mercoledì 27 novembre 2013

SEAMUS HEANEY. LA LANTERNA DI BIANCOSPINO (1987)




Il molatore di pietre (The Stone Grinder)

Penelope lavorava con qualche garanzia di un piano.
Tutto quello che disfaceva di notte
poteva far avanzare di giorno.

Io, molo le stesse pietre da cinquant’anni
e quello che disfo non è mai la cosa che ho fatto.
Senza ricompensa come l’oscurità allo specchio.

Preparo la superficie a sopravvivere a cosa le viene sopra –
cartografi, litostampatori, tutte quelle linee e inchiostro.
Io ho ordinato le opacità e loro hanno aruspicato.

Per loro era un nuovo inizio e una lastra vuota
ogni volta. Per me, era chiudere il cerchio
come l’onda piccola perfetta in quiete.

Così. Per commemorarmi. Immaginate le facce
strappate dalla faccia di una pietraia. Praticate
il coitus interruptus su una pila di vecchie litografie.

La lanterna di biancospino

Brucia fuori stagione il biancospino invernale,
mela degli spini, piccola luce per piccola gente,
che non vuole nulla di più da loro se non salvare
dall’estinzione il lucignolo della dignità,
senza doverli  accecare d’illuminazione.

Ma talvolta quando il fiato s’impiuma nel gelo
prende la forma itinerante di Diogene
Con la sua lanterna, alla ricerca di un uomo giusto;
così tu finisci per essere scrutato da dietro il frutto
che lui regge ad altezza d’occhi appeso a un tralcio,
e recedi davanti al suo nocciolo e polpa compatti,
al graffio a sangue che vuoi ti provi e renda mondo,
alla maturità beccata che ti esplora, e passa oltre.


Scoprire un poeta è una fortuna. Perché significa arricchire la propria conoscenza, certamente; ma anche perché significa ampliare l’esperienza del mondo, che viene filtrata e abbellita dallo sguardo del poeta. Seamus Heaney (1939-2013) se n’è andato pochi mesi fa. L’altro giorno ho comprato la sua raccolta La lanterna di biancospino, a cura di Francsca Romana Paci, Guanda, Parma 2007 (The Haw Lantern, pubblicata nel 1987). Dalle prime letture emerge in me, d’istinto, un’ammirazione per questi versi all’apparenza secchi, definitivi, eppure così ricchi di immagini dense. È come se il poeta intuisse una specie di verità, ma essa gli rimanesse oscura. L’immagine di Diogene nella poesia che dà il nome alla raccolta è in tutti i sensi illuminante; nell’altra poesia, Heaney si paragona a un molatore di pietre, come se le parole fossero sassi da scolpire. O si paragona a Penelope, che disfaceva di notte la tela tessuta di giorno. Tuttavia, Penelope aveva un piano, uno scopo, mentre il poeta no. Egli brancola nel buio e anche quando la poesia è stampata, egli avverte sempre la mancanza di qualcosa.
Ma proprio l’arte della poesia è, per lui la sola salvezza, come per l’uomo “comune” la salvezza è l’arte, quale che sia. Nel brano Un’arte diurna (A Daylight Art), che ha come protagonista Socrate, leggiamo questi versi splendidi:

Esercita l’arte, la quale arte lui [Socrate] fino ad allora
aveva sempre inteso voler dire la filosofia.
Felice l’uomo, dunque, con il suo dono naturale

Di esercitare l’arte giusta fin da principio –
la poesia, diciamo, o la pesca; e notti senza sogni;
il cui panorama del profondo si sollevi e passi


come luce diurna attraverso l’occhio di canna o pennino.

venerdì 22 novembre 2013

La poesia e le sue bellezze: due parole su Idillio con cagnolino di Alba Donati



“Le tende sono alte davanti ai cancelli spalancati,
i coperchi delle bare vegliano a fianco degli usci,
i paioli bollono sui focolari all'aperto.
In migliaia, vestiti di nero, riempiono
le strade sterrate. Le ruspe sono al lavoro:
sterminati cimiteri al posto di sterminati pascoli”.

