venerdì 26 aprile 2013

LUI, LEI




Mi piace pubblicare qui questo raccontino uscito l'anno scorso, con poche varianti, sul celebre sito Tornogiovedi, leggibile a questo link. Non ho cambiato la sostanza, solo la forma, e in minima parte. Volevo però che anche il mio blog potesse ospitare queste righe. 
Non c'è molto da dire riguardo alle parole che seguiranno. È una non storia, anzi, la fine di una non storia. L'ispirazione (che parolona!!) mi è stata offerta dalle scene iniziali del meraviglioso film di Michelangelo Antonioni L'eclisse (1962). Queste scene sono riprodotte nel filmato di You Tube che ho incollato. Buona lettura.

«Cosa ti spinge, ancora, qui, vicino a me?».
La domanda di lei lo scosse da quel torpore fittizio, quasi forzato, provocato dalla tristezza. Non rispose, ma si svegliò definitivamente. Guardò di fronte a sé: la stanza era accarezzata dalla luce anonima di un’alba autunnale. Gli oggetti, i mobili, i quadri, le pareti, sembravano emergere a fatica da un’oscurità senza fondo. Tutto era grigio oppure macchiato da colori sporchi.
Lei fissava un quadro alle pareti. Ora taceva. Non lo guardava in quel momento. Non lo aveva guardato nemmeno quando gli aveva rivolto quell’ultima domanda. Non lo guardava da tempo, ormai.
Lei indossava una camicia da notte bianchissima. I capelli erano spettinati. Era ancora molto bella, ma di una bellezza ostile, marmorea, non più traboccante di passionalità. Era bella, l’aveva sempre ammirata, e, ora che stava per perderla (perché era chiaro, sin da quando avevano iniziato a parlarne, la sera prima, che lo stava lasciando), avrebbe voluto stringerla a sé e amarla almeno un’ultima volta. Ma non aveva il coraggio di rivelarle questo pensiero. E poi le frasi di lei, sin dalla sera prima, gli erano parse definitive. Senza speranza. Né per lui né per lei.
All’improvviso lei si voltò, quasi di scatto. Gli lanciò un breve sguardo, poi abbassò gli occhi. Sotto la camicetta lui scorse il seno sollevarsi per un istante. Poi lei disse:
«Non ti amo più, credo. Quando ti amavo, sai, pensavo che darmi a te significasse farlo per sempre. Ora invece, ora che sento di non amarti più, fare l’amore mi sembrerebbe una cosa penosa, per me e per te. No?».
Lui sussultò: si sentì smascherato, come sei lei gli avesse letto nel pensiero. Quell’ultima domanda, però, forse era un modo per chiedere la sua opinione. Chissà, magari lei non aveva ancora deciso tutto. Allora lui si sollevò, mettendosi a sedere sul letto, e le parlò:
«Come fai a dire che non mi ami più? E come fai a dire che mi hai amato?».
Lei, dopo questa domanda, lo guardò fisso. Gli occhi verdi sembravano spenti per sempre, mentre il pallore delle sue gote risaltava in modo quasi insultante, per lui, nella penombra plumbea di quell’alba di ottobre. Era chiaro che quel pallore, quel dolore che lei mostrava, fosse un’accusa contro di lui. Era dunque solo colpa sua se lei stava così male? Alla fine lui non resse quello sguardo e si commosse. Abbassò gli occhi e mormorò:
«Io sono colpevole, sì, so quello che significa il tuo sguardo. Io non so amare, eppure, fin da ragazzo, cerco di farlo. Ma sbaglio sempre. È come se avessi in mano le carte giuste, ma fossi incapace di gettarle sul tavolo, per paura che tutto finisca e di annoiarmi una volta raggiunto lo scopo».
Lei seguitava a guardarlo tacendo. Lui sentì allora che il suo cuore batteva più forte. Poi lei mandò un sospiro lungo e colmo di abbattimento. Lui allora pianse, ma cercò di non farsi vedere. Lei, intanto, si era alzata, dirigendosi verso la finestra che lasciava penetrare il bianco sbadigliante dell’alba. Disse con voce afflitta:
«Stai piangendo... Voi uomini vi vergognate di piangere, chissà perché. Comunque, sai, forse hai ragione quando dici che non sai amare, che hai paura della noia. È vero. Spesso amarsi è banale. È la sofferenza che precede o segue l’amore che dà un po’ di sapore piccante. Ma vedo che non capisci ancora qual è il problema. Sei concentrato su di te, come un bambino. E parli sempre di te, anche adesso. Però io sono troppo confusa per stare con te. Avrei bisogno di un briciolo di… non di certezza, né di sicurezza, so che sono parole ridicole. Avrei bisogno di sapere che non sono da sola, che ho un sostegno, qualcuno che condivide con me la mia vita. Penso che la vita sia così pesante… così… così stupida, così insensata. Sopportare la stupidità da soli è impossibile. Sono atterrita dall’idea di affrontare tutto da sola… Ma mi rendo pure conto che l’amore è un’altra cosa. E che né tu e né io sappiamo cosa sia».
