martedì 25 febbraio 2014

GIOVANNI PELI: IL PASSATO CHE NON RESTA





Lo inseguo,
l’uomo della spazzatura, per vedere come è fatto un pazzo,
come se fosse una ragazza arrapante,
io cambio strada, conoscendo questo quartiere
come le mie tasche vuote:
il quartiere non è come quello di una volta
nessuno vive ancora nel quartiere come io per vent’anni io
ci sono vissuto.
L’uomo della spazzatura fa la spesa dentro nei cassonetti
del mio quartiere,
è uno dei pochi che non è mai andato via da qui.
Ci mangiamo con lo sguardo, un duello all’ultima goccia di sangue da succhiarsi,
finché lui con un sorriso giallo da mostro non mi abbatte
in mezzo alla strada ed io io
finalmente potrei sprofondare, essere
un ratto sviscerato ed esaminato.
Invece nella realtà io mi invento la sua vita
e ci spendo dei giorni, per riempirmi le tasche
di un altro passato non mio, ma che resti, come un maglione di lana,
lì nel cassetto pronto per il freddo.
Questo passato poi, insieme a tutti gli altri, scivola via
 come una larva, e non so più nulla io nemmeno di me.

Questa poesia, che mi sembra una delle più intense della raccolta Il passato che non resta, mostra la perizia di Giovanni Peli nel tracciare un ritratto di un uomo tra gli ultimi, sofferente e solo, un uomo emarginato. Ma l’autore subito si domanda chi sia il vero emarginato e se l’essere tale sia solo una condizione sociale e non anche esistenziale, operando un felice passaggio dal realismo poetico a una riflessione di portata più ampia. Ed è positiva, e indice di consapevolezza artistica, la capacità di costruire il ritratto di un uomo sofferente prescindendo dalla retorica e dalla commiserazione. Il medesimo tema torna anche più avanti nella raccolta, benché descritto con versi più brevi e, forse, con maggiore amarezza, come in Piccoli inganni: “Sono proprio taroccate le lacrime/perché che lacrime sono/queste che cominciano subito/che non si è spento né l’eco/né quell’abbaglio nel casino?/E quelle del sangue sul marciapiede?/Quelle nell’osso della faccia/rovinata dagli sbadigli la sera tardi?”
Il volume di poesie del cantautore e poeta Giovanni Peli (qui una sua recente canzone) si divide in tre sezioni Il passato che non resta, Canzoni d'amore, La celebrazione dell'indifeso. Un elemento comune a molti componimenti è il loro esser privi di lirismo fine a se stesso; un altro elemento comune è la prevalenza del verso narrativo, di un registro colloquiale, privo di intellettualismi e termini ricercati. Pensando al mestiere dell’autore, si potrebbe affermare che si tratta di versi “musicali” che potrebbero divenire (o forse lo sono già) sue canzoni. Ma non è questo l’essenziale, perché un cantautore sa distinguere tra poesie e canzoni. Piuttosto, il verso narrativo serve all’autore per ancorarsi a una realtà metrica e contenutistica che conosce bene e non lo tradisce. Per esempio, avverto echi pavesiani in questo finale della poesia Zichi-pachi zichi-pù:

Si dice la parola giusta, si canta e poi ci si guarda
ci si chiede con gli occhi: “C’è speranza per noi?” e il più disperato
versando il vino non dice niente neanche lui
e qualcuno risponde con un’altra domanda: “Perché?”,
poi si ricominciava finalmente a cantare.