Il pianto sulla distruzione di Beslan è forse il punto più lirico della raccolta di poesie di Alba Donati, Idillio con cagnolino, Fazi Editore 2013. La poetessa, smentendo alcune convinzioni sull’impossibilità per la poesia d’oggi di occuparsi dei fatti della vita, crea struggenti versi per ricordare i bambini morti a Beslan nel settembre 2004. Lo stile del componimento riprende il racconto epico, rifacendosi a un testo russo del XIII secolo, e la commistione tra stile “antico” e fatto di cronaca moderno funziona a meraviglia. Questo significa, tra parentesi, che le strutture poetiche vivono al di là della temporalità, e che la riproposizione di forme all’apparenza “fuori moda” può avere successo se sorretta da una tensione lirica intensa, da una notevole perizia e consapevolezza poetica. Mi viene in mente Pasolini che, ne Le ceneri di Gramsci, impiega la terzina di impronta dantesca in modo mirabile senza anacronismi.
Il pianto sulla distruzione di Beslan possiede un tono epico accorato che non diminuisce né quando l’autrice trasfigura la cronaca rendendola in poesia, né quando i versi sfiorano il tono dell’invettiva politica (“La comunità internazionale tace/.Le questioni petrolifere sono taciute,/i morti seppelliti in terra cecena sfiorano/gli oleodotti e i gasdotti, anch’essi...). La polemica politica e sociale non oscura la viva materia poetica e non impedisce al lettore di rievocare quei fatti terribili con una pietas vivissima; siamo tutti vittime di qualcosa cui non sappiamo dare un nome: il disagio dell’uomo d’oggi, il disagio di ognuno di noi, è espresso da questi versi: “Difficile capire dove sia giustizia dove c’è solo morte/e dolore, e pianto”.
La presenza dei bambini nei versi della poetessa è costante e mai retorica. La realtà viene filtrata attraverso i loro occhi ingenui eppure avidi di conoscere (splendida in questo senso Alberi di Natale venata, mi pare, da reminiscenze pascoliane); intendiamoci: il dolore, il male, il lupo che mangia Cappucetto Rosso, non risparmia i bambini, naturalmente. E le favole non servono per occultare la realtà. Gli occhi dei bimbi vedono il male, ma spesso lo filtrano attraverso la fantasia grazie a una mente ancora in parte vergine, capace di illudersi a fin di bene: “Il lupo soffia una volta, due volte/tre volte – ma inutilmente! - dici tu/come se sapessi cosa significa quel resto/di nulla che è ogni gesto violento/di ogni essere umano che soffia/contro un altro essere umano” (Il lupo). Chissà, magari il lupo stesso è a sua volta una vittima: è violento perché non conosce altra forma di comunicazione, di esistenza. Comprendere questa cosa non significa perdonare nessuno, né negare la responsabilità del violento, bensì andare oltre pregiudizi, luoghi comuni, false paure. L’uomo in sé e per sé è il solo protagonista: come il fuscello di Pascal egli, benché preso nel vortice della tempesta, benché debole, benché sempre sul punto di soccombere, può trovare qualcuno che lo possa salvare, come accade nelle fiabe che sono la rappresentazione fantastica del reale. Se è vero che nel mondo d’oggi la violenza è tremenda, non bisogna scordare che esiste anche l’empatia, il prendersi cura degli altri (il famoso I care di don Milani): “Salire sul palco degli dèi/per fermare gli elementi/per metterlo al riparo/su una piccola seggiola” (Il lupo tremante).
Affidarsi allo sguardo dei bambini, alla loro capacità di arricchire la realtà, inventando un “reale” che appartiene solo a loro, è una fortuna per gli adulti d’oggi. La sensazione di spaesamento è fastidiosa, insinuante. I bambini, che sembrano vivere in una temporalità “altra”, fiabesca, inconsapevolmente poetica, possono regalare la forza ai “grandi”: “La gioia … spinge la luce da dentro/i nostri corpi a uscire fino sopra i nostri visi./Tu con il tuo libro ‘da grande’, io con il mio libro/da grande./Tu con la tua risatina da bambina./Io con la gioia” (Idillio con cagnolino). Il tempo dei bambini diventa allora il nostro, un tempo che non nasconde il male ma cerca di guardare anche oltre questo dolore infinito che impasta di sé l'esistenza: “Avvia tu, mio tesoro,/questo lento, lentissimo tempo/che ci contiene” (Piccola idea chiara).
Nella raccolta i toni malinconici non scadono mai nella nostalgia senza speranza. La malinconia si stempera grazie al legame generazionale salvifico e confortante, che fa crescere nella bellezza di un ricordo destinato a spegnersi ma non a scomparire:

