mercoledì 30 ottobre 2013

SPIGOLATURE DA "L'UTILITARISMO" DI JOHN STUART MILL




L’utilitarismo di John Stuart Mill (1806-1873) prende le mosse dalla riflessione dell'economista e filosofo Jeremy Bentham (1749-1827), seppure con parecchi distinguo. Stuart Mill afferma che l’utilità consiste nella assenza di dolore, ossia nella felicità e che per l’utilitarismo: “le azioni sono moralmente corrette nella misura in cui tendono a procurare felicità, moralmente scorrette se tendono a produrre il contrario della felicità. Piacere e liberazione dal dolore sono le uniche cose desiderabili come fini” (L'utilitarismo, p. 241). Piacere e assenza di dolore sono fini giacché contribuiscono al raggiungimento della felicità: “La felicità non è un’idea astratta, ma un tutto concreto” (U, p. 285). Stuart Mill assegna dunque al piacere e al dolore un ruolo sussidiario rispetto a quello che Bentham riconosceva loro: essi possono essere utili al fine di stabilizzare le abitudini che ci conducono ad agire, ma un individuo possiederà un carattere definito e fermo solo quando comincerà ad comportarsi in modo autonomo rispetto alla pura e semplice ricerca del piacere e alla sottrazione dal dolore.
Dal punto di vista della moralità pratica, la differenza rispetto a Bentham riguarda la cosiddetta distinzione qualitativa dei piaceri. Per Bentham i piaceri si differenziano in base all’intensità, alla durata, ma, in generale, non vi appare esserci un piacere migliore di un altro a priori. Ciò accade non perché non ci siano dei piaceri più “raccomandabili” di altri, ma perché un piacere può essere valutato solo conoscendo le circostanze in cui esso viene perseguito, oltre alla sensibilità, alle disposizioni, alle intenzioni e al carattere di chi lo persegue (per esempio una società di ubriaconi soddisfatti, benché per Bentham sia qualcosa di negativo, per pura ipotesi non dovrebbe essere biasimata perché non si può imporre a tutte persone di passare il tempo immersi in letture sublimi). Il piacere provato da una persona analfabeta non è inferiore a quello di un intellettuale, poiché la cosa fondamentale è che l’atto da cui esso nasce dia piacere, ossia utilità, all’individuo. Vi è dunque per Bentham una questione metodologica, ma anche contenutistica che lo induce a preferire una considerazione quantitativa dei piaceri: infatti, chi potrebbe prendersi l’impegno di decidere quale piacere sia migliore di un altro? Bentham invece ricorda che: “nessuno può essere miglior giudice di se stesso per quanto riguarda ciò che gli procura piacere o dolore”.
Stuart Mill dal canto suo ritiene che le differenza tra gli individui debbano far capire che “riconoscere che alcuni tipi di piacere sono più desiderabili ed hanno maggior valore di altri, è perfettamente conciliabile con il principio di utilità. Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri debba dipendere solo dalla quantità, quando per valutare tutte le altre cose si considera sia la qualità che la quantità” (U, p. 243). Da questa osservazione traspaiono due riflessioni significative: la prima è legata alla convinzione dell’oggettività dei valori, per cui, essendo l’utilitarismo una teoria del valore, il raffronto tra soddisfazioni di diversa qualità non può essere demandato a una loro mera valutazione soggettiva. La seconda convinzione, ancor più rilevante, è legata all’idea, propugnata da di Stuart Mill, del carattere fondamentale dei confronti interpersonali di utilità, trascurati da Bentham, che mirava a un miglioramento delle istituzioni che potevano determinare i bisogni primari dei cittadini. Secondo lui, chiarita la natura di questi bisogni, sarebbe stato sufficiente riformare le istituzioni affinché rispettassero e promuovessero questi bisogni, tenendo presente che l’impulso alla benevolenza possiede un ruolo primario e innato nell’influenzare la condotta della maggioranza degli individui. Stuart Mill, più interessato alle relazioni tra i singoli individui, ritiene invece opportuno distinguere tra i piaceri, operare dei confronti da di essi, e giunge alla conclusione che la promozione dei piaceri più lodevoli garantisce alla società un accrescimento del livello generale della felicità: “È meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto” (U, p. 245).