Uno dei temi più presenti nel testo, soprattutto nella prima parte, è quello della fanciullezza (ossia di un’età in bilico tra infanzia e adolescenza) che, nella trasfigurazione poetica, diviene un’età mitica, ma non in senso retorico, bensì esistenziale. È l’età della sicurezza vagheggiata, e delle prime paure, dei primi dubbi sulla bontà dell’uomo e della vita: “Allora in due si torna e il corpo/della città cattivo e accogliente/lo si percorre fino ad un piccolo antico bar,/in tutta Brescia specialista della panna montata” (Va’ piccolo cuore). La fanciullezza come età di trapasso tra illusione e disillusione, e talvolta come età colma di dolcezza, è espressa bene dalla bellissima Eravamo forse solo nell’86, dove la compresenza del verbo all’imperfetto con il verbo al tempo presente (“c’era una grossa poltrona/dietro alla quale è sempre bello nascondersi”), mostra come l’autore viva il ricordo con affetto profondo, confondendo memoria e presente:

La prima magia era quella del sole,
tutti i giorni c’era il sole e il profumo di cose buone da mangiare.
Tutti i giorni la casa della nonna a un quarto all’una
era un altro paradiso di sole,
perché era piccola piccola e c’era una grossa poltrona
dietro alla quale è sempre bello nascondersi.
Era piccolo quell’appartamento ma era al quinto piano
e anche da soli si poteva giocare a stare sul balcone
a farsi venire le vertigini e i superpoteri
o a vedere da una finestra, come delle spie,
dentro a quegli angoli
che erano sempre invisibili da giù.

Nella fanciullezza è presente il seme dell’avvenire, in modo embrionale e misterioso, carico di illusioni che quasi sempre rimarranno tali o di assenze le cui ragioni non si comprendono appieno quando si è piccoli, ma che, da grandi, danno un dolore più acuto: (“Mi manca di te/ciò che non sei/ciò che non sai/stereotipata stella/unica amica mia/guarda come è bella/la nostra bugia”. Il gioco dell’assonanza). Per l’autore sembra trattarsi di una fanciullezza soprattutto collettiva, nella quale persone e affetti, dolori e silenzi, creano un coro di voci, di dolori, di speranza. Il passato, appunto, non resta, si disfa di continuo, creando un movimento di cancellazione e rammemorazione, una dialettica tra questi due termini che sembra talvolta assumere aspetti drammatici (Fragile e bianca: “Tu bianca tu fragile tu parli/adesso di ombre che ci hanno/sempre accompagnato. Per anni ho taciuto/ed ora senza noi la verità la nego,/ quando nell’inganno passo il tempo/con altra luce non richiesta/a coprire quell’ombra”), altre volte amari, allorché constata il polverizzarsi degli attimi passati, come accade in Soltanto dei nomi: “ma cosa siete voi?/nomi voi mio senso?/Nostro passato dissolto/breve invadente rischio/breve morte lungo addio”.
Non so se il poeta stia cercando se stesso, né se creda di potersi ritrovare solo guardando al proprio passato. In fondo, quel che è accaduto non finisce mai d’esistere, anche se lo fa solo in modo indiretto, nel ricordo; quello che esiste ora, invece, dura un attimo e svanisce subito. Come fare allora per ritrovare se stesso? Com’è possibile non cadere nell’oblio, come tanti altri, e perché tante cose desiderate e bramate sfuggono da noi? Riprendendo forse il celeberrimo “non” montaliano (o forse occhieggiando a I versi di Vittorio Sereni), l’autore si riscopre in negativo, come in Non mi vogliono: “Troppe cose non mi vogliono/lasciato con i chiodi a respirare/il senso dei miei occhi chiusi/non mi vogliono a respirare/quella cosa che non saprà mai/un uomo buffo e incastrato/col peso del suo corpo intero/nella spallata o nel cielo caduto/privatamente di gomma di ruota/né nessun altro”.
Nella sezione chiamata Canzoni d’amore il leit-motiv è il dialogo con una donna (cfr.  A Elle: “La tua bocca mi conferma la vita/nel bacio che abbiamo trovato/quando i gatti con ritmo segreto/chiesero alla notte dolcezza”). Tuttavia il poeta prosegue a camminare guardandosi indietro, come se potesse conoscere se stesso solo in questo modo e domanda all’altro un aiuto, un appiglio, la possibilità di conoscere quello che lui non è, come in Dovunque tu mi vuoi: “Per questo avvolti dentro una nube di incenso/noi non afferreremo mai il presente:/ora sul tavolo, nel letto, in bagno/dovunque tu mi vuoi/ecco tutto ciò che non sono io”.