Dormite insieme nello stesso letto
con i vostri ottant’anni di differenza,
del mondo non sappiamo più niente:
non ascoltiamo i telegiornali
né tantomeno compriamo un giornale,
abbiamo scelto il silenzio, l’accadere del giorno,
lo spazio intorno alla nostra casa.

È la prima strofa della splendida e commovente di Notte di San Lorenzo, dove il rapporto generazionale tra nonna e nipote viene raccontato dalla madre. La famiglia diventa un mondo chiuso, un bozzolo che protegge e vivifica: “noi veleggiamo tutta la notte, tu alla ricerca della Strega Malefica/io di te, e tua nonna di te, di me, e del suo primo/amore”. Questi versi sono un appello alla forza dei legami indissolubili che vivifica l’uomo in una famiglia unita, che vive di ritmi antichi, di rituali di cui non si ricorda più l’ideatore, di consigli dati con amore e senza paternalismo: “…come ci sia questo spazio intermedio/tra la vita e la morte in cui si cancella tutto il tempo,/e si stia inermi come neonati nelle braccia di chi ci ha amato” (Fernando).
D’altra parte, i ricordi sono destinati a disperdersi come pezzi di esistenza, come immagini di istanti perduti per sempre. Ma la salvezza esiste. Basta saperla cogliere. A volte, certo, è più difficile, perché quando dobbiamo affidarci solo alla nostra memoria, labile di per sé, non siamo più certi di nulla. Una fotografia smarrita non restituisce più alcunché: cercare di riprodurla in altri luoghi è impossibile, poiché ogni fotografia rende immortale un istante che è unico, che mai prima d’allora c’era stato e che mai più esisterà. È un attimo irripetibile e ci vuole passione e fortuna e attenzione per coglierlo: “Perché c’è una perfezione nell’aria/che qualche volta accade per caso./Qualcuno non la vede e qualcuno la disprezza./Eppure ci sovrasta e accende meraviglie/agli angoli di vecchie fotografie” (C’era una foto).
Ci sono tanti cammei in questo bel libro: le scintillanti poesie dedicate a Cesare Garboli, maestro nobile della poetessa (e che maestro!), nelle quali la gratitudine non conosce le barriere della morte (come scrisse Maria Cvetaeva quando morì Rilke, e come ripete Alba Donati: “Se sei morto la morte non esiste”). Dolcissimo è poi il ricordo di Enzo Siciliano (“non ho mai potuto dirti che prima di conoscerti/ti conoscevo/come succede in casa, tra la pareti domestiche,/con le figlie e le madri”). L’omaggio a queste figure, unitamente a quelle di Luzi, Bigongiari, Pampaloni, Baldacci, Garin, Gadda, diventa l’omaggio verso un’epoca che sembra chiudersi e che ha avuto in Firenze (“Povera città senza mani!”) il simbolo, la sua casa, la sua dimora. Eppure anche qui la poetessa non scade nel lamento senza speranza. Come in altre poesie, il momento della tristezza, l'abbattimento non conclude nulla, ma si accompagna a una speranza che non appare immotivata, né consolatrice, bensì come qualcosa di cui è intrisa, forse, la vita stessa dell’autrice e di tanti di noi. È impossibile citare tutto e la sola cosa che si può dire è che il libro va letto e gustato, con calma, direi assaporato. Per fortuna la poesia è viva, e libri come questo sono “utili” sia per chi legge poesie sia per chi si diletta a scriverle.
Vorrei citare infine per intero questa poesia, che s’intitola Meridiani, la cui terzina finale mi sembra affine a L’infinito di Giacomo Leopardi:

La sera ti guardo dormire:
la bellezza degli occhi meridiani
adesso chiusi e la bocca-parola
che respira dolcemente.