Per Stuart Mill la ricerca della felicità non segue una ferrea logica calcolante, attenta soltanto alla quantità di piacere ottenibile: è chiaro che sovente si sceglie un piacere all’apparenza meno intenso ma più sublime perché lo si preferisce, benché il puro calcolo felicifico possa propendere per il piacere più intenso. La preoccupazione di Stuart Mill è legata a un’idea di società in cui, contrariamente a quello che pensava Bentham, non sia possibile affidarsi all’idea secondo la quale gli individui, una volta capaci di comprendere ciò che è ottimo per loro, avrebbero scelto progressivamente e senza difficoltà quei piaceri ottimi per loro. Bentham ritiene che gli impulsi alla benevolenza e alla simpatia siano in gran parte innati e pertanto (grazie a un governo attento alla loro promozione, ma anche capace di non intromettersi troppo nelle scelte private dei cittadini) alla fine sarebbero prevalsi. Stuart Mill pensa invece che vi debba essere una attenuazione del liberismo in campo economico, perché non è possibile confidare nell’idea della progressiva affermazione della benevolenza come pulsione innata, dato che le dissennatezze dei ricchi non possono essere viste come residui di un’età al tramonto destinata a far trionfare benevolenza ed altruismo:

nella natura umana, la capacità di nutrire i sentimenti più nobili è il più delle volte una pianta molto tenera, che  muore facilmente, uccisa non soltanto dalle influenze ostili, ma da una mancanza di sostentamento… Gli uomini perdono le loro aspirazioni più alte… e si danno a piaceri inferiori non perché deliberatamente li preferiscano, ma o perché sono gli unici cui hanno accesso oppure gli unici di cui riescono ormai a godere” (U, p. 246).

Nell’utilitarismo moderno l’idea della distinzione qualitativa tra piaceri sarà abbandonata (e in genere sostituita da quella tra le preferenze); di contro, permarrà l’idea milliana secondo cui chi ha meglio assimilato la dottrina utilitarista è la persona che, grazie alla completezza delle informazioni sulla società in cui vive e al cumulo di esperienze precedenti, sarà in grado di comprendere quale piacere sia migliore e utilitaristicamente più efficace per l’incremento della felicità complessiva: “il banco di prova della qualità, il metro per misurarla a fronte della quantità, sta nelle preferenze assegnate da coloro che sono meglio forniti di strumenti di confronto, grazie alle opportunità offerte loro dall’esperienza ma anche grazie alla loro abitudine all’autoconsapevolezza e all’autosservazione” (U, p. 248).
Per Stuart Mill dunque chi sperimenta i piaceri superiori, conosce anche quelli inferiori ed è l’individuo più qualificato per affermare quali di essi possono contribuire al meglio alla promozione della felicità sociale. Infatti, ciò che è va promossa è la “maggior quantità di felicità complessiva; e se si può dubitare che un carattere nobile sia sempre più felice degli altri grazie alla sua nobiltà, non c’è alcun dubbio che egli renda più felici gli altri” (U, p. 247).

Stuart Mill si preoccupa altresì di rispondere ad alcune obiezioni solitamente condotte contro la sua dottrina morale; queste pagine permettono peraltro all’autore di precisare meglio la sua visione dell’utilitarismo.
La felicità, in qualsiasi sua forma, non può essere lo scopo razionale della vita.
Il fatto che non sia possibile, come è naturale, che tutti siano sempre felici, non significa che la felicità non possa essere uno scopo razionale della vita. Certamente se con felicità si intende uno stato permanente di esaltazione ed entusiasmo, è evidente che essa si verifica raramente, sebbene il fatto che questi momenti si presentino indica che tale felicità esiste. Tuttavia è fondamentale ricordare che “l’utilità… non comprende soltanto il perseguimento della felicità ma anche la prevenzione o l’attenuazione dell’infelicità” (U, p. 249). Stuart Mill ammette che la vita ottimale è quella in cui i dolori siano pochi e rari, intervallati da rapidi momenti di contentezza. Egli è cosciente dell’estemporaneità dei momenti di esaltazione, i quali non possono essere il segno della felicità. D’altra parte, il sentirsi felice dipende da tante cose, dalle aspettative che ognuno ripone nella sua vita, da quello che può ottenere da essa in base alle sue condizioni fisiche, economiche, alla fortuna. La cosa fondamentale è che ognuno non sia privato della libertà di attingere alle fonti della felicità alla sua portata, le quali peraltro sono molte e più una mente è elevata, più fonti di felicità riesce ad individuare.
