domenica 27 luglio 2014

Eric J. Hobsbawm - Le origini della prima guerra mondiale

  Il 28 luglio 1914 "scoppiava" la Prima Guerra Mondiale. Volevo riportare le parole del celebre storico inglese per spiegare alcune cause di un evento tragico e decisivo per la storia dell'umanità.



A poco a poco l’Europa si era trovata divisa in due blocchi opposti di grandi potenze. Simili blocchi, al di fuori della guerra, erano di per sé una novità, dovuta essenzialmente alla comparsa sulla scena europea di un impero tedesco unificato, creato a spese altrui fra il 1864 e il 1871 con la diplomazia e con la guerra, e mirante a proteggersi contro la Francia, principale perdente, con alleanze in tempo di pace, generatrici di alleanze contrapposte. Le alleanze, per sé, pur implicando la possibilità di guerra, non la rendono certa e nemmeno probabile [...].
Un sistema di blocchi di potenze diventava un pericolo per la pace solo quando le contrapposte alleanze diventavano permanenti; ma soprattutto quando i contrasti fra loro diventavano insolubili. Ciò è quanto avvenne nel nuovo secolo. La domanda cruciale è: perché? [...]. Avvenne perché i giocatori e le regole del gioco diplomatico internazionale erano cambiati. In primo luogo, il tavoliere di gioco era diventato molto più grande. Le rivalità, un tempo limitate in gran parte (a eccezione dell’Inghilterra) all’Europa e aree adiacenti, erano adesso globali e imperiali [...]. In secondo luogo, con l’avvento di un’economia capitalistica industriale mondiale, la partita internazionale si giocava per poste molto diverse. Ciò non significa che, per parafrasare il detto famoso di Clausewitz, la guerra era diventata solo la continuazione della concorrenza economica con altri mezzi. Era questa un’idea che attirava i deterministi storici del tempo, se non altro perché essi vedevano abbondanti esempi di espansione economica per mezzo di mitragliatrici e cannoniere; ma era un’idea grossolanamente semplicistica. Se lo sviluppo capitalistico e l’imperialismo hanno le loro responsabilità per l’incontrollato slittamento nel conflitto mondiale, è impossibile sostenere che molti capitalisti fossero deliberatamente guerrafondai. Qualsiasi studio imparziale dei giornali economici, della corrispondenza privata e commerciale degli uomini d’affari, delle loro dichiarazioni pubbliche in quanto esponenti della banca, del commercio e dell’industria, dimostra esaurientemente che la maggioranza degli uomini d’affari ritenevano vantaggiosa per loro la pace internazionale. La guerra era accettabile solo in quanto non interferiva con il normale svolgimento degli affari; e la principale obbiezione contro la guerra del giovane economista Keynes (non ancora radicale riformatore della sua materia) era non solo che la guerra uccideva i suoi amici, ma che essa rendeva impossibile una politica economica basata appunto su quel normale svolgimento. […]
Perché infatti i capitalisti - e anche gli industriali, con la possibile eccezione dei fabbricanti d’armi - avrebbero dovuto desiderare di turbare la pace internazionale, condizione essenziale della loro prosperità e espansione, dato che da essa dipendeva l’andamento delle libere operazioni internazionali commerciali e finanziarie? Evidentemente chi traeva profitto dalla concorrenza internazionale non aveva motivo di lagnanza. [...]. Chi ci rimetteva, tendeva naturalmente a chiedere protezione economica ai governi; ma ciò è tutt’altra cosa che chiedere guerra. [...]. Eppure lo sviluppo del capitalismo spingeva inevitabilmente il mondo nella direzione delle rivalità statali, dell’espansione imperialistica, del conflitto e della guerra.