Fuori la notte cittadina fa ruotare gli astri lenti:
Urano il pianeta dei cambiamenti
e Nettuno, piccolo e roccioso,
dove nubi e vento corrono per notti
e giorni spettrali, Nettuno,
che presiede lente metamorfosi
e infine Plutone lontanissimo.

A questa musica identica tra te, il tuo respiro
e il cielo, a questo passo comune
per sterminati spazi, io mi riposo.


mercoledì 6 novembre 2013

La "resa" dell'Occidente nel libro di Fernando Coratelli





Gaffi Editore, Roma, pp. 416 (www.gaffi.it)

Un libro che racconta un fatto mai avvenuto rendendolo verosimile, è un libro riuscito. L’immaginazione dell’autore va oltre la realtà restando ancorata ad essa: non partorisce un racconto di fantascienza, né di pura fantasia. Non occhieggia all’utopia, non disegna mondi irreali, ma riesce a descrivere una realtà “altra” assai simile a quella vissuta ogni giorno, tanto da creare confusione nel lettore che, a volte, pensa che quel che legge sia avvenuto sul serio. L’autore, d’altra parte, si destreggia quasi sempre con successo tra diversi generi narrativi: il reportage (soprattutto all’inizio, prima degli attentati), il thriller, il romanzo sentimentale e vagamente passionale, il fantasy, quella che si potrebbe definire una spy-story e, in alcune battute, il saggio politico. Nelle ultime pagine poi la stessa scena è presentata dal punto di vista dei diversi personaggi che la animano, con una tecnica che mi ha fatto venire in mente alcune sequenze di Jackie Brown, film di Quentin Tarantino del 1997.
Il fatto che caratterizza il racconto è questo: quattro terroristi arabi si fanno saltare in aria in quattro diversi punti di Milano. Successivamente, l’autore compone una sorta di “romanzo storico immaginario” raccontando la vicenda politica generale dal punto di osservazione di un gruppo di individui coinvolti nelle esplosioni. I fatti si snodano attraverso una felice tensione tra il fatto politico che coinvolge l’Italia e la vita privata dei personaggi (Tommaso, Andrea, Agata e Teresa quelli più in vista). All’inizio nessun di loro è capace di vivere prescindendo da quel che è accaduto, perché quasi tutti compiono (o progettano di compiere) scelte a cui, senza gli attentati, non avrebbe mai pensato. Tuttavia la loro vita non cambierà radicalmente: nonostante l’intenzione espressa di imprimere una svolta alla propria esistenza (che le due protagoniste femminili ammantano di un’aura idealistica), essi, gradualmente, rientreranno nell’alveo di un’artificiale normalità. O meglio, le loro vite muteranno in parte, ma secondo una direzione diversa da quella progettata appena dopo gli attentati. Agata e Teresa imboccheranno addirittura una strada di successo mantenendo la loro precedente occupazione, ben lontana dall’essere qualcosa di rivoluzionario.
In altre parole, i protagonisti non cambiano granché di se stessi né della loro vita; ogni velleità rinnovatrice è presto abortita di fronte a una realtà che da decenni li ha coinvolti in meccanismi più grandi di loro e ai quali, per ignavia, indolenza o ambizione, non sono in grado di sottrarsi. Nessuna palingenesi è alle porte. La loro resa avviene dopo flebili tentativi di reazione. Gli attentati, sospendendo per qualche giorno l’ordinario fluire dell’esistenza, hanno disegnato l’illusione di poter divenire il grimaldello per scardinare una vita scontata e priva di calore ideale. Ma si è trattato di sensazioni durate qualche giorno o qualche settimana, perché la vera reazione al terrorismo appare concretarsi nel tornare a vivere come se niente fosse avvenuto, ponendo fine a quell’attimo di sospensione dell’ordinario corso delle cose dovuto agli attentati.
