lunedì 24 giugno 2013

UN’APOCALISSE IN MINORE





I
Gettati sulla terra in un’esistenza che galleggia
siamo bolle pigre che scavano la melma verminosa
che la pioggia smuove il sole pietrifica rendendola
mefitica e velenosa al cervello e al piede.
La sensazione svuota-stomaco che l’essere sia tutto qui
avvolto in un’ombra che si nutre di luce
è incentivo a dimenticare ogni cosa
a immergersi nel lago delle sensazioni innominate
per anestetizzare i sensi
per vergognarsi di essere razionali.
La melma allora si fa più avvolgente si affonda
le scarpe marroni come il cuore
dileggiato da batteri virus invertebrati e scarafaggi
più intelligenti dell’uomo.

II
Si spengono giorni e giorni sulla carta sporca
di scarafaggi arrosto e oleosi della panetteria dei vecchi portici.
La nebbia ondeggia gialla e lenta
scaraffaggiando si muove nella via
tra le vecchie finestre del pensiero unico
che s’aprono di notte e di giorno si bloccano
fino ad annegare di sudore qualsiasi sospiro.
Due uomini si baciano dietro una colonna
il buio testimonia il loro peccato d’un tempo
una donna invece aspetta fremente il bacio d’addio
del primo uomo che passa.
La sera d’inverno scende dall’alto
s’appoggia sui tetti e sui divani
s’aggiusta seducente i cuscini
si lascia amare come valletta esperta
e fa l’amore sgranocchiando noccioline.

III
Poi la sera s’alza fregandosene dell’impotenza emotiva
e si metamorforizza in un mattino scarafaggesco
che schiaccia le teste degli amanti occasionali senza soldi
mentre i portici illuminati a giorno dal giorno
trasmettono il vociare cagnaresco di studenti e studentesse imberbi
che non sanno dove andare.
La donna aspetta ancora il bacio d’addio del primo che passa
ma ora il rossetto stinge: un occhio piange e l’altro ride
poi cambiano i ruoli e la donna è scarafaggio anche lei
o decaduta eterea delle sere d’inverno della bassa padana
quando la nebbia scuote gli istinti maschili
e nessuno sa più amare la solita donna di tutti i giorni
ma tutti bramano la prima o la seconda che passa
sotto i portici rigurgitanti scarafaggi infreddoliti
e bestemmie sigillate nei bicchieri di vino.

IV  
Saltano questi insetti attardati tra i portici freddissimi
delle mattine gelate sul selciato di chiese deserte
dove lo scalpiccio di piedi e scarpe
schiaccia le teste di scarafaggi arroganti che non sanno
cedere il passo nemmeno alle vecchie donne.
La gelatina dell’insetto si infila tra le fughe
e la piazza è una pista di pattinaggio gialla
dove la disperazione quotidiana danza ogni ora
e quelli che amano non trovano più l’oggetto d’amore
mettono il broncio mentre scarafagge audaci li accarezzano
fino alla fine del giorno e della notte
quella notte, mi pare dicesse Celine,
nera come il buco del culo o quasi.

VII
Stato di calamità innaturale nella bassa padana
e le balle di fieno divengono rifugio estivo
del parlamento scarafaggesco che incatena le coscienze
di ex liberi pensatori che squittiscono idee
e saggi filosofici da boudoir.
Le ore sono gialle tra le pannocchie acerbe
mentre lo scarafaggio despota governa la città
e le carogne democratiche putriscono sotto i portici
dove scarafaggi senza spirito democratico
tengono happening cantando vino e chitarre
l’amore libero le canne e leggono Erich Fromm.