È d’altra parte evidente che nel mondo accadono parecchie calamità e disgrazie alle quali è difficile sottrarsi ma che, secondo Stuart Mill, potranno in gran parte essere attenuate, grazie al miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. I mali del mondo non vengono dunque negati dall’utilitarismo, tuttavia esso sostiene che “tutte le maggiori fonti della sofferenza umana si possono in gran parte battere con la sollecitudine degli uomini e con i loro sforzi; molte possono addirittura essere distrutte completamente o quasi” (U, p. 253).
Gli uomini possono fare a meno della felicità.
Stuart Mill riconosce la possibilità che un individuo sacrifichi la propria felicità; tuttavia egli non assegna un valore assoluto a questo atto, il quale è valido solo se aumenta l’utilità complessiva, ma se ciò non accade, è un atto contro l’utilitarismo (pure Bentham ha dedicato molte pagine a criticare l’ascetismo). Ciò significa che l’utilitarismo è in grado di apprezzare il sacrificio ma, rispetto per esempio allo stoicismo, non lo valuta sempre in modo positivo, in quanto è tale solo se incrementa le felicità. “L’unica rinuncia di sé cui plaude è la dedizione alla felicità altrui, o a qualcuno dei mezzi per ottenerla” (U, p. 255). La cosa fondamentale è riuscire a contemperare la propria esigenza di felicità con quella degli altri membri della comunità (“Nella regola d’oro di Gesù di Nazareth possiamo leggere tutto lo spirito dell’etica utilitarista. Fare agli altri quello che si vorrebbe gli altri facessero a noi, e amare il prossimo come se stessi, costituiscono la perfezione ideale della moralità utilitarista”, U, p. 256).
L’utilitarismo pretende troppo dagli individui, come se questi dovessero sempre essere santi.
Stuart Mill ritiene che l’etica abbia il compito di indicarci quale dovrebbe essere la nostra condotta ottimale e pertanto, quando si indica un modello, è normale che esso si configuri come non raggiungibile in modo completo, ma ciò non significa che esso sia una chimera. Per l’utilitarismo è l’intenzione quella che deve sempre mirare all’incremento della felicità complessiva, mentre è chiaro che i motivi per i quali agiamo non sono sempre volti a promuovere il bene universale, perché ovviamente un essere umano non è un santo e non può ragionare in questo modo. “La grande maggioranza delle azioni buone non è fatta a beneficio del mondo, ma a beneficio di singoli individui, ed è di questi singoli benefici che è composto il bene del mondo” (U, p. 258). Questo perché, una volta adottata la regola dell’utilitarismo, agiamo comunque sempre all’interno di una ristretta cerchia di persone. In altre parole, a livello ideale l’individuo deve aver acquisito il principio di utilità e farsi guidare da esso, mentre a livello pratico è frequente che i motivi per cui agisce siano particolari.
L’utilitarismo valuta solo le conseguenze degli atti, non la qualità della persona agente e si mostra essere una dottrina fredda ed insensibile.
Questa obiezione sarà riproposta più volte in chiave moderna, allorché l’utilitarismo verrà definito come una forma di “consequenzialismo”. Stuart Mill ritiene invece che per valutare in modo imparziale un’azione sia necessario non farsi influenzare dalle opinioni concernenti la persona che compie l’atto: anche un uomo cattivo può compiere una buona azione. Tuttavia, nel lungo termine, sono proprio le azioni buone la migliore prova di un buon carattere.
L’utilitarismo non riconosce il ruolo di Dio nel determinare le azioni umane.