Lui pensò che avesse ragione. Invidiava quella capacità di celare la propria disperazione controllandola. Ma sperava che fosse, anche lei, un poco debole e confusa. Gli appariva una donna in preda a una stanchezza mortale. Una donna diversa da quella che aveva amato.
«Ricordi?», la voce di lei interruppe quei pensieri, facendolo lievemente trasalire, «ricordi le prime volte?». Ora s’era voltata nuovamente verso il letto, ma non guardava lui, bensì faceva vagare gli occhi tra il letto e il comodino, come fosse cieca. «Anzi, ricordi la prima volta», soggiunse, «quella sera a casa di Barbara? Io mi ero versata il vino sul vestito ed ero andata in bagno, poi ero uscita a prendere un po’ d’aria. Tu sei venuto, ricordi? Imbarazzato e silenzioso. Dicesti una banalità, mi pare sul bel tempo di quella serata, e dopo due minuti, ricordi, un tuono… ».
Sì, lui si ricordava bene quel momento. La conosceva già e gli piaceva da tempo, ma allora lei stava con quell’altro. Quella sera il temporale li costrinse a rifugiarsi assieme sotto il portico. E arrivò il primo bacio.
Rammentando quella sera, tacquero entrambi, cercando di indovinare i pensieri l’uno dell’altro. Affondati in quella nostalgia melmosa, non fiatavano più. Però lei, ricordando quell’episodio, aveva sorriso. Ma senza allegria. L’aveva fatto come un gesto meccanico, come se ci fosse un’associazione immediata tra quell’episodio dolce e il sorriso che sempre, quando ne avevano parlato altre volte, lo aveva accompagnato. Poi aggiunse:
«Quel che mi piaceva di te era quel modo un po’ buffo di porti, quella tua leggerezza, quella capacità di essere dolce e tagliente, deciso e impacciato. Mentre Emilio mi sembrava una specie di padre padrone, uno che organizzava tutto nei dettagli. E che mi trascurava. Quella sera, quando ti baciai sotto il portico, però io non avevo deciso niente. Tu forse, visto che poi mi sono messa con te, hai pensato che proprio quella volta io abbia deciso di lasciare Emilio e di mettermi con te. Invece no. Quella sera fu tutto casuale. Mi trovai lì con te e ti baciai perché eri stato dolce e buffo. Se non fosse scoppiato quel temporale, non so cosa sarebbe accaduto».
Lui non replicò nulla, perché non capiva dove lei volesse arrivare. Gli piaceva ascoltare la sua voce, gli era sempre piaciuta quella voce lieve, quasi musicale, così espressiva. Anche in quel giorno grigio, benché popolato solo da parole amare, quella voce gli piaceva. Così decise di starla a sentire, perché lei voleva parlare ancora.
«Sai, quella prima volta tra di noi forse commisi un errore. Volevo lasciare Emilio, è vero, ma per stare da sola. E invece ho percepito che tu… insomma… che c’era qualcosa in te di cui avevo bisogno. E mi sono buttata su di te. È mio l’errore, sono stata precipitosa. Tu prima mi hai detto che sai che sbagli tu. Non so se sei sincero, ma sappi che l’errore è mio. Non è stato uno sbaglio l’averti amato, ma lo è stato chiederti quello che tu non potevi darmi. E la cosa che ti rimprovero, anche se non sei colpevole in fondo e anche sei hai fatto ogni cosa a fin di bene, è di avermi dato sempre solo quel che ti chiedevo io, anzi quello che esigevo io, di non avermi quasi mai costretta a cambiare, a mettermi in discussione…. ».
Quelle parole lo impietrirono. Pensò che quei due anni di relazione fossero stati la dimostrazione della sua sprovvedutezza. Lui aveva agito sempre per il meglio. Ma evidentemente aveva sbagliato ogni cosa. Si scusò, ma si sentì subito ridicolo. Dopo averlo ascoltato, lei s’avvicinò, si sedette sul letto e gli accarezzò i capelli, sussurrandogli:
«Lo so, ma appunto il problema sono io non tu… ».
Aveva parlato socchiudendo gli occhi e conferendo alla propria voce un tono amabile. Forse per questo, un po’ pentita, quasi subito si alzò in fretta, prese una sigaretta, l’accese e cominciò a fumare con calma. Ma diede poche boccate, poi la gettò via. Lui allora, in lacrime, disse:
«Ci hai pensato bene, non c’è niente da fare, vero? Non posso fare niente… io… Ci hai pensato?».
«A cosa?».
«Be’, dicevo, hai pensato se fai bene a lasciarmi, a far finire tutto tra di noi».
«Non lo so, non so più pensare da tempo, sono stanca di essere stanca… », gli rispose con un sorriso, tornando a scrutarlo, «ti ricordi questa frase? è un tuo verso. Mi piacque quando mi dicesti che scrivevi poesie. La tua testa mi affascinava tanto. Ma ora non so più pensare, tutto mi sembra oscuro, senza significato, persino la decisione di lasciarti mi appare senza senso, perché è una cosa che sembra venire dal di fuori di me, come se io non fossi autonoma, non fossi capace di decidere niente».