La lettura di questa parte diventa quasi commovente quando si scorrono i versi di Nella paura del dire, prefigurazione dell’epilogo di un sentimento che il poeta esprime con versi accorati, ancora ghermito dalla paura di non esistere (“la mia fuga al contrario”), dal terrore della negazione del sé causata dall’abbandono dell’amore e dalla fine di un’altra illusione, quella di un adulto che conosce il dolore e non sa viverlo: “Ora i tuoi occhi spenti/che i sorrisi che ti strappo non svegliano/che nessun bacio i tuoi occhi mangiano/i tuoi occhi cercati in ogni possesso e rapina/come la chiara tua pelle bianca/la chiara tua pelle leccata e bianca/quest’incontro di fuoco spento e azzurro che mi lascia qui dietro/a girare due volte un angolo che non c’entra” (Dimenticando Elle).
La terza parte della raccolta, Le celebrazioni dell’indifeso, presenta poesie in genere più brevi, come se l’autore volesse accompagnare all’epilogo il lettore ampliando lo spazio riservato al silenzio. Prevalgono i colori tenui nella scrittura, come in Cara amica dell’alba (“È l’ora amata dagli insonni/quando cominciano a cantare gli uccelli/e l'inutile notte non è più indicata/tra le possibilità della storia”), che racconta un momento di sospensione del tempo, oppure i versi secchi, brevi, fulminei di Crisi (“La città si riempie di grotte/e di eremiti in valigetta./Ma dalla pioggia non mi riparo dentro./Questi negozi svuotati dagli orchi/e i nemici si rovistano nelle tasche/restano affacciati sul nostro marciapiede/e buttano fuori uno alla volta”), dove peraltro torna il tema dell’emarginazione, venato stavolta dei toni dell’invettiva, ma privo, per fortuna, di pietismo. Ma forse la poesia che rappresenta meglio questa parte è Vieni qui se ti vuoi addormentare, che cerca di rappresentare l’emozione per un sentimento d’amore (per un figlio, un bimbo?) senza banalità, restando sospesa tra dolcezza e sospetto che la felicità qualche volta si possa anche intravvedere:Voglio la grazia di cui sono pieni i tuoi gesti:/il senso di essere nato”.
Vorrei concludere questa breve e parziale disamina citando la poesia eponima dell’intera raccolta: essa, a mio modesto parere, riassume bene i caratteri del Peli poeta e verseggiatore, e forse cantautore, perché la musicalità del verso qui appare insita al brano stesso, che fluisce come un insieme di ricordi che si affastellano l’uno sull’altro, creando una felice e armonica distonia:

C’erano i mostri alle finestre e fiamme,
e Dedalo giù in basso che gridava...
e questa luce di un lampadario
già di recente frantumato.
Lui bellissimo, seduto senza sguardo,
con la cintura di cuoio
che si è già tolto e che è finita lunga lì sul tavolo
ferma a guardarlo
come un serpente in agonia cuoio morto
che ha fatto scappare Agnese e Luciana
già pronte per scappare e vanno
in paese tornano stasera e chi si ricorda più quello che Agnese gli ha gridato,
e la vocina di Luciana...
Lui che le aveva prese su un bel giorno del '50,
e le ha prese su dal paese tra lacrime e bei sorrisi di tutti,
e le ha portate in un bel posto nuovo, in città,
e c’era l’allegrezza al cuore.
Ha tutto dimenticato come tutte le sere quelle arrivano
ogni giorno è sempre un giorno
strisciando come la cinghia cuoio
morto che le fa scappare ancora.
Alla finestra ci sono questi grandissimi ragni con gli occhi da donna,
ragni che lo vogliono prendere, lui che invece non ha sguardo:
è forte come un toro e sorride
aspettando come tutte le sere quel sonno
che non gli fa sentire più niente addosso
né di come brucia tutto, dalla gola al sesso.

