martedì 29 aprile 2014

LUCA VAGLIO, "MILANO DALLE FINESTRE DEI BAR"


Domenica al Parco Lambro
Libri e una bottiglia di Moretti
Al baretto dove si sfidano a carte
E a scacchi all’ombra dei platani

Milano è così bella e ruvida qui
Mi siedo a un tavolino
Guardo le persone attorno
Scherzano, giocano
prendono da mangiare

mi ascolto respirare
la condizione di essere solo
insieme a me stesso
diventa pensiero
mi fa stare bene

ma sono contento quando squilla il telefono

è un amico che avevo cercato ieri
parliamo di Juve, del calciomercato di giugno

torno a sbirciare la gente
raccolgo frammenti di frasi
leggo e bevo birra

sono quasi felice
ma non sono sicuro
se questa liberazione dagli altri
questa vita mercuriale
è tutto quello che devo fare.

*************

Abito in una nicchia possibile
un angolo, un canto vuoto
a vita rallentata
che gli uomini vedono
e passano nel tempo libero
dove sonno e cibo
sono accidenti variabili
e le cose del mondo
mancano, galleggiando più in là
fuori dal raggio delle mie braccia.

Colico, 4 marzo

Bianco di nebbia
sul lago e l’ombra
lunga del Berlinghera

freddo che sfiora
arriva leggero
senza fare male

scatto due foto
luce di piombo
tra acqua e cielo

vedo la mia assenza
muoio a me stesso
sono differenza.

Ho voluto riportare alcuni versi contenuti nella bella plaquette di Luca Vaglio, Milano dalle finestre dei bar, pubblicata per i tipi Marco Saya Editore. Bellissima la copertina del volumetto, nella quale è ritratto il bar Jamaica, zona Brera, ritrovo di artisti e intellettuali negli anni ’50, in una foto scattata dal celebre Ugo Mulas. È un libro elegante, anche nella forma della stampa, e rivela un grande amore per Milano, una città difficile, spesso “respingente”, eppure, a suo modo, ricca di fascino. E quale forma d’arte migliore della poesia poteva essere utilizzata dall’autore per nobilitare ambienti, impressioni, scorci di questa grande città, “irreale” per citare T.S. Eliot, eppure colma di piccole storie?
L’autore filtra questo ambiente attraverso la propria sensibilità: anche nelle poesie più intimiste, infatti, è evidente come il rapporto con la città sia stretto, intenso. E gli angoli della sua anima, del suo intimo, corrispondono agli angoli della città stessa, ritratta nei suoi momenti dimessi, nei suoi luoghi all’apparenza meno tipici, ossia quei bar dove si può oziare e abbandonarsi alle riflessioni, in contraddizione con lo spirito lavorativo, pragmatico e frettoloso che caratterizza Milano e la milanesità. Forse, grazie a Luca Vaglio, Milano appare in questi versi meglio di quel che è. Oppure, diciamo che città e autore si sono ispirati a vicenda.
Si potrebbero citare nobilissimi padri della poesia sulla milanesità: per limitarci al ‘900, Pagliarani, Giudici, Balestrini, Sereni, Raboni. Di certo essi sono presenti nei versi di Luca Vaglio; ma è evidente anche come ci sia un tocco autonomo, di un autore esperto che mette a nudo le proprie incertezze e che nel caos e nella vorticosità della vita cittadina trova paradossalmente un appiglio, surrettizio, per stare in piedi e andare avanti.

sabato 5 aprile 2014

Chi ha paura di Virginia Woolf?