VIII – Il cieco Tiresia
L’apocalisse alla fine è stata noiosa e deludente
e dopo secoli a ironizzare contro la Bibbia che non si capisce
e a chiedersi se mai succederà e perché ma figurati
sono cazzate di un popolo arretrato com’erano gli ebrei
cinquemila anni fa, l’abbiamo presa bene lì in basso
la fregatura. Senza accorgercene. A qualcuno piacque.
Le profezie alla Orwell non fanno paura
e le metamorfosi da uomo a insetto sono quotidiane
almeno così si blatera nei bar della sera
dove le vetrine pullulano di insetti morti,
rinsecchite e verdeggianti dadaiste forme di morte
rinsecchite come un vecchio con vizze mammelle
sempre tu Tiresia tra le scatole
a profetare scalogne ma ti vogliamo bene
perché il poeta ti amò e lo facciamo anche noi
tu donna e uomo assieme ogni momento.

“Quando mi accorgo che gli individui altro non sono che schizzi di saliva sputati dalla vita, e che la vita stessa non vale tanto di più rispetto alla materia, mi dirigo verso il primo bistrot con l’idea di non uscirne mai. E tuttavia le mille bottiglie che potrei scolarmi non sarebbero in grado di trasfondermi il gusto dell’Utopia, di quella credenza secondo cui qualcosa è ancora possibile” (Emil Cioran, 1911-1995).
Le parole di Cioran mi hanno fatto venire in mente il primo componimento. E poi, come associazione immediata, ho pensato all’Apocalisse di Giovanni, visto che in pianura è periodo di invasione di insetti; però l’ho resa volgare, perché il tempo attuale, decadente e misero, è un’apocalisse solo con la “a” minuscola. Per questo è un mondo che non perisce, ma vegeta in una notte senza fondo. Viaggio al termine della notte di Céline è stata la terza associazione, quando egli scrive, per esempio, “non sei altro che un vecchio lampione di ricordi all’angolo di una strada dove non passa già più quasi nessuno”. E ho immaginato che, di fronte a uomini anestetizzati e sconfitti, simpatici scarafaggi prendessero il potere, dimostrandosi più furbi degli umani. Ma il contatto con l’umano intacca anche l’etica semplice e spietata degli insetti, che sono sconfitti proprio perché umanizzati. Ho pensato naturalmente a Kafka, al Gregor Samsa che diventa un insetto eppure continua a sentire in sé un’anima umana. Sullo sfondo di tutto c’è The Waste Land di T. S. Eliot, ma solo una sua immagine opaca e prosaica, perché esiste una grandezza pure nell’affondare, e invece questo tempo non la possiede più. Tiresia (nel poema di Eliot è protagonista de Il sermone del fuoco ma si veda Ovidio, Metamorfosi, III 323 e sgg.) è forse la sola figura cui fare riferimento, e ascoltarlo significa non temere l’avvenire, ma solo la bassezza umana nella sua totalità, di cui egli era cosciente avendo vissuto, cieco, da uomo e da donna, e avendo in mano la tragica capacità di vedere quel che accadrà.

Giugno 2013 

sabato 15 giugno 2013

Donna: mistero senza fine bello! La Signorina Felicita di Guido Gozzano




Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.



Queste prime strofe sono una sorta di sommario dell’intera poesia e forniscono altresì indicazioni geografiche sul luogo della casa della Signorina. Il protagonista è un uomo che vive in città, annegati tra gli affanni quotidiani, pungolato dall’inquietudine derivante dall’esser poeta, ed è attratto dalla semplice vita campagnola nel Canavese della sua “Musa”: questo appellativo, dato alla Signorina, è ironico e serio al contempo; da un lato, ragionando con i canoni poetici in voga a inizio ‘900 (Pascoli escluso, però), appare infatti inusuale, quasi blasfemo, che una donna semplice e umile possa ispirare una poesia. Dall’altro lato, però, proprio questa indicazione illumina la novità costituita dalla poesia di Gozzano, sia rispetto al linguaggio che ai contenuti. Se la società piccolo borghese è ormai del tutto priva di arte e di poesia e, anzi, considera queste attività “eversive” perché non producono profitto, il poeta non può far altro che rendere minima e “meschina” la poesia, per adeguarla a questa ristretta società borghese. Le brutture di tale società non possono essere messe alla berlina da una poesia che adotta un registro linguistico alto e che mette l’accento sulla propria radicale diversità; perché una tale poesia, paradossalmente, finirebbe per confermare il pregiudizio borghese contro l’arte, dichiarandosi sua sponte eversiva e del tutto aliena da essa. Invece, pensa Gozzano, solo una poesia che si mimetizza, che si nasconde, può avere uno spazio, per quanto precario e fragile: “Il facile e ingannevole estetismo, in cui l’alto stile della tradizione perduta si risolve storicamente, si corromperà a contatto con la dura e provocante verità di un livello basso di quotidiana intonazione, anzi confesserà la propria intrinseca corruzione, e intanto, e per contro, l’insorgere realistico del prosaico, del parlato, denunzierà la miseria concerta delle cose, l’impossibilità di una redenzione estetica della vita” (E. Sanguineti). La casa della Signorina è colma di oggetti logori, polverosi: essa è l’immagine della degradazione cui conduce la vita borghese, volta solo alla moneta. Ma la Signorina non possiede un gusto estetico sensibile e raffinato: così non soffre inutilmente e vive la propria semplice esistenza senza porsi domande vane, che non hanno mai risposta. Si limita a portare avanti la propria vita minima: cuce le lenzuola, prepara il caffè, si occupa della casa, paziente, e del padre burbero e ottuso.