Il passato che non resta è una lettura piacevole, che fa entrare in comunicazione con un mondo letterario condito da riferimenti nobili (a parte Elio Pagliarani, esplicitamente citato, credo Baudelaire, Pavese, e l’ombra di Montale della sua celebre negazione assoluta); è questo il mondo artistico e musicale di Giovanni Peli, caratterizzato da una individualità poetica certamente autonoma e matura, sviluppata ma forse ancora in cerca della propria strada definitiva, da trovare là, chissà dove, nella combinazione di parole, musica e versi nuovi.

sabato 8 febbraio 2014

IVANA E ANDREA



Andrea non aveva voglia di rivedere Ivana proprio due giorni prima dell’inizio delle vacanze natalizie. Sapeva che lo voleva incontrare per lasciarlo. Non era una costatazione difficile. Era l’equa nemesi contro il suo perenne tentennare. Andrea difatti era intenzionato a lasciarla dal un bel po’, però esitava, comportandosi da maschio-medio che prima di rinunciare a una donna ne cerca un’altra per non rimanere orfano sessualmente e sentimentalmente. Chiodo schiaccia chiodo, solo che a lui mancava il chiodo nuovo per disfarsi del vecchio.
Ivana invece era stata più risoluta. Solo in apparenza, dal momento che (questo Andrea non lo sapeva) lei il chiodo nuovo l’aveva già trovato e sentiva di non poter più continuare a tenere due chiodi nello stesso foro del muro. E poi il nuovo chiodo era ingombrante: si trattava del professor Lorenzo Meneghini, ordinario di Storia della filosofia morale. Sì, lui, il prof. di cui Andrea era assistente e amico da anni. Andrea ovviamente ignorava tutto ciò. Aduso a pensare solo a se stesso, come se i suoi patimenti fossero l’unica cosa che contasse al mondo, era sempre più avulso dalla realtà attorno a lui. 
Quel giorno bigio, in attesa di Ivana, Andrea se ne stava da solo nel solito bar, “Il togato”, quello degli aperitivi filosofici, dei pranzi con panini imbottiti con cibi strani, dei suoi inseguimenti a studentesse troppo intellettuali per accettare incontri occasionali, tipo una botta e via. Almeno con lui. Era immerso in pensieri amari, in riflessioni quasi apocalittiche su se stesso, la sua esistenza vacua e su sua carriera accademica che non sarebbe mai iniziata. Osservandolo, si avrebbe avuto l’impressione di scorgere un Narciso sadico che sputa contro la propria immagine riflessa, invece di ammirarla…
In fondo Ivana faceva bene a mollarlo, si disse a un certo punto. Scemo lui a non accorgersi prima della sua disaffezione. Da tempo la sentiva lontana: quando era con lui, Ivana era distratta e apatica. Se lui fosse stato un vero uomo, l’avrebbe lasciata per primo. Ma aveva creduto di averla in pugno e di poterla dominare a proprio piacimento. Che babbeo!
Annaspando tra pensieri tanto dolenti, fu distratto da uno studente del suo seminario che entrò nel bar per uscirne quasi subito. Era un ragazzo con i capelli arruffati, con una kefiah al collo e la barba sempre incolta. Un orecchino sul lobo sinistro e una maglietta del “Che” completavano l’immagine di fricchettone degli anni duemila. Chissà quanto cuccava quello lì! E quante avventure non impegnative aveva! Beato lui! Andrea lo salutò ed ebbe un pizzico di nostalgia pensando ai suoi vent’anni, ai primi passi in quell’università, ai primi esami, alla gioia provata davanti ai “trenta e lode”. Era stato tutto vano allora, ogni cosa era stata inutile?
Si sentiva senza futuro. Stava perdendo alcune certezze: la possibilità di una carriera universitaria, l’opportunità di essere stipendiato per fare quello che gli piaceva, e la fortuna di essere amato da una ragazza persa per lui. Cosa ne sarebbe stato di lui? Era giunto il momento di fare un bilancio di quegli anni, tra assistentato e dottorato di ricerca? Sarebbe stato di certo un bilancio in perdita. E forse solo per colpa sua.