Stuart Mill è molto attento nel respingere quest’ obiezione; egli ovviamente non nega l’esistenza di Dio, ma vuole proseguire l’opera di Bentham e dunque emancipare l’etica da sovrastrutture di carattere religioso o metafisico. Solo in questo modo essa può diventare autonoma e indicare all’uomo regole di condotta le quali trovano in se stesse la propria giustificazione. Bentham stigmatizzava peraltro l’idea di attribuire un’origine divina alle regole morali, poiché ciò le avrebbe rese non criticabili ed immutabili. Tuttavia, se i dettami della religione appaiono contraddire l’utilitarismo, è la religione a mostrarsi sbagliata, dato che sono le verità rivelate che devono passare al vaglio della moralità. Scrive Bentham: “I dettami della religione coinciderebbero in tutti i casi con quelli dell’utilità, se l’Essere che è oggetto della religione fosse ritenuto benevolo quanto è ritenuto saggio e potente, e se le nozioni che si hanno sulla sua benevolenza, allo stesso tempo, fossero altrettanto corrette quanto quelle che si hanno sulla sua saggezza e il suo potere. Sfortunatamente, però, questo non avviene”. 
Stuart Mill riconosce il grande valore ideale della figura di Gesù Cristo (cfr il saggio La libertà: “penso sia un grave errore cercar di trovare per forza nella dottrina cristiana quella completa regola di vita che il suo autore intendeva sì sancire e far valere, ma solo in parte darci in modo esplicito” U, p. 133) e ritiene che molti dettami della religione si adattino alla perfezione all’utilitarismo, la quale per questi motivi è la dottrina più religiosa perché, come Dio, vuole assegnare la felicità agli individui. Egli raccomanda, di fronte alla religione, un atteggiamento di partecipato e sano scetticismo: le sacre scritture possono fornire certamente modelli di eccellenza morale che, attraverso l’immaginazione, noi possiamo fare nostri, ma alla fine “La credenza nel soprannaturale non può più essere considerata una condizione necessaria per conoscere ciò che è giusto e sbagliato nella moralità sociale per fare il bene o astenersi dal male” (cfr. Tre saggi sulla religione).
Non è possibile, prima di agire, calcolare con esattezza quanta felicità possa scaturire dai propri atti.
Stuart Mill sostiene infine che questa obiezione non tiene conto del fatto che nessuno di noi agisce senza essere a conoscenza delle esperienze accumulate in precedenza, sia da lui stesso, sia da tutti gli individui che lo hanno preceduto; pertanto, nessuno agisce in condizioni di totale solitudine, poiché per esempio si può fare affidamento al principio di utilità, il quale non va ogni volta ridefinito e dimostrato.

sabato 19 ottobre 2013

LE FOGLIE NON MUOIONO QUASI MAI



 
Metafora di cose e colori che stingono:
un giorno d’autunno è una luce in meno
e un nero pensiero in più che salta sulla testa.
O forse un saluto bifronte, un addio e un benvenuto,
a quello che non si avrà e non si è avuto mai.
L’uomo andò a caccia
e tornò felice con una grossa preda in mano,
ma s’accorse di aver sparato solo a se stesso,
avendo smarrito il limite tra cacciatore e cacciato.
Nemmeno in autunno si attenua
lo scandalo dello stare al mondo
senza rendersi conto di niente mai.
Intanto la natura s’addormenta,
uccelli gravidi di piombo vanno in paradiso,
la terra diventa marrone e rossa,
ma solo pochi uomini s’interrogano sul perché,
sul motivo per cui nulla finisce e nulla inizia
eccetto a volte le loro esistenze, le loro ambizioni,
il loro catarro.
È il colore che sale dalla terra agli alberi,
è la morte felice delle foglie
l’autentico scandalo di questo tempo,
è il loro accartocciarsi diventando bellissime
il loro morire esplodendo in solari colori
di rosso, di giallo,
che impasta di sé la terra ogni autunno
a togliere il fiato agli alberi.
Una festa è la morte
dei loro vestiti.

domenica 6 ottobre 2013

IL DISPREZZO di ALBERTO MORAVIA




- Io non ti amo più, non ho altro da dire.
- Ma perché?... Tu mi amavi, no?
- Sì, ti ho amato molto … molto… ma ora non ti amo più.
- Mi hai amato molto?
- Sì molto, ma ora è finito.
- Ma perché? Ci sarà un perché?