Il mondo economico non era più, come a metà Ottocento, un sistema solare ruotante intorno a un’unica stella, la Gran Bretagna. Se le operazioni finanziarie e commerciali del globo passavano ancora e anzi in misura crescente per Londra, l’Inghilterra non era più l’«officina del mondo», e neanche il suo massimo mercato d’importazione. Il suo relativo declino era evidente. Adesso c’erano, e si affrontavano, una serie di economie industriali nazionali concorrenti. In queste circostanze la competizione economica si intrecciava inestricabilmente con l’azione politica e anche militare degli Stati. La rinascita del protezionismo durante la Grande Depressione fu la prima conseguenza di questo intreccio. Per il capitale, il sostegno politico poteva d’ora in avanti essere indispensabile sia per tener fuori la concorrenza estera, sia in parti del mondo in cui le imprese delle varie economie industriali nazionali concorrevano l’una con l’altra. Per gli Stati, l’economia era ormai al tempo stesso la base della potenza internazionale, e il criterio della medesima. Era impossibile ormai concepire una «grande potenza» che non fosse anche una «grande economia»; trasformazione illustrata dall’ascesa degli Stati Uniti e dal relativo indebolimento dell’impero zarista […].
Ciò che rendeva tanto pericolosa questa identificazione di potenza economica e politico- militare non erano soltanto le rivalità nazionali per la conquista di mercati mondiali e di risorse materiali, e per il controllo di regioni quali il Vicino e Medio Oriente, dove gli interessi economici e strategici spesso combaciavano. […] La novità della situazione era che, data la fusione di economia e politica, neanche la pacifica divisione di regioni contese in «zone di influenza» riusciva a imbrigliare le rivalità internazionali. La chiave della controllabilità, come ben sapeva Bismarck, che la gestì con maestria impareggiabile fra il 1871 e il 1889, era la deliberata limitazione degli obbiettivi. Finché gli Stati erano in grado di definire con esattezza i loro obbiettivi diplomatici - un determinato spostamento di confini, un matrimonio dinastico, un indennizzo precisabile per i vantaggi ottenuti da altri Stati - calcoli e accomodamenti erano possibili. Né gli uni né gli altri, naturalmente - come Bismarck stesso aveva dimostrato fra il 1862 e il 1871 - escludevano un conflitto militare controllabile […].
In breve, crisi internazionali e crisi interne si fusero negli ultimi anni prima del 1914. La Russia, di nuovo minacciata dalla rivoluzione sociale; l’Austria, minacciata dalla disgregazione di un impero multiplo non più politicamente controllabile; anche la Germania, polarizzata e forse minacciata di immobilismo dalle sue divisioni politiche: tutti diedero la parola ai militari e alle loro soluzioni. Anche la Francia, unita dalla riluttanza a pagare tasse e quindi a trovare i soldi per un riarmo massiccio (era più facile prolungare di nuovo la ferma militare a tre anni), elesse nel 1913 un presidente che invocava la vendetta contro la Germania e assumeva atteggiamenti bellicosi, facendo eco ai generali che adesso, con micidiale ottimismo, abbandonavano una strategia difensiva per la prospettiva di una travolgente offensiva attraverso il Reno. Gli inglesi preferivano ai soldati le corazzate: la marina era sempre stata popolare, gloria nazionale accettabile ai liberali in quanto protettrice del commercio. Le azioni intimidatorie navali avevano un loro sex-appeal politico, a differenza delle riforme dell’esercito. Pochi, anche fra i politici, capirono che i piani per una guerra a fianco della Francia implicavano un esercito di massa e prima o poi la coscrizione; l’unica cosa prevista era una guerra essenzialmente navale e commerciale. Pure, anche se il governo britannico rimase pacifista fino all’ultimo - o meglio, rifiutò di prendere posizione per timore di spaccare il gabinetto liberale - esso non poteva contemplare l’ipotesi di rimanere fuori dalla guerra. Fortunatamente, l’invasione tedesca del Belgio, da tempo programmata in base al piano Schlieffen fornì a Londra una copertura morale per le necessità diplomatiche e militari. 