«Non ti capisco… », si arrese lui soffiandosi il naso.
«Nemmeno io, credimi, e non ti sto prendendo in giro. Ho paura. Penso che se stessi ancora con te, lo farei solo per non affondare, ti tratterei come lo scoglio che può salvarmi dalla morte, forse, ma non dalla vita… ».
Lui sbuffò leggermente spazientito. Non capiva, vedeva solo buio davanti a sé; non comprendeva le parole di lei né di cosa l’accusasse. Ma non aveva la forza per protestare, perché le lacrime continuavano a bagnargli gli occhi. Poi lei si sedette al suo fianco. In quel momento lo osservava di nuovo con dolcezza, ma a lui quello sguardo non piaceva più, perché gli sembrava pieno d’indulgenza. Era lo sguardo dell’adulto che compatisce il bimbo che si lamenta in modo infantile. Uno sguardo che sembrava un insulto.
Lei dovette intuire qualcosa perché smise di guardarlo quasi subito. Sospirò ancora, rimanendo a sedere sul letto, poi si voltò verso la parete e parlò:
«Scusami, scusami davvero. Non voglio apparirti drammaturgica, ma sappi che oggi quasi non mi va più di vivere. Questa casa, queste pareti, quest’alba così opaca, mi danno una tristezza mortale che tu non puoi nemmeno immaginare. Mi sento nell’anima un’angoscia spaventosa perché mi sembra di non amarti più, o almeno non più come una volta e invece, nel passato, certe volte, mi sarebbe piaciuto che la vita passasse in un lampo e noi diventassimo subito vecchi assieme, e fossimo ormai una cosa sola, e la nostra unione fosse cementata dai decenni passati assieme. Mi sento stupida a dirti così… ma è la verità… Mi sarebbe piaciuto continuare ad addormentarmi con te, sbadigliare quando sbadigli tu, sudare quando sudi tu e piangere con te, se necessario oppure ridere senza essere presa dal pensiero terribile che ogni momento lieto è mortale. Il dolore invece è immortale. O forse lo dico solo perché oggi tutto è così oscuro. Chissà, magari è vero che l’uomo è infelice solo perché non vuole accettare di poter essere felice».
Lui si sentiva disperato. Avvertiva dentro di sé una nostalgia insopportabile. Perché lei, mai, prima di quel giorno, gli aveva parlato in quel modo? Disse:
«Non mi avevi mai parlato così. Perché mi hai tenuto all’oscuro di tutto?».
«Perché se ti avessi confidato quel pensiero sull’idea di diventare vecchi, mi avresti presa in giro. Con quel tuo modo tagliente di rispondere, con quella tua assurda paura delle emozioni. Sapevo che mi avresti ridicolizzata. O forse ero io a essere realmente ridicola e mi sfinivo a cercare un ideale di amore che non esisteva. Che stupida, cercavo l’amore perfetto! E non mi sono accorta quando mi è balenato davanti l’amore vero, quotidiano quello che passa davanti pochissime volte durante un’esistenza. Peccato, ormai è tardi. L’amore vero forse è un insieme di banalità che diventano indispensabili perché ci tengono attaccati a questa vita e ci sottraggono alle sue grinfie, alla sua mortale serietà. Come vorrei non sapere pensare, avere il cervello piccolo ed essere felice!».
«Sei ingiusta», si difese lui, ma debolmente perché sapeva che lei aveva ragione.
«Sai», aggiunse lei con la voce sempre più flebile ignorando la sua affermazione, «avrei voluto amarti per sempre, ma ti vedevo sfuggente. Per questo la sola possibilità era pensarci vecchi e innamorati. Che stupida sono stata! Sapevo che in questo modo mi stavo attaccando a te, te l’ho detto prima, non per amore vero, ma per essere al sicuro, eppure cercavo di convincermi di amarti perdutamente. Però, chissà, forse ho confuso il mio desiderio di avere un uomo che mi salvasse con l’amore. Non lo so. Balbetto, vedi, balbetto. Se potessimo ricominciare da capo, tornare indietro… ma non avrebbe significato, perché ormai siamo troppo intimi per mascherarci in un’altra maniera».
Quell’ultima frase gli donò un po’ di speranza. Si voltò allora verso di lei che gli dava la schiena. Scorse nella penombra la camicia da notte bianca, i capelli sulle spalle. Ebbe la tentazione di toccarle la schiena. Ma non lo fece. Poi disse:
«Ma se dici così... significa che forse mi ami ancora, che  potresti amarmi, che vorresti… volermi bene… vedi che non lo sai nemmeno tu? Perché rovinare tutto? Pensaci».
«Io non rovino niente, sai, le cose a volte finiscono senza motivo, si spengono così».