- Ci sarà, forse… ma non lo so dire…

Il protagonista de Il disprezzo (pubblicato nel 1954) riesce a far dire alla moglie quello che lui sospetta da tempo. È il momento dell’epifania e lui, Riccardo Molteni, non esita a cercare la verità, nonostante il dolore che prova. La moglie, Emilia, finalmente parla e lo fa a colpi di accetta: non è tanto quel che dice a ferire l’uomo, bensì il tono con cui lei confessa di non amarlo più: un tono ultimativo, senza speranza e, al contempo, freddo, quasi indifferente.
Diversi segnali avevano preceduto questo chiarimento. Non segni chiari della fine dell’amore, bensì episodi minimi che però, messi assieme, costruiscono una catena drammatica. La scelta della moglie di dormire da sola, sul divano, giustificata con l’impossibilità di stare accanto al marito che, di notte, tiene la finestra aperta. E poi, la fine del loro erotismo: Emilia si “concede” ancora al marito, ma senza partecipazione, anzi, come fosse un dovere, un sacrificio inevitabile. E alla fine Riccardo si rassegna, riducendosi a spiare con timore le nudità della propria moglie, cercando di frenare il desiderio di lei voltando gli occhi da un’altra parte, come fosse un estraneo.
Il protagonista soffre molto: benché si aspetti le dure parole della moglie e, anzi, le abbia provocate, le sopporta a fatica: “Si possono immaginare le cose più spiacevoli e immaginarle con la sicurezza che sono vere. Ma la conferma di queste supposizioni …  giungerà sempre inattesa e dolorosa, come se non si avesse immaginato nulla”. Ora che la moglie ha confessato il suo disamore, si spalancano per la coppia le porte verso l’abisso: Riccardo ha un impulso omicida che si spegne presto. Emilia reagisce con rabbia a questo gesto violento, gridando: “Io ti disprezzo … ecco quello che provo per te, ed ecco il motivo per cui non ti amo più. Ti disprezzo e mi fai schifo ogni volta che mi tocchi”.
Questo dialogo è uno dei pochi momenti in cui la donna parla con il marito dei loro rapporti. In realtà, per tutto il libro, il lettore conosce solo i pensieri dell’uomo (Moravia narra in prima persona) e può unicamente intuire, con molta fatica, quel che Emilia pensa. D’altra parte, nonostante le ripetute richieste di Riccardo, lei non rivelerà la causa del suo disprezzo. Benché il marito faccia delle supposizioni che appaiono plausibili, e in parte le esterni a Emilia, la moglie non si sbottona quasi mai. L’unica costante sarà la continua, desolante, riaffermazione del disamore verso di lui.
Il protagonista è uno scrittore di teatro che da poco ha conosciuto un produttore cinematografico: da quel momento egli entra nel mondo del cinema, collaborando a diverse sceneggiature e migliorando la propria situazione economica. Tuttavia, ben presto Riccardo sperimenta una lacerazione tra le sue aspirazioni e la realtà vissuta. Non ama scrivere sceneggiature nelle quali spesso le esigenze di “bottega” prevalgono sulle ragioni artistiche; non ama il carattere del produttore, Battista, uomo interessato solo al denaro, pieno di vitalità, abile a mascherare la propria cupidigia dietro l’interesse per l’arte; infine, non è amato dalla propria moglie, pur avendo scelto di scrivere sceneggiature solo per lei, per farla vivere in un bell’appartamento.
Il naufragio definitivo della coppia ha come scenario l’isola di Capri. Il produttore, infatti, vuole finanziare un film sull’Odissea. Ha invitato a Capri, nella sua villa, Riccardo, Emilia e un regista tedesco, Rheingold, affinché, nell’atmosfera dell’isola, i due uomini trovino il modo di scrivere il film. Riccardo accetta l’offerta solo perché spera che il viaggio a Capri possa portare la pace con Emilia.