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia...

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
[…]
Talora - già la mensa era imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita...

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m’avevano in dispregio...

Il poeta non partecipa al gioco e ai discorsi noiosi di questi uomini tardi e lenti. Anche loro, infatti, sono figli della società commerciale piccolo-borghese, che in loro, poi, si sposa con l’ottusità campagnola. Il poeta preferisce farsi cullare dai rumori della cucina, dall’attività da semplice massaia della sua Musa e della governante; un po’ stordito dal suono delle suppellettili d’un tempo, delle casseruole, immerso nei profumi forti della cucina campagnola, egli trascorre pacifico la sera “accordando le sillabe dei versi”. E sebbene il suo triste destino torni talvolta a inquietarlo e il suo animo poetico volto alla malinconia si faccia sentire, il sorriso semplice della Signorina gli dona nuovamente speranza.


M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina...

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.


Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

In altre occasioni, i due giovani camminano nella soffitta della vecchia villa, laddove il ciarpame tanto caro alla mia Musa è ovunque. E di nuovo il luogo reale si trasfigura divenendo, nell’animo del poeta, un agognato luogo ideale di quiete. Anche i brutti dipinti, i vecchi materassi e le stampe polverose sono parte di quel mondo di sogno dove il poeta pensa di trovare respiro e quiete. È un’illusione, lui in fondo lo sa, eppure, vicino alla sua semplice Signorina, egli non vuole pensare che non possa accadere.


Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!
[…]
Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!


D’altra parte la serenità, in quell’abbaino ingombro di sciocchezze, non è totale. Un animo inquieto porta con sé ovunque il proprio disagio, come un guscio di lumaca. Il poeta e la Signorina guardano spensierati il tramonto. Tuttavia il pensiero della morte (l’Eguagliatrice), che non smette mai di mietere vittime, e degli uomini (“quei cosi con due gambe”) che, sciocchi, si affannano, combattono per raggiungere scopi futili e vani, tortura ancora il poeta. Come è possibile distaccarsi da pensieri tanto gravi, ai quali si è assuefatti? Non è possibile, sebbene egli finga di credere che lì, in campagna, potrebbe vivere senza essere investito non dalla morte (che raggiunge gli uomini ovunque), ma dalle inutili angosce del mondo moderno.


Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco - pensavo - questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei “cosi
con due gambe” che fanno tanta pena...

L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere...

Schierati al sole o all’ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa - oimè! - che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro...