In effetti, nessuno lo aveva costretto a restare in università dopo la laurea: aveva avuto eccessiva fiducia nella possibilità di ottenere un assegno di ricerca o una borsa di studio. Si era impegnato tanto: sempre puntuale agli esami, irreprensibile nell’interrogare, corretto, attento a riverire i professori più importanti senza piaggeria eccessiva. Aveva imparato a essere umile, discreto, ambizioso ma non arrivista, e mai supponente. E ora, dopo anni, rimaneva a mani vuote, ma non sapeva con chi prendersela. I colpevoli erano tutti e nessuno, in fondo. Che illuso! Che minchione era stato a credere che avrebbe fatto strada grazie all’impegno e alla determinazione! Proprio in quell’ambiente poi! Quando sarebbe cresciuto, quando avrebbe smesso di credere alle favole? E poi, non era l’unico a subire quell’ingiustizia, se tale si poteva definire quel che gli accadeva. Non era nemmeno il più bravo, poiché di sicuro tanti altri filosofi in erba migliori di lui non potevano fare ricerca. E aveva avuto senso studiare filosofia per tutto quel tempo? Pensò a un passo dello Zibaldone di Leopardi, quello in cui il poeta sosteneva che i filosofi antichi formavano una vera e propria classe sociale, mentre i filosofi moderni, rassegnati al fatto che il mondo non potesse essere filosofo, tendevano a confondersi nella massa. Non se lo ricordava bene quel passo, così si ripromise di andare a rileggerselo, anzi, promise a se stesso di studiare un po’ Leopardi e vedere quanta filosofia ci fosse nelle sue poesie e nelle sue riflessioni infelici. Ma questi pensieri s’interruppero bruscamente… Ecco, ci risiamo, si fustigò, di nuovo a immaginare ricerche e studi che non mi daranno mai nessuna possibilità di costruire qualcosa! Sbuffò allora due o tre volte, scrutando impaziente l’orologio in attesa di Ivana. Perché tardava tanto?
Irritato con se stesso e con la sua indole vagheggiatrice realtà impossibili, Andrea fece una smorfia e si voltò verso il centro del bar, come per cercare qualcuno con cui sfogarsi. Ma non c’era nessuno. Un cameriere, spettinato e triste, sbadigliava seduto a un tavolo ingombro di tazzine e bicchieri. Altri due camerieri sfogliavano “La Gazzetta dello Sport”. Poi scorse vicino al bancone un ricercatore precario, zimbello dell’università e menagramo certificato. Lo salutò con un cenno della mano, senza muovere il volto, in modo da non invogliare quell’uomo ad avvicinarsi. Andrea rabbrividì pensando che anche lui sarebbe potuto diventare come lui: isolato, emarginato, pallido, invecchiato precocemente. Niente, la giornata non decollava, l’umore era nero. Ivana non arrivava, l’assegno di ricerca neppure, il suo futuro era fuligginoso. La radio nel bar aveva cominciato a sparare a tutto volume una canzone di Tiziano Ferro: fu l’ultimo segno che gli dimostrò che quella era una giornata di merda.
Guardando fuori per distrarsi, scorse un dottorando, Alfonso Pergreffi, fasciato da un cappotto verde da alpino, inginocchiato davanti a una panchina sulla quale sedeva una dottoressa di filosofia avvolta in un eskimo anni Settanta. Andrea aveva conosciuto la ragazza a un seminario e aveva scambiato due chiacchiere con lei qualche volta. Era carina, con capelli castani e occhi marroni, ma aveva un difetto enorme: le puzzava l’alito e Andrea, da quando se ne era accorto, aveva evitato in ogni modo di parlarle da vicino. Pergreffi, invece, ne era innamorato, e, in ginocchio davanti a lei, teneva la mano della donna nella sua, parlandole viso a viso e sfidando quell’alito cattivo. Andrea non biasimava Alfonso, i gusti sono gusti, certo, però anche la dignità e le caramelle alla menta sono importanti.