Naturalmente accade il contrario, anche perché il protagonista vivrà con insofferenza la sceneggiatura, essendo in disaccordo con il regista sul modo di scrivere il film: questi, infatti, sostiene un’interpretazione assai moderna dell’opera di Omero. Egli pensa che l’Odissea sia la raffigurazione della vicenda di un uomo come Ulisse, razionale e riflessivo, assai diverso dal mondo culturale greco espresso nei poemi omerici. Secondo il regista, Ulisse va in guerra solo perché si è accorto che Penelope non lo ama più. E perché non lo ama più? Perché quando i Proci hanno tentato di sedurla o le hanno fatto dei regali, Ulisse, da uomo razionale e sicuro della fedeltà della moglie, non ha reagito; anzi, l’ha incoraggiata ad accettare i doni. Ma Penelope è una donna rozza, figlia del suo tempo, della cultura dell’onore e della forza, e interpreta l’atteggiamento di Ulisse come disinteresse verso di lei. Perciò smette di amarlo. Solo scendendo a patti con quella cultura dell’onore e della violenza che aborrisce, Ulisse potrà recuperare l’amore della moglie. Tuttavia egli è riluttante a piegarsi: per questo vaga per dieci anni nel Mediterraneo, indeciso, finché torna a Itaca e uccide i Proci. Ecco allora che Penelope lo riamerà.
Molteni sente avversione verso tale interpretazione, ma è altrettanto contrario all’idea del rozzo produttore, che vorrebbe invece realizzare un kolossal per fare soldi. In realtà, Molteni vede un parallelo che l’inquieta tra l’interpretazione data dal regista della vicenda di Ulisse e il suo rapporto con Emilia. Ulisse alla fine ha riconquistato Penelope. E lui come può riconquistare la moglie? Certamente non spargendo sangue, ma facendo sì che ella torni a stimarlo. Riccardo, infatti, crede che lei non lo stimi più da quando, una sera, lui non è salito in macchina con lei e Battista, preferendo prendere un taxi per recarsi a cena con loro. Che la moglie quella volta abbia pensato che lui la volesse spingere tra le braccia del produttore, in modo da essere poi agevolato nel rapporto con quest’ultimo? La stessa cosa accade alla partenza per Capri: Battista invita la donna nella sua macchina, ma Emilia sostiene di voler stare con il marito; ella allora guarda con aria interrogativa Riccardo, il quale non dice nulla, e così la moglie, cupa, sale nell’auto di Battista.
Riccardo commette lo stesso errore una terza volta: una sera, a Capri nella villa, scorge Battista che bacia Emilia. Più tardi, a cena, egli si comporta come se nulla fosse: impegnato a recuperare la stima agli occhi della moglie, confessa al produttore di scrivere sceneggiature solo per soldi e di non amare quel lavoro. Poi, nella camera di Emilia, cerca conferma di questo suo “recupero” della sua stima, ma la donna rimane fredda, impassibile, anzi, è pronta a criticarlo per quelle sue parole temerarie. Infine, Riccardo non accenna al bacio che ha visto, precludendosi, forse, l’ultima possibilità di essere riamato dalla moglie. I tentennamenti, la sua indecisione sul fatto di accettare o meno la sceneggiatura, non sortiscono comunque effetti di sorta. Per esempio, egli è convinto che la moglie lo apprezzerebbe di nuovo se rinunciasse al lavoro, mostrandosi più attaccato ai propri ideali che al denaro. Ma Emilia non muta atteggiamento quando lui le confessa questo pensiero, né si scompone quando il marito, con un giorno di ritardo, le rivela che ha scorto Battista baciarla. Lei infatti risponde indifferente: “Lo sapevo che mi hai visto… ti ho viso anch’io”.
È arduo per il lettore comprendere le dinamiche di questa coppia in disfacimento. Essa sembra disgregarsi per stanchezza, per noia, senza una ragione: “Emilia … desiderava continuare a disprezzarmi senza motivo, in modo da togliermi ogni possibilità di discolparmi e giustificarmi e da precludere a se stessa ogni ritorno alla stima e all’amore … in Emilia il sentimento di disprezzo era venuto prima, molto prima delle giustificazioni vere o immaginarie che io avevo potuto offrirle con la mia condotta … Ella avrebbe potuto dissipare fin dagli inizi l’equivoco crudele in cui era naufragato il nostro amore, palandomi, avvertendomi, aprendosi. Ma non l’aveva fatto, perché … in realtà ella non voleva essere disingannata, voleva continuare a disprezzarmi”.