da: E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 356-370.

mercoledì 9 luglio 2014

Massimiliano Maestrello. "Queste stanze vuote", Edizioni La Gru 2014



Raccontare l’età cruciale tra l’adolescenza e la maturità è impresa ardua. Soprattutto in un’epoca come quella attuale nella quale i confini tra le età sfumano, e la classica distinzione tra le diverse fasi dell’esistenza è messa in discussione. Sia da situazioni oggettive che impediscono la “crescita”, sia, talvolta, da una sorta di pigrizia mentale che rende insopportabile l’abbandono di fanciullezza e adolescenza. I ragazzi protagonisti del libro di Massimiliano Maestrello, Queste stanze vuote (Edizioni La Gru 2014), hanno quantomeno il merito di provare, spesso senza accorgersene, a varcare la soglia tra la fanciullezza e un’età indefinita, più o meno adulta. È questo credo il tema dominante di una raccolta di racconti che si snoda felicemente affrontando il tema della problematica, oscura, spesso drammatica, “maturazione” di giovani ragazzi.
Il libro si legge molto bene e si è colti sovente dal desiderio di sapere “come vanno a finire” le singole vicende; in particolare dalla Terza stanza in poi il pathos narrativo prende piede e la sensibilità dell’autore si manifesta pienamente. Le “stanze” sono quasi tutte narrate in prima persona da un protagonista che peraltro non sempre è il personaggio fondamentale anche perché si tratta di racconti corali, dove non agisce un attore unico. Scorrendo le pagine, spesso è facile immedesimarsi nei fatti che capitano ai personaggi, oppure condividere la rabbia per i vacui pomeriggi passati nella provincia italiana, l’imbarazzo dovuto al non riuscire a capire qualcosa che è fondamentale e farà crescere, il brivido di noia che conduce a fare cose ignobili, come succede ai protagonisti dell’ultima stanza.
Un altro aspetto qualificante del libro mi sembra il finale aperto che caratterizza le diverse stanze: sebbene in ognuna di esse avvenga una sorta di metamorfosi che costringe i personaggi a cambiare o a interrogarsi su di sé, il finale non è mai conclusivo; il lettore, infatti, avverte che quando la narrazione termina il personaggio vorrebbe forse dire ancora qualcosa. Ma ormai la metamorfosi è compiuta e non è possibile tornare indietro, giacché il processo è irreversibile e la nuova età bussa alla porta, spesso in forme sconsolate, come quelle del ragazzino infelice e solo della Prima stanza che cede al brivido di provare l’eroina con indolenza, passivamente rassegnato a un’esistenza di sofferenza e di oscurità.
Forse non è esatto affermare che i protagonisti di queste storie “crescano”. Sarebbe riduttivo. In realtà essi vanno incontro a una specie di salto verso la vita: tale mutamento non possiede di per sé un valore positivo, anzi, non possiede nessun valore etico; l’autore, a volte, sembra osservare i fatti con distacco, riferendo quel che è accaduto senza (per fortuna) voler indicare esempi positivi e negativi. Però non è facile rimanere distaccati: la Quarta stanza narra il ritorno al paese natio di un ragazzo vissuto all’estero e che si rende conto che la sua vera casa è in quel paese sperduto di pianura. Quando egli si domanda qual è il posto che gli appartiene veramente, gli viene in mente una casetta sull’albero che il padre gli aveva costruito quando era piccolo. Allora decide di vedere se la casetta è ancora al suo posto: appena la rivede, il tempo, per un attimo, sembra arrestarsi; il racconto ha dei tratti struggenti e, inoltre, svela un’altra caratteristica frequente del libro di Massimiliano, ossia il fatto che il superamento della soglia tra le età è inconsapevole e indotto dagli eventi. Un po’ come accade alla protagonista della Sesta stanza, una ragazza (notevole la capacità dell’autore di narrare i fatti da una prospettiva femminile) che, dopo aver scoperto che suo padre tradisce sua madre (e avendo constatato l’incapacità della madre di reagire), diventa donna grazie al ragazzo che le piace, ma si rende conto questa nuova maturità è deludente e dolorosa, quasi disperata.
Nessuno di questi ragazzi, dunque, sa bene cosa sia quel a cui va incontro. Ciò che muta le loro esistenze è spesso un fatto di poco conto, almeno in apparenza; il “salto” che essi compiono, come succede al narratore della storia della Settima stanza, è alla cieca: “Avevamo superato anche quella, e in un attimo ci eravamo ritrovati nel buio”. Appunto, in un “attimo” che precipita nel buio, nell’ignoto, l’esistenza cambia carattere; quel che prima di quel singolo “attimo” appariva in un certo modo, dopo di esso appare diversamente. Il ragazzino che scopre il sesso nella Terza stanza, durante i Mondiali di calcio del 1990, ci mette un secondo a scoprire che suo padre e la sua amica non sono solo “amici”, ma qualcosa d’altro. Mirco, il ragazzo omosessuale della Quinta stanza (episodio narrato in terza persona), che torna a casa con il proprio compagno, sa che suo padre non ha mai accettato quella sua vita; e, anche da adulto, è consapevole del fatto che non c’è possibilità di riconciliazione: l’ultimo incontro con il padre è drammatico, il muro tra di loro è ancora più alto; nonostante siano passati anni, il padre dice al figlio: “Non sei cambiato”, facendogli capire in un attimo fulmineo che non c’è più nulla che li lega, che la “scelta” del figlio ha prodotto una ferita che non può guarire e che l’età adulta per Mirco coinciderà, forse, con una sconsolata solitudine, o almeno con la lontananza dalla sua famiglia d’origine. Infine, la ragazza che scopre il “tradimento” del padre alla madre vive quell’attimo come qualcosa che cambierà per sempre la sua vita; e il fatto che i suoi genitori sembrino riconciliarsi la rende rabbiosa, facendola illusoriamente sentire adulta e matura: “Avevo finito per detestarli, tutti e due […] Non erano più i miei genitori, quelli, e ogni volta che li guardavo finivo per provare una strana paura: la paura che, se avessi indagato, se avessi fatto domande, se avessi scavato più a fondo nelle loro vite, avrei trovato qualcosa di ancora più doloroso. Era come se nascondessero consapevolmente – prima di tutto a loro stessi – il germe dell’infelicità che li aveva infettati” (p. 176).
Ma non intendo rivelare le trame dei racconti. Vorrei solo aggiungere che l’autore non si pone da una prospettiva né storica, né esistenziale, né sociologica. I fatti narrati non sono eccezionali, ma appartengono (o sono appartenuti) al vissuto di migliaia di giovani, di ieri e di oggi, in città e in provincia. Inoltre, l’autore non è mai retorico, né si atteggia a moralista e non è nemmeno intenzionato a scrivere fasi memorabili, lasciando sulla pagine un’impronta roboante e indelebile. La scrittura, al contrario, è asciutta, pulita: anche quando narra vicende “scabrose” non perde mai la bussola, non è ipocritamente reticente né cade nella retorica “pulp”, mischiando sesso e sangue con voluttà. È misurato, consapevole di sé, cosciente del fatto che la vita non è un film e che, nella vita, i momenti fondamentali non si presentano quasi mai come tali allorché accadono, ma lo divengono ex post, quando li si osserva dopo qualche anno e magari verso di essi si avverte, belli o brutti che siano stati, una puntina di malinconia.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...