Intanto lui aveva cominciato ad accarezzarla, a baciarla sul collo, ma lei si divincolò debolmente. Poi, all’improvviso, lo bloccò prendendogli le mani.
«No, ti prego, no… non così… non riesco ad amarti, ho paura, non posso… ».
Lui però continuava ad accarezzarla e a baciarla, nonostante la sua morbida resistenza. Le sussurrava: «Dai, non fare così, un po’ mi ami ancora, lo sento, lo sappiamo… ».
«No, no, lasciami», sospirò lei debolmente, senza opporre più resistenza, «non potrei farlo, adesso, non lo farei per amore, ma solo per un senso di… compassione verso di te. Per non farti soffrire, almeno per un po’».
Lui allora smise di baciarla. La osservò meravigliato, ferito da quell’ultima affermazione. Lei aveva appoggiato la sua testa contro il suo petto nudo con un atteggiamento arrendevole, come se fosse incapace di mantenere con le azioni quel che sosteneva con le parole.
«Perché nomini la compassione?», le domandò lui con decisione, obbligandola a guardarlo. Fu brusco quando la sollevò verso di sé. Lei lo scrutava timorosa. Taceva e aveva gli occhi umidi. Nella penombra di quel giorno che sembrava non volesse incominciare, lei lo fissò come per penetrare nella sua anima. Non lo aveva mai fissato in quel modo. Lui ne ebbe quasi paura, tanto che si allontanò un poco dal volto di lei, come per metterla a fuoco meglio. Quindi si scosse, alzandosi come colto da un’illuminazione, come se avesse finalmente compreso cosa lei intendesse comunicargli attraverso le parole amare che gli aveva rivolto sin dalla sera prima. Cominciò a vestirsi.
«Che fai?», gli domandò lei con voce flebile, continuando a sedere sul letto.
«Me ne vado. Se vuoi cercami, sai dove sono».
«Va bene… ma smettila di piangere, ti prego… ».
Lui, infatti, aveva ricominciato a piangere. I modi affrettati e bruschi con cui agiva non lenivano il suo dolore. A un certo punto la sofferenza lo costrinse a smettere di vestirsi. Si sedette su una poltrona, abbattuto.
«Non fare così», lo pregò lei, «perché reagisci come un bambino?».
Lui rispose singhiozzando:
«Non sai dire altro, quando le cose non vanno bene, mi accusi di essere infantile… Sei ingiusta, ma so che posso fare ormai, dimmelo tu».
«Abbiamo sbagliato entrambi», chiosò lei. Rimaneva immobile, seduta sul letto: il volto era ancora pallido, le labbra quasi esangui e gli occhi sempre più spenti.
Lui si era alzato dalla poltrona, ma era rimasto con i pantaloni slacciati e la maglietta a mezze maniche. Teneva in mano la camicia, ma non l’indossava. Fuori dal vetro i rami degli alberi ballavano al vento, mentre la nebbia era una coperta spessa gettata sul mondo esterno.
«Sai», le disse a un certo punto fissandola e cambiando espressione all’improvviso, «non so dove abbiamo sbagliato. E poi… abbiamo veramente sbagliato in qualche cosa? Non hai detto poco fa che le cose finiscono senza ragione, che si spengono senza rumore? Allora credo che non dobbiamo aggiungere altro. È inutile stare qui a farsi macerare dall’angoscia per trovare il colpevole, il responsabile. Che senso ha aggiungere parole a parole? Serve solo a farci ancora del male, a rovinare anche quel poco (o quel tanto) di bello che c’è stato tra di noi in questi anni. Perché farlo? Lasciamoci così, senza altre parole, senza altre lacrime, senza altri baci. Non devi avere compassione di me, non devi averne più. Abbiamo parlato per ore e ore da ieri e siamo sempre fermi nello stesso punto. Non facciamo un passo, da mesi, in nessuna direzione. Sono mesi che andiamo avanti per inerzia, senza più sapere chi siamo. Siamo stanchi e non abbiamo il coraggio, o l’onestà, di ammetterlo. Due solitudini non fanno una coppia. Ci siamo quasi rovinati l’un l’altro. Adesso però è giusto fermarci, finché siamo in tempo… ».
«Sì», ora era lei ad apparire esausta e amareggiata. Parlava per monosillabi, aveva il volto colorato da un’espressione di tristezza stupita. Forse non s’aspettava che lui avrebbe capito tutto prima di lei. E in quel frangente toccava a lei sentire le lacrime incipienti ed essere attraversata da una malinconia insostenibile.
Lui nel frattempo aveva indossato la camicia. Si guardarono per un istante. La penombra della stanza era sempre più densa e soffocante. Non si baciarono per l’ultima volta, né si abbracciarono. Lui aprì la porta con un gesto che voleva essere definitivo: il suo viso adesso aveva un’espressione decisa, come non succedeva da mesi. Lei, distrutta, realizzò solo in quel momento che tutto era veramente finito, dentro e fuori di lei.
«Addio».
«Addio».