L’aspirazione ad allontanarsi in modo definitivo dagli affanni mondani intacca anche la passione letteraria. Questo è un altro tema centrale del componimento. Gozzano afferma di non desiderare la gloria dell’alloro, la gloria poetica. La sua ironia si volge contro Gabriele D’Annunzio che, a inizio ‘900, spiccava sulla scena poetica italiana (Cfr. La tregua, vv. 4-6, in Alcyone: O magnanimo Dèspota, concedi/al buon combattitor l’ombra del lauro,/ch’ei senta l’erba sotto i nudi piedi). Ma il poeta pescarese è al contempo amato e odiato da Gozzano (mentre Giovanni Pascoli è amato e basta), la cui opera trae diversi spunti dalla poesia di D’Annunzio, benché adotti stilemi e argomenti differenti. Contro una poesia giudicata retorica e roboante, Gozzano professa la propria fede in una poesia semplice e piana e, di riflesso, in un’esistenza genuina, semplice, scevra da protagonisti e gesti eclatanti. E la stoccata contro colui che diverrà il Vate d’Italia è chiara: egli è un ciarlatano (“cerretano”) che non ha di mira la poesia, bensì la sola gloria personale (scrive Gozzano citando Dante: per far di sé favoleggiare altrui). E tuttavia, sia D’Annunzio che Gozzano denunciano lo stesso male: il rischio della morte della poesia nella prosaica ed economica società piccolo-borghese, dove ciò che conta è solo il guadagno immediato (la poesia Il fuoco di D’Annunzio è il modello che il Nostro utilizza per descrivere la decadente villa della Signorina). Se simile è il male diagnosticato, la cura per debellarlo è differente: mentre per l’autore di Alcyone la poesia può salvarsi dal mondo borghese solo riaffermando il proprio valore aulico, nobile, superiore alla realtà, per Gozzano la poesia deve mimetizzarsi con il mondo borghese, assumerne i tratti minimi, dimessi, ovvero descriverlo senza metterlo (in apparenza) in discussione.


L’alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui...

“Avvocato, non parla: che cos’ha?”
“Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città...
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!...”
“Qui, nel solaio?...” - “Per l’eternità!”
“Per sempre? Accetterebbe?...” - “Accetterei!”

Per fortuna la Signorina, con la sua voce semplice, lo distrae da questi pensieri foschi, da queste ardite e faticose riflessioni poetiche e filosofiche. I due tornano allora ad ammirare il tramonto che abbraccia il Canavese: sono soli, ma alla fine la Signorina, temendo che gli altri pensino che loro siano lì a fare cose poco belle, si ribella alla perplessità “crepuscolare”. L’aggettivo è qui riferito ovviamente al declinare del sole, ma diventa chiaramente l’attributo di una nuova atmosfera poetica.


Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana...

“Una stella!...” - “Tre stelle!...” –  “Quattro stelle!...”
“Cinque stelle!” - “Non sembra di sognare?...”
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
“Scendiamo! é tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle...”


Ma potrebbe esserci vero amore tra il poeta, anzi, l’avvocato (come lo chiama la Signorina) e questa donna campagnola? Forse quel che il poeta cerca è solo una distrazione dai propri affanni, fisici e letterari. Egli ha l’impressione di non provare più alcun piacere nel compiere le attività a cui fino a quel momento si era dedicato sino ad ammalarsi nell’animo e nel fisico. La poesia e l’amore, egli confessa, lo hanno entrambi tradito. Le donne amate non gli hanno rapito mai il cuore: fredde e intellettuali, intente a seguire un modello di vita letterario, esse lo hanno deluso (sono stanco delle donne rifatte sui romanzi!). La Signorina, invece, umile e semplice, genuina, forse potrebbe fargli battere finalmente il cuore. Pure la poesia lo ha deluso: la ricerca dei versi migliori, dell’ispirazione, delle parole più pure e alte; la necessità di scrivere, di leggere e studiare, di apprendere, e l’amara consapevolezza che le cose che restano da conoscere saranno sempre più numerose di quelle conosciute, tolgono al poeta il desiderio di continuare a essere un letterato. Soprattutto perché tutta la cultura faticosamente acquisita non gli ha mai chiarito il significato dell’esistenza, ma, anzi, glielo ha reso ancora più oscuro.


“Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore...”

Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
“Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?”.

“Perché mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!...”
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
“Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!”

“Piange?” E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello...
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!