L’unico che non progetta di cambiare nulla è il protagonista principale, l’antiquario Tommaso: la sua resa è lampante sin dall’inizio, coronata da riflessioni vagamente filosofiche sulla decadenza del cristianesimo e sulla giovinezza dell’Islam: “Il cattolicesimo cura ormai solo le anime dei morti. Non prospetta più un futuro migliore, non è più né un ideale né un’ideologia […] l’islam sogna ancora di modificare la società. Quella che c’è non gli piace e vuole cambiarla, con un’idea romantica, molto retrò. Insinuano elementi arcaici nella nostra modernità. E vedrai che prima o poi cederemo anche noi. Per combatterli finiremo con il rappresentare la nostra arcaicità – mandando affanculo gli ultimi cinquant’anni”. Il suo coinvolgimento nei fatti, con tanto di convocazione in Questura per testimoniare, ha l’effetto di acuire questa sua remissività, che non scompare nemmeno di fronte agli evidenti soprusi che, in nome della lotta al terrorismo, vengono compiuti.
Ma perché non cambia nulla? Forse perché la “salvezza” contro un terrorismo che colpisce indiscriminatamente e ovunque consiste nella continuazione di una vita “normale” e nella perpetuazione di un modello di società che ha perduto fede nella simbologia religiosa. Questa società ha, infatti, creato dei meccanismi (economici, sociali, finanche esistenziali) operanti prescindendo dai singoli individui, essendo ormai in grado di funzionare anche di fronte a un’emergenza politica e sociale gravissima. Di contro, se l’Occidente scatenasse apertamente la guerra contro il terrorismo, decreterebbe la propria fine, perché l’obiettivo dei kamikaze non è la distruzione fisica dell’Occidente, bensì il fatto che la civiltà figlia dell’illuminismo tradisca se stessa, la propria struttura democratica. Queste convinzioni sono accompagnate dall’idea auto-assolutoria della completa estraneità dei terroristi rispetto alla società civile occidentale.
Peccato che le cose non siano così semplici. Infatti, i terroristi sono di origine araba, ma nati in Italia: sono stati emarginati dalla società che li avrebbe dovuti ospitare. Da lì è stato facile essere coinvolti nella “ideologia” del jihad, l’unico simbolo di riscatto che è apparso loro. Benché schematica, la diagnosi appare valida poiché getta luce su un problema che le società occidentali trascurano: il destino dei cosiddetti immigrati di seconda generazione, coloro che sono nati in occidente da genitori emigrati.
Ma il libro di Fernando Coratelli non è un saggio di politologia, dunque questo aspetto è trattato di sfuggita. Più spazio ha invece un altro tema, concernente la guerra occulta che l’Occidente, segnatamente gli Stati Uniti in collaborazione con i servizi segreti dei paesi “alleati”, conduce contro il terrorismo. Un personaggio del libro è un agente CIA “dormiente” che, tollerato alle autorità italiane, tortura un sospetto fiancheggiatore dei terroristi fino a ucciderlo senza pentimento: “Basta poi farli sparire e fingere che vivano ancora chissà dove, e utilizzare i loro nomi per giustificare altre azioni e, perché no, spingere a nuove guerre. Tutto questo lo fa in nome della democrazia, dell’occidente, con convinzione”. In fondo però anche questo modo di reagire è figlio di una resa, di una totale sfiducia nella democrazia, ossia nell’Occidente stesso.
Poco prima della fine del libro, Tommaso e Agata sono al ristorante e ascoltano alcuni i versi della canzone Road to Peace di Tom Waits: And if God is great/ and God is good/ why can't he change the hearts of men?/Well maybe God himself is lost and needs help/Maybe God himself he needs all of our help/Maybe God himself is lost and needs help. Sono parole che dovrebbero indurli a riflettere: rispecchiano un’idea che, dopo gli attentati, Agata in particolare ha sostenuto. Ma adesso non più, l’emergenza è passata: anche se la ragazza ha ancora in testa di fare qualcosa per cambiare, la sua resa è alle porte e nessun idealismo turberà la sua discesa verso l’accettazione della (nuova o vecchia) realtà. Tommaso invece non si è mai illuso: “Mica questi si imbottiscono di tritolo per instaurare in Italia o in America uno stato teocratico di stampo islamico […]. Siamo noi la creatura che ha bisogno del terrorismo per avere ancora senso di esistere – l’ultimo senso. L’Occidente non accetterebbe mai di essere conquistato o sottomesso – se deve perire, vuole farlo attraverso l’autodistruzione”.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

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