Marzo 2012

martedì 16 aprile 2013

MISTERIOSAMENTE




I
Non credo alle divinità dell’oggi
e so che quel che rimane dei giorni è poca cosa,
aria rifritta su padelle nere di rogna.
Alla fine cosa passa e cosa resta qui non interessa,
e sappiamo tutti gettare via il tempo
e pulire con stracci unti
i vostri pavimenti senza colore.
Abbiate paura!

II
Due monetine sull’impiantito.
I romanzi di Gadda e Meneghello mi guardano
poggiati anche loro sul tavolo di legno.
E poi fogli e carte e il riscaldamento rotto.
Voglia di dare calci al muro.
Il cesso dei vicini che si porta via
cacche di fritto e di sughi di cipolle.
Una penna e i detersivi della cucina nello scatolone.
Sanguineti è qui con me, aperto e oscuro.
Almeno lui non dice niente. Grazie.

III
La metafisica di un pensiero soave apre l’alba:
come insetti benefici le malinconie sfarfallano alla luce
che si muove sui muri e bacia le finestre rotte
senza finire di stupire chi si sveglia lento.
È un modo per sentirsi vivi, questo:
ferirsi gli occhi al sole, accecati e inermi,
di fronte al mondo oscuro che opprime il petto.
Alla fine la sveglia che rompe l’incanto.

IV
Che belle le battone nude sulla strada serale
con la pioggia che sferza i loro sobri collant!
Almeno loro hanno un’idea precisa dell’uomo
che sbanda in auto al loro nobile prostrarsi
per sbandierare le proprie natiche al mondo intero.
Ah, le sublimi puttane della strada provinciale,
dico così, echeggiando Stendhal…

V
“Io me ne devo andare”, disse, “voi restate”.
Voi chi? Era da solo, nella stanza oscurata
del pomeriggio primaverile che non voleva passare.
E le cose me le ha rubate senza fare rumore;
una sera rovistando nella scatola polverosa
ecco le fotografie di quel tempo,
e quei primi piani alla Antonioni,
sì, quelli sì, quelli dovevi rubarmi…

VI
Le carte scritte da me ballano al vento
e non mi sembra che valgano la fatica spesa
a dare forma alla confusione da onanista d’intelletto,
dei miei giorni a bighellonare tra le stanze di casa.
Quale casa? Quali carte? Quali versi e quali metafore valide?
Marcisce la carta, marcisce l’inchiostro, marcisce la testa,
putrida vanità intellettuale che illude non essendoci mai!