Rinfrancato dal proprio umorismo, tornò a spiare l’orologio. Ma presto riprese a sbuffare. Perché Ivana non arrivava! Che avrebbe fatto l’ultimo dell’anno senza donna? I suoi amici dove l’avrebbero portato? Ma come si fa a essere mollato prima delle vacanze? Mando un silenzioso “vaffa” a tutta quella congiunzione astrale che lo lasciava single, e dunque impossibilitato a fare sesso, proprio nei giorni in cui il tempo libero sarebbe aumentato in maniera quasi drammatica e le ore dedicate agli accoppiamenti sarebbero potute essere lunghe.
Intanto il sole declinante del pomeriggio incideva righe di luce smorta contro la vetrina opaca del locale. Del pulviscolo ballava contro la fetta di luce che tagliava il pavimento del bar. Il pulviscolo di Democrito… E se avesse cambiato vita? Ma come? Be’, per cominciare, imponendosi un programma di realismo spinto. Doveva esaminare con maggiore attenzione la realtà, adeguarsi a lei: convincersi, per esempio, che in quell’università a nessuno importava di lui. E ammettere che nemmeno a lui importasse granché degli altri, colleghi o professori. Aveva amici veri tra di loro? Ammirava qualcuno? No, solo Meneghini e qualcun altro. Pochi avevano lo spessore dell’intellettuale, dell’uomo di cultura che influenza il pensiero delle persone e orienta l’opinione pubblica. Buona parte dei docenti più anziani si dedicava a scrivere ogni tanto qualche articolo infarcito di note chilometriche che disorientavano il lettore e avevano il solo scopo di mostrare l’erudizione dell’autore. Lui invece non si sarebbe comportato in quel modo. Ma… Che ne sapeva, lui, di come si sarebbe comportato se fosse diventato ricercatore? Non avrebbe invece fatto come gli altri? Che orrenda presunzione pensare che l’inferno siano sempre gli altri!
Giunto nuovamente al fondo del malumore, cercò di consolarsi pensando: “non è che i pensieri foschi di questo pomeriggio sono figli del fatto che con Ivana le cose vanno male?”. E chi lo sapeva! Allora cambiò tattica. Cercò di confortarsi dicendosi che la storia con Ivana durava da appena cinque mesi. Però, doveva ammetterlo, era rattristato perché aveva creduto, all’inizio, che la ragazza fosse pazza di lui. E aveva pensato di poterla gestire a proprio piacimento. Così la storia era andata avanti per moto inerziale fino a spegnersi, ma solo perché Ivana si era dimostrata più lucida e determinata di lui, filosofo imbelle e passivo. Concluse che far disamorare una ragazza giudiziosa e votata alla fedeltà come Ivana (almeno così gli appariva), fosse proprio un’impresa da stupidi. Solo uno sprovveduto come lui ci sarebbe potuto riuscire!
Poi, finalmente, Ivana arrivò. Indossava una giacca lunga di colore beige foderata di pelliccia sintetica e aveva al collo una sciarpa bianca. Portava i capelli a caschetto, mentre il contorno occhi era messo in rilievo da un tocco di rimmel. Aveva in mano un sacchetto con il logo della Rinascente di piazza Duomo. Andrea pensò: “Si dà alle spese raffinate: è proprio cambiata”. Ivana sembrava in realtà reduce da un funerale di un parente. Andrea si ricordò dei loro incontri amorosi, di quanto fossero stati noiosi, di quanto la ragazza fosse poco calorosa. Be’, se lei l’avesse lasciato, non avrebbe perso nulla in termini erotici. Certo, l’astinenza gli avrebbe fatto male: sperava di rimanere con Ivana finché non avesse trovato un’altra donna più disinibita. E invece quella gli scombinava i piani. Proprio all’inizio delle vacanze! Che str… Alla sua età il cuore si rivelava più libero del cervello, e le passioni ribollivano in lui con vivacità: non riusciva a rinunciare al sesso neppure per brevi periodi proprio negli anni in cui la sua potenza sessuale gli appariva straordinariamente florida.
