter salvare se stesso dalla consunzione, dall’indifferenza, dall’inerzia. Non sarà così: il naufragio è alle porte.
Il film tratteggia in modo mirabile il sentimento della noia contemporanea; una noia che non consiste nel non far niente, bensì nel fare qualunque cosa pur di non rimanere soli con se stessi (un richiamo al divertissement di Pascal?). L’inquietudine del protagonista non si traduce in un’esistenza solitaria e dedita alla poesia, ma nell’immersione nel mondo di corruzione e di degenerazione umana che alberga nelle notti invernali riminesi. La stessa poesia sembra non appartenergli più e l’entusiasmo che gli dona Vanina non traspare mai dall’espressione del suo volto che, durante il film, permane quasi sempre cupa e disincantata. Il disorientamento, la stanchezza e la disillusione dell’uomo contemporaneo creano un film bellissimo, che alterna poesia e azione, senza mai acquisire un ritmo deciso.
Al suo funerale si vede l’anziana madre con altri parenti attempati e si capisce che Daniele apparteneva a una nobile famiglia da cui, giovane inquieto, anni prima era fuggito. Tra i suoi “amici” vitelloni, è presente il solo Spider, che ha scoperto che Daniele era un poeta e che un suo libro s’intitola La prima notte di quiete (si tratta di un verso di Goethe), dedicato a una ragazza di quindici anni (quella della casa abbandonata visitata con Spider) che lui amava e che s’era uccisa quando s’era accorta, come Daniele, che i suoi sogni non si sarebbero mai realizzati. La prima notte di quiete, afferma il protagonista durante il film, è la morte, perché è la prima notte in cui si dorme senza sogni.

sabato 3 novembre 2012

Giosuè Carducci, "Alla stazione in una mattina d’autunno"




Ecco, dalle Odi Barbare, una poesia di Carducci del 1877. È un componimento di sapore esistenziale, in cui la malinconia del vivere appare autentica, vivamente sentita dal poeta. E questo non è poco, per un autore spesso considerato tronfio e retorico, di certo meno genuino di Pascoli. Invece questi versi restituiscono a Carducci l’onore poetico. La loro qualità consistente soprattutto, mi pare, nella capacità di rendere universale una situazione particolare e personale, ossia il saluto alla propria donna che parte, la cui partenza simboleggia la morte, il distacco per definizione, l’abbandono di tutto.
Quel che mi colpisce nel componimento è il continuo passaggio tra evento “minimo” e riflessione “alta” (per esempio l’annullamento del biglietto prima della partenza diviene la raffigurazione dell’attimo in cui il tempo che fugge via cancella qualsiasi ricordo), che dona alla poesia un grande fascino letterario. Il dato ambientale dunque si trasfigura di continuo in un momento esistenziale. Infine, per concludere, vorrei dire che mi piacciono molto i versi sdruccioli che si ripetono al secondo verso d’ogni strofa, chiusi appunto da una parola che ha l’accento sulla terz’ultima sillaba, come “alberi”. Un’altra piccola osservazione: l’incipit è scritto con maestria, con quel verso “sbadigliando” che rende bene l’idea della fioca e vana luce dei lampioni, incapace di raffigurare il buio di una giornata novembrina. Ed è immediato il paragone tra quella luce debole e la debole capacità conoscitiva dell’uomo, che gli preclude le porte oscure dell’infinito.

Oh quei fanali come s'inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su 'l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d'autunno
come un grande fantasma n'è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a' carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl'istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili
com'ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l'anima
un'eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l'ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su' vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe 'l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l'empio mostro; con traino orribile
sbattendo l'ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra' floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid'aere,
fremea l'estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un'aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com'ebro, e mi tocco,
non anch'io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l'anima!
Io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,
meglio quest'ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...