VII
E io che ti parlavo di Fellini, Zurlini e di quel film,
La prima notte di quiete, poi ti citavo Caproni
e interrogavo occhi e mani, intrecciate,
mi vantavo di belle poesie non mie…
per che cosa… nulla se non una striscia di parole
che non ho capito affatto, che fesso!

VIII
Vedi cara, è difficile sputare oltre la ringhiera
perché la saliva non è leggera come una piuma
e poi non sono cresciuto abbastanza da quella volta lontana
in cui bagnammo i passanti con olio e aceto.
Ma erano altre finestre.
Ora ci bagniamo di altre cose, a volte,
ma il romanticismo dell’olio, e dell’aceto,
ogni tanto mi manca…

lunedì 8 aprile 2013

CONVERSAZIONE IN SICILIA - Elio Vittorini





Conversazione in Sicilia, opera mirabile di Elio Vittorini (1908-1966), uscì nel 1939 alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. È un libro "nuovo" dal punto di vista della tecnica letteraria, caratterizzato da un senso vivo di angoscia e di sofferenza umana e politica (si veda l’Introduzione all’edizione Rizzoli del 2006, nella quale sono citati brani dall’epistolario di Vittorini nel 1937-1939). È una storia nella quale si trova un fragile equilibrio tra realismo e simbolismo. Il dato reale (il viaggio verso la terra natia, l’incontro con la madre, con l’ambiente povero della Sicilia profonda, con la sofferenza dei suoi conterranei) è la base su cui è costruita una tenue allegoria, nella quale i personaggi rimandano ad altre storie, pensieri, idee, e nella quale il significato dei fatti e delle parole può essere inteso in modi differenti. 
Conversazione in Sicilia è un libro in cui le immagini, meglio delle parole e dei pensieri, rivestono un ruolo primario; è un libro in cui la luce e la sua assenza hanno un’importanza notevole; la scrittura è rapida, per pennellate brevi, all’apparenza spoglia, come gli ambienti in cui si muove l’autore. È probabile che vi sia, nello stile dell’autore, l’influenza della letteratura americana, di cui Vittorini curò per Bompiani un’antologia nel 1941. Il libro si divide in cinque parti, che seguono l’itinerario del protagonista. Vorrei parlarne quindi rispettando questa divisione.
Parte Prima. È l’inizio del viaggio: succede tutto in modo casuale. Quasi senza volerlo, il protagonista, Silvestro, prende il treno e dopo quindici anni torna in Sicilia. È inverno. Dopo Messina, l’incontro con un gruppo di siciliani diventa il primo passo del percorso verso il recupero di un Sé perduto. Appare un personaggio, il Gran Lombardo, che schiude al protagonista le porte della sua terra. Il Gran Lombardo è un uomo austero, grande, saggio: egli pensa che un uomo non sia tale se non compie “altri” doveri, oltre ai classici quali “non uccidere”, “non rubare”, perché, sostiene: “[i doveri canonici] sono doveri troppo vecchi, troppo vecchi e divenuti troppo facili, senza più significato per la coscienza” (cap. VII). Depurata dai simboli, la prima conversazione in Sicilia potrebbe significare questo: il popolo, nonostante il fascismo, possiede ancora nella coscienza dei semi di ribellione volti al proprio riscatto.
Parte Seconda. L’incontro con la madre, che si chiama Concezione, è senza emozioni, almeno sulla pagina. Quindici anni sono passati dall’ultima volta che si sono visti, eppure ogni gesto appare usuale, ordinario. Lei e il figlio mangiano assieme come succedeva nell’infanzia, quando vivevano nelle case cantoniere, poiché il padre di Silvestro faceva il ferroviere. Questa seconda conversazione scava a lungo nel passato; i ricordi diventano vivi, emergono dal buio, e i sentimenti pungono ancora: la madre confessa che il marito se n’è andato con un’altra donna, perché, ricorda, aveva sempre “bisogno di altre donne per la casa e fare il galletto in mezzo alle donne… Sai che scriveva poesie. Le scriveva a loro” (cap. XVI). Al ricordo del padre come uomo venale e vigliacco (quando Concezione doveva partorire, lui non faceva altro che piangere), si contrappone, nelle parole di Concezione, l’immagine del padre di lei, un uomo validissimo verso cui lei prova un’ammirazione da donna. Silvestro però vuole scavare ancora, nel profondo della loro storia, della loro anima colma d’ombra. Ormai è grande, intende sapere tutto. E alla fine la madre gli confessa che pure lei ha “tradito” il marito, è andata nel vallone con altri uomini, addirittura con un povero viandante che le faceva pena perché, oltre alla fame di cibo e acqua, aveva anche un’altra fame… Così la madre, che apostrofava le amanti del marito definendole “vacche”, diventa per Silvestro essa stessa una “vecchia vacca”.