Nondimeno, le riflessioni che Riccardo elabora per spiegare a se stesso il motivo della disaffezione di Emilia, per quanto acute, arrivano solo a sfiorare la verità. La donna, da parte sua, è un personaggio algido che probabilmente non ha ben chiaro il motivo del proprio disamore; tuttavia, come accadeva per Penelope nell’interpretazione del regista tedesco, la natura semplice della donna pare aderire alla realtà meglio dell’intellettualismo di Riccardo. Infatti, verso la fine del romanzo, di fronte all’ennesimo tentativo del marito per conoscere i motivi del disprezzo che lei prova, Emilia risponde: “Come sei fatto non lo so, lo saprai tu, so soltanto che non sei fatto come un uomo, non ti comporti come un uomo”. Nella sua semplicità, con questa frase più adatta a un fotoromanzo che a una discussione colta, Emilia dimostra di essere più concreta. La stessa cosa accade più tardi, quando ella grida al marito: “Non te lo perdonerò mai, mai ti perdonerò di aver rovinato il nostro amore”.
Di fronte a queste “lezioni” di realismo e allo scacco delle proprie aspirazioni, Riccardo comprende due cose: la prima, che la distanza dalla moglie è incolmabile, perché non è più solo di natura affettiva, bensì culturale: essi desiderano mondi diversi e vivono realtà lontane tra loro; la seconda, è che la moglie lo disprezza come uomo, ovvero per la sua “essenza”, per la sua natura profonda. Allora non c’è più nulla da fare: nonostante Riccardo covi ancora dentro di sé la speranza, la situazione è conclusa. Durante una gita in barca, egli ha, infatti, un’allucinazione: vede la moglie seduta vicino a lui che gli assicura che tutto è a posto e che ogni cosa è tornata come prima. Ma è un sogno, anche perché la moglie in quel momento, sta tornando a Roma con Battista, come gli ha annunciato con un biglietto: “Caro Riccardo, visto che tu non te ne vuoi andare, sono io che me ne vado. Da sola forse non ne avrei avuto il coraggio: approfitto della partenza di Battista. Anche perché ho paura di restare sola e la compagnia di Battista, dopo tutto, mi sembra preferibile alla solitudine. Ma a Roma lo lascerò e andrò a vivere per conto mio. Se, però, vieni a sapere che sono diventata amante di Battista, non ti meravigliare: non sono di ferro e vorrà dire che non ce l’ho fatta e che mi è mancato il coraggio. Addio. Emilia”. Tutto è finito, non c’è altro da raccontare. Il film naturalmente non si farà, Riccardo ha finalmente comunicato al regista l’intenzione di non collaborare alla sceneggiatura. Quando torna alla villa, l’uomo trova un telegramma di Battista che gli annuncia che Emilia è morta in un incidente stradale.
Forse questo grande libro è, talvolta, un po’ freddo. La scrittura colta, lineare di Moravia appare oltremodo impegnata ad analizzare in modo troppo intellettuale le pulsioni e i sentimenti dei protagonisti, tanto da renderli, talvolta, irreali. Da questo punto di vista, Gli indifferenti (1929) aveva una tonalità molto più viva.
Tuttavia, la scelta di limitare a tre i protagonisti (il regista Rheingold rimane sullo sfondo) è felice, come efficace è l’idea di far svolgere quasi tutta la vicenda in un unico luogo, l’isola di Capri. Questi fatti donano linearità e pulizia al romanzo. Moravia, inoltre, descrive in modo mirabile le mille riflessioni e i patimenti dell’uomo, riuscendo anche a istituire un originale parallelo tra la vicenda narrata da Omero e la più prosaica crisi tra Riccardo ed Emilia. La crisi che Riccardo vive investe sia la sua identità, sia quella del ruolo dell’intellettuale in una società ormai avviata verso il consumismo. Però non mi pare corretto attribuire a Il disprezzo una valenza sociale: è il racconto della fine di una storia d’amore per consunzione, per mancanza di ossigeno. Questa atmosfera, a mio parere, viene ben riprodotta nel 1963 nel film di Jean-Luc Godard ispirato al romanzo di Moravia, Le mépris, con Michel Piccoli e Brigitte Bardot, il cui splendido fondoschiena è sovente al centro delle scene del film.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...