Il film di Mike Nichols Chi ha paura di Virginia Woolf? (Who’s Afraid of Virginia Woolf?, tratto dall’omonima opera teatrale di Edward Albee del 1962), non riguarda la grande scrittrice inglese suicidatasi nel 1941. Il titolo riecheggia una canzoncina degli anni ’30 Who’s Afraid of the Big Bad Wolf? ed è basato sull’assonanza tra il cognome della scrittrice e il termine “wolf”. È una pellicola che ha conquistato cinque premi Oscar nel 1967: miglior attrice protagonista a Elizabeth Taylor, miglior attrice non protagonista a Sandy Dennis, migliore fotografia, migliore scenografia, migliori costumi, ottenendo la nomination come miglior film e miglior regia.
Il film, uscito nel 1966, racconta la notte trascorsa da due coppie: la prima, più anziana, formata da George (Richard Burton) e Martha (Elizabeth Taylor), l’altra da Nick (Robert Seagal) e Honey (Sandy Dannys). La prima è la coppia protagonista, quella che condurrà il gioco, arrivando progressivamente ad avvolgere nelle proprie spire l’altra, minandone sicurezza e compostezza.
Il film trasmette sensazioni alternate, contrastanti, difficili da elaborare: inquietudine, sbalordimento, a volte allegria, ma solo per brevi attimi. È un film in bilico tra disperazione e amara ironica, nel quale sovente il confine tra l’invenzione drammatica e la realtà vera vissuta dai personaggi sembra scomparire. I protagonisti appaiono doppiamente attori, capaci di mettere in scena una sorta di film nel film, inventando fatti che disorientano lo spettatore, a volte incapace di distinguere la storia raccontata nel film dal regista dalle storie ideate dai personaggi. È un film che rispetta l’unità di tempo aristotelica (si svolge tutto dalla notte all’alba, senza salti temporali) e in parte anche l’unità di luogo, perché si svolge nella casa della coppia anziana, a parte alcune sequenze girate in un bar e nel suo parcheggio.
George e Martha (lui è professore di storia nell’università il cui preside è il suocero) sono una coppia annoiata, indolente, che alterna battibecchi corredati da battute taglienti e salaci, a gesti d’affetto. Nelle prime scene, al rientro da una serata a casa del padre di Martha, entrambi appaiono brilli e pronti e prendersi a colpi di fioretto e a baciarsi, tanto che George afferma di non avvicinarsi alla moglie perché avrebbe voglia di prenderla con la forza e non sarebbe una cosa opportuna, giacché attendono ospiti. E qui c’è il primo elemento di rottura: Martha annuncia infatti la visita di un’altra coppia, suscitando il nervosismo del marito.
La seconda coppia è l’opposto della prima: sono giovani, ordinati, timidi e assistono con imbarazzata serietà alle stilettate che si scambiano George e Martha. Ben presto, però, la coppia anziana coinvolge nel proprio sadico gioco quella giovane. George tratta con sufficienza e sarcasmo Nick, giovane professore di biologia, ponendogli domane provocatorie sulla sua vita, cercando di fargli perdere quell’espressione da bravo ragazzo e ottenendo da Nick la confessione del motivo per cui ha sposato Honey: lo ha fatto per compassione, perché la donna era incinta, ma a causa di una gravidanza isterica; di contro, Martha, che accompagna in bagno Honey, introduce uno degli elementi che più farà discutere nel film: la storia del loro bambino, chiamato da Gerorge e Martha “il piccolo bastardo”. Questa storia, che non si capisce se riguardi un figlio morto oppure, come dicono i due, un ragazzo di sedici anni che è al college, intacca la tranquillità della coppia giovane che, anche grazie a massicce dosi di alcol (liquori e whisky saranno una costante nel film), perde gradualmente l’aura innocente che possedeva all’inizio. Honey diventa presto ubriaca: oltre a pronunciare frasi sconnesse, sta molto male, vomitando più volte. Il marito di lei, solleticato dagli apprezzamenti che Martha gli rivolge giudicandolo un fusto, un uomo atletico, perde pian piano il proprio contegno, il proprio ruolo di maritino innamorato della giovane e fragile moglie. 
Poco dopo, in un bar deserto dove l’alcol scorre a fiumi, la degradazione delle due coppie giunge al climax. Martha, provocante nelle sue forme generose