Ma non c’è moralismo in questo giudizio: esso è solo un modo per commiserare la disperazione di queste donne costrette a servire sempre gli uomini, che siano mariti, figli o estranei. “Queste donne!’, pensai … le donne in genere senza dolcezza per la notte sulle mani, e forse, alle volte, infelici di questo, gelose e selvagge per questo, non avere di odalische le mani come pur avevano il cuore e la faccia e non poter tenere i loro uomini legati a loro con le mani” (cap. XVIII).
Parte Terza. Silvestro accompagna la madre a fare le iniezioni ad alcuni malati. La discesa negli inferi è simboleggiata dalle case buie e misere del paese povero. Negli stanzoni disadorni dove i due entrano, vivono donne, uomini e bambini, malati soprattutto di povertà. Le scene sono tratteggiate a chiaroscuro: c’è il sole, ma i due discendono le strade buie del paese, entrando in case nelle quali non si distinguono gli ambienti, né i visi dei malati. Un pezzo d’inferno di miseria. Soprattutto il capitolo XXVI è teso a descrivere il dramma di chi ha un malato in famiglia: non si mangia più, e i ragazzini arrivano a divorare le gambe delle sedie. La simbologia è forte: l’autore di certo non parla di una malattia tra le altre, bensì della miseria e della passività che spesso paralizza il popolo, la classe operaia, la cui sfiducia nell’avvenire è la peggiore malattia. Il giro delle iniezioni possiede altresì un secondo significato: l’iniziazione erotica di Silvestro. Non dal punto di vista puramente sessuale (l’uomo infatti è sposato), ma da quello del contatto con le donne, contatto che la madre, che non ha potuto farlo a suo tempo, ora vuol dirigere. Ella, quando deve fare le iniezioni alle donne, si porta il figlio, decantandone le lodi. E il gioco di sguardi tra queste donne e il figlio è intessuto di frasi non pronunciate, desideri repressi. Ma non è nella passionalità e nella passiva sensualità che Silvestro cerca il proprio riscatto, perché non ne ha bisogno. Finché le donne si presteranno a essere sottoposte, a essere osservate come oggetti, nulla cambierà nel popolo. Egli rifiuta presto il gioco della madre e abbandona il giro delle iniezioni.
Parte Quarta. Il dolore per la sofferenza del mondo è il leit-motiv di questa parte, dove Silvestro incontra alcuni personaggi che svolgono un ruolo doppio (sono presenze del racconto e al contempo simboli di inclinazioni politiche). Per primo c’è l’arrotino, Calogero, che si lamenta perché in quel paese non trova nessun oggetto degno di essere affilato: “Coltelli? Forbici? Credete che esistano ancora coltelli a questo mondo?” (cap. XXXIII), egli afferma. Secondo l’interpretazione più in voga, l’arrotino intende in questo modo domandare se vi sia ancora spazio per una rivoluzione, in quel paese, e in Italia. Perché il mondo è bello, ma soffre, e se soffre va cambiato. Però non tutti la pensano a quel modo. L’incontro con l’uomo Ezechiele, che ha una bottega di pellame, ne è un esempio: Ezechiele è un idealista che ha coscienza della sofferenza del mondo, e nonostante questo non agisce, e propone agli amici, per “consolazione” di andare a bere un bicchiere di vino. Poco dopo, l’incontro con il panniere Porfirio, che sa che esiste il male nel mondo ma propone come soluzione l’acqua pura, dimostra che la coscienza rivoluzionaria è poco diffusa. Alla fine, la scena che si svolge nella taverna dell’oste Colombo è desolante: i tre amici bevono, dimenticando i problemi del mondo; e gli operai che stanno nella taverna cantano, bevono, scordando di essere coloro che dovrebbero cambiare questo mondo. Silvestro stesso si ubriaca: e il vino rende gli amici mesti, confusi: dov’è adesso il mondo offeso? Silvestro allora esce nella notte gelida e medita: “pensai alle notti di mio nonno, le notti di mio padre, e le notti di Noè, le notti dell’uomo, ignudo nel vino e inerme, umiliato, meno uomo d’un fanciullo o d’un morto” (cap. XL).