La Signorina è andata a scuola quanto basta: vive nel suo piccolo mondo, non ha bisogno di leggere, di apprendere (celebre il verso “non leggi Nietzsche” che rima con “camicie”), ma accetta umilmente quel che l’esistenza ogni giorno le manda. Crede a quel che le hanno sempre detto essere la verità. Non esercita il dubbio cartesiano. Di fronte a questa donna dimessa, che non si pone mai domande sul significato dell’esistenza e che, almeno in apparenza, vive quieta, Gozzano, che conosce le angosce e i turbamenti prodotti da una inclinazione spiccata all’introspezione, giunge ad affermare di odiare la ricerca del sapere, e, di converso, il proprio animo gelido (che alterna l’indagine e la rima come scriverà in Totò Merùmeni, vedi qui), giungendo infine a disconoscere se stesso, sia come individuo e io non voglio più essere io!, sia come poeta: Io mi vergogno, sì, mi vergogno d’essere un poeta!. Afferma infatti di sognare una donna che non lo comprende, che non comprenderebbe questi versi scritti proprio per lei. Sarebbe la sua donna ideale, molto più allettante di un’intellettuale gemebonda.
La contrapposizione tra la vita concreta, intenta alla moneta, e la sfuggente e gelida vita del letterato, è una costante nella poesia di Gozzano. Nella Signorina Felicita egli tratta questo tema in modo diretto, senza perifrasi, con versi rapidi, all’apparenza non ricercati. In realtà la sua poesia è intessuta di riferimenti nobili alla poesia francese di fine secolo (soprattutto da Francis Jammes), ai classici italiani (Dante e Petrarca ma anche l’Ariosto) o dai contemporanei (Pascoli e D’Annunzio). Inoltre, la malinconia e l’ironia del poeta regalano ai suoi versi un tocco quasi commovente, pensando al tragico destino che l’attendeva. Destino tragico, ossia la morte prematura nel 1916, dovuta a quella che egli definisce Signora vestita di nulla, cfr. la poesia Alle soglie, vv. 29-34: “È una Signora vestita di nulla e che non ha forma./Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma./Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;/ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome./Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;/né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano”.


Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda...

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.
 

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...

Ed io non voglio più essere io!

La poesia si conclude con una scena d’addio che Gozzano descrive imitando i modi poetici e letterari romantici. Nella sua ricerca di una dimensione “altra” rispetto a un mondo contemporaneo che lo angustia, egli immagina una scena d’altri tempi, quando le donne salutavano con lacrime e fazzoletti i loro uomini che andavano in guerra. Pure il poeta va via, ma non parte per partecipare ad alcuna battaglia sul campo militare, anche se dovrà misurarsi con nemici tremendi: la malattia e l’angoscia. Il paragone tra la tragicità degli addii d’un tempo e la prosaicità del loro saluto crea un effetto ironico notevole. I due amanti si giurano amore eterno e la Signorina, nella sua semplicità campagnola, giura con comica solennità, arrivando a scrivere sul muro la data di quella promessa memoranda. Il poeta tace di fronte a questo gesto adolescenziale. Egli sa che sicuramente quel giuramento non potrà essere rispettato, poiché lui non può sfuggire alla propria condanna di letterato e di uomo malato. La tubercolosi e la poesia sono due malanni inguaribili: entrambi esigono attenzione assoluta e non abbandonano la propria vittima. È impossibile sfuggire a un male incurabile come alla vocazione poetica. Il poeta non cede al sentimentalismo: asserisce che partirà per terre lontane, più salubri. E la Signorina rimane lì, nella sua goffa posa romantica: lo attenderà, fiduciosa e ingenua, innamorata di un uomo d’altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico.../Quello che fingo d’essere e non sono!, conclude con amarezza il poeta. In definitiva la Signorina lo ama per quel che egli vorrebbe essere, ma che in realtà non è e mai sarà.


Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti da bei colchici lilla.
[…]
“Viaggio con le rondini stamane...”
“Dove andrà?” - “Dove andrò? Non so... Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio...
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio...

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?”
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette...
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.
 

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti...
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole...
[…]
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine...

M’apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...

Quello che fingo d’essere e non sono!

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...