Nel frattempo, la ragazza si era seduta senza togliersi la giacca. Con voce asciutta, senza guardare Andrea, gli chiese scusa per il ritardo. Sul volto indossava una specie di maschera di desolazione: le labbra erano serrate, il volto terreo. Appariva assente, come se non stesse incontrando il suo ragazzo, bensì un amico. Andrea si chiese come fosse possibile che Ivana fosse tanto indifferente con lui. E lui come aveva potuto desiderala un tempo? “Se almeno potessi ottenere una proroga”, pensò: se fosse riuscito a far continuare la loro storia fino a dopo l’Epifania, avrebbe allontanato il momento della solitudine, della noia e della masturbazione quasi quotidiana. Perciò chiese prudente:
«Come va la tesi Ivana? Ti dà un po’ di preoccupazione?».
Ma non era quella la domanda che avrebbe voluto farle! Che domanda era? Esprimeva la speranza che l’agitazione di Ivana fosse dovuta alla tesi di laurea. Naturalmente non era così: Ivana rispose, infatti, che il lavoro procedeva bene e che Meneghini la stava aiutando. Poi si pentì di quella franchezza, appena scorse Andrea diventare pallido, ma pensò che fosse meglio andare diritta al punto, senza tergiversare. Certo, osservando Andrea tanto abbattuto, Ivana fu assalita dai sensi di colpa, perché da mesi gli nascondeva la sua storia con Lorenzo, il suo professore. Non credeva che Andrea l’amasse tanto, anzi, lo aveva sempre visto distaccato e, per colpa sua, aveva passato tanti giorni in preda alla gelosia e alla tristezza. E invece ora era lui a soffrire. Che strana la vita! Forse in quel momento Andrea si stava pentendo di averla trascurata, ma era tardi, peggio per lui. Magari le avrebbe giurato che sarebbe cambiato e che l’avrebbe amata. E come credergli? Perché lui aveva gettato via quei mesi, perché l’aveva trascurata? E anche se Andrea fosse stato sincero assicurandole che sarebbe cambiato, lei, ormai, non poteva fare nulla, non poteva continuare quel doppio gioco. Era la sua piccola rivincita. Non ne era felice, no, però un po’ orgogliosa lo era, quello sì. Perciò rispose:
«Non c’entra la tesi… Andrea, è strano come le cose sono cambiate tra di noi in poco tempo. Non so perché. La nostra storia non è stata una lunga, ma io ci ho creduto, però adesso non lo so più cosa voglio». Ivana si morse le labbra perché non era stata diretta come avrebbe voluto. Aggiunse subito: «non so cosa voglio, ma forse non voglio nulla… », ma si accorse di non aver fatto altro che aumentare la confusione e allontanarsi dalla verità, se mai ce ne fosse una.
«Capisco», commentò secco Andrea. Arrabbiato senza sapere perché né contro chi, distolse lo sguardo da Ivana. La radio suonava Un romantico a Milano, la canzone dei Baustelle. Finalmente un pezzo musicale bello. Ad Andrea la canzone sembrò scritta per lui, e pensò malinconicamente a Luciano Bianciardi, di cui in quei giorni stava leggendo La vita agra.
Un brivido di freddo lo richiamò alla realtà: un gruppo di persone era entrato nel bar e aveva lasciato aperta la porta. Riconobbe due studentesse del suo seminario e le salutò con particolare enfasi per suscitare la gelosia di Ivana e convincerla che lui ne aveva di alternative, se voleva. Ma la ragazza appariva disinteressata, non più gelosa come un tempo, e Andrea si sentì uno sciocco. Tanto in basso era caduto? Cercare di far ingelosire una donna di cui gli importava poco soltanto per prolungare una storia che gli serviva unicamente per evitare di rimanere solo durante le vacanze? Allora disse sospirando: «Che devo dirti, Ivana, se tu la vedi così, avrai ragione, avrai fatto le tue riflessioni. Io non so che dire perché sono confuso, amareggiato per tante cose, non solo per te. Credo che mi mancherai, comunque. Certo non capisco il motivo. Perché non provare a continuare a stare assieme su basi nuove, per un po’?».  Ecco, aveva giocato il suo misero asso nella manica. Fece una pausa, per capire quale effetto le sue parole avevano prodotto nell’animo di Ivana. La ragazza seguitò a tacere. Sempre più demoralizzato, Andrea soggiunse, cercando di apparire spiritoso: «Uffa, lasciarmi alla vigilia delle vacanze, anche tu…».