Parte Quinta. Si sta concludendo il soggiorno in Sicilia: adesso nella narrazione gli elementi paesaggistici e narrativi diventano più sfumati, ammantati di un simbolismo forse eccessivo. Silvestro vede in sogno il giovane fratello, Liborio, morto in guerra: e la messa alla berlina della retorica del coraggio e dell’eroismo è un esempio di lirismo, perché non si esaurisce nella polemica politica, diventando un pezzo di poesia.  Liborio ricorda di essere morto, ma di non aver smesso di soffrire, e di continuare a farlo come fosse ancora immerso nella neve e nel sangue. Perché Liborio continua a soffrire? “Per ogni parola stampata, ogni parola pronunciata, per ogni millimetro di bronzo innalzato” (cap. XLIII). Ecco l’attacco alla retorica fascista; ma non c’è solo la politica in queste righe. Perché qualche pagina dopo la madre di Silvestro parla di Liborio con affetto e orgoglio di madre, sostenendo che Liborio “amava il mondo”. Nondimeno, il sentimento di una madre è un’emozione sovente fine a se stessa, mentre Silvestro va oltre, prova a ragionare e grida, urla di rabbia, perché Liborio non è morto vanamente né per essere ricordato con passivo dolore, ma, alla stregua di tutti i poveri morti per una guerra che non li riguardava, egli “è morto per noi. Per me, per te, tutti questi siciliani, per far continuare tutte queste cose, e questa Sicilia, questo mondo … Amava il mondo!” (cap. XLV).
Alla fine, Silvestro e gli altri personaggi incontrati (con delle comparse di corredo), si ritrovano davanti alla statua di bronzo, monumento paesano ai caduti. Il simbolo della retorica guerresca diventa qualcosa d’altro: è una donna ben fatta, sensuale e, benché di bronzo, suscita l’ammirazione degli uomini che la guardano. Tuttavia, non è di un monumento che hanno bisogno i soldati morti, né un paese può risorgere se si limita a celebrare retoricamente il passato. Solo un salto in avanti può salvare il paese; eppure le persone che, con Silvestro, guardando la statua, sembrano non capire questa verità. Anche il rivoluzionario, Calogero l’arrotino, si fa ammaliare dalle forme generose della statua di bronzo e dimentica che il mondo è offeso, che soffre. Forse non è un vero rivoluzionario e se nemmeno gli uomini che soffrono sanno rivoltarsi qual è il destino di questa terra? Non si sa.
È l’epilogo. Silvestro rivede la madre per congedarsi. Forse è deluso, da se stesso e dai suoi compaesani. Il cerchio si chiude. Silvestro è tornato dalla madre, ha recuperato una parte di sé, del proprio passato, l’ha guardato in faccia e amato di nuovo. Ha rivisto il suo paese, la sua gente … ha colto in essa flebili segni di speranza, svagate voglie di riscatto. La conclusione, forse per paura della censura, rimane vaga… oppure, una conclusione vera è impossibile e l’autore non la cerca nemmeno.
L’incontro con Calogero, Ezechiele e Porfirio, il vino dell’oste Colombo, gli operai che cantano ubriachi invece di lottare, l’incontro con il fratello morto, la “riunione” ai piedi della statua di bronzo, sono avvenimenti realmente accaduti o frutto dell’ebbrezza del protagonista? Non si sa bene. Che ruolo svolge l’ideologia rivoluzionaria nella delineazione di questi fatti? E che ruolo gioca invece la semplice ubriacatura? L’ambiguità è reale, intima, come scrive lo stesso Vittoni nel capitolo I: “Questo era il terribile: la quiete della non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi”.
Nelle ultime due pagine la madre di Silvestro è intenta ad accudire un uomo anziano, con i capelli bianchi, con il capo chino. Silvestro le vede solo di spalle ma Concezione gli fa capire che si tratta di suo padre. Il protagonista non l’aveva riconosciuto, dato che il vecchio di copre la faccia con una mano. L’addio è privo di retorica. Silvestro saluta la madre, mentre asserisce che saluterà il padre un’altra volta, non quella. E la conversazione finisce qui.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...