Ivana non sorrise né lo guardò. Andrea tacque mesto. Il colpo era andato penosamente a vuoto. Si vergognò di mostrarsi affranto quando era solo seccato perché veniva lasciato da una donna con cui non si sarebbe mai dovuto mettere assieme. E faceva anche la figura dell’innamorato ferito! Così quella si sarebbe illusa di essere amata da lui! Che coglione!
La ragazza, infatti, dedusse che Andrea fosse pazzo di lei. Non lo avrebbe mai creduto. Cadaverica, con gli occhi lucidi, cosciente di essere sul punto di piangere e colpita da un’inattesa malinconia, dichiarò che gli voleva ancora bene e che gli augurava il meglio per i suoi studi, per la sua esistenza, aggiungendo che lei non poteva più stare con lui: doveva concentrarsi sulla tesi, sul suo futuro, e quindi aveva bisogno di stare da sola per un po’ di tempo.
Ma erano balle, e le pesava dover raccontare bugie. Non era avvezza a mentire, né in grado di reggere ancora quella conversazione carica di fraintendimenti. Che fare allora? Andarsene, accampando un’altra scusa per evitare di dover rivelare ad Andrea il motivo per cui intendeva lasciarlo? Oppure sciorinare i fatti, uno a uno, raccontare la verità, cosciente di avere la coscienza limpida? Ma ce l’aveva davvero limpida questa cavolo di coscienza? Non ne era certa. Al culmine della tensione e del dibattito etico interiore, Ivana ricevette un aiuto proprio da Andrea il quale, trattenendo a stento uno sbadiglio biblico, le domandò: «Non è che c’è qualcun altro?».
Sentendo questa domanda, Ivana avvertì il suo cuore partire come una locomotiva. Sentì caldo, si tolse la sciarpa con un movimento rapido. Gocce di sudore le carezzavano la schiena. Un brivido le salì dai fianchi al collo. Adesso sapeva che avrebbe parlato, che avrebbe rivelato quel nome ad Andrea. Ora, kantianamente, non le importava delle conseguenze perché dovere suo era spiattellare la verità. Andrea, improvvisamente agitato per il mutamento di espressione nel volto di Ivana e sul punto d’essere ferito nel suo orgoglio maschile che non contemplava il possesso di corna, la sollecitò: «Dunque, Ivana?».
«Sì, c’è qualcun altro. Il tuo prof… Lorenzo Meneghini…».
Ivana tacque e deglutì a fatica. Si guardò attorno quasi stupita, come se volesse domandarsi chi avesse parlato, tradendola. Però si sentiva anche sollevata. Quella rivelazione planò lieve sul volto di Andrea, appoggiandovisi come una vischiosa ragnatela di incredulità, disperazione, orrore. Il ragazzo vacillò sulla seggiola: un affanno paralizzante cominciò a diffondersi nel suo corpo, mentre la bocca si riempì di una saliva amara e un sentimento composito, un miscuglio di rabbia, indignazione, tristezza, prese forma in lui. Ivana, scorgendo questa reazione nel volto di Andrea, impallidì di nuovo, sgomenta. Era come se si fosse resa conto, solo in quel momento, della gravità della sua rivelazione e si fosse risvegliata da quella specie di ipnosi che l’aveva condotta a rivelare tutto. 
Nel frattempo, Andrea si era alzato tremante dalla sedia, stordito, in preda all’iperventilazione: Ivana si fece piccola piccola, cercò di scomparire e fece per nascondersi sotto il tavolo (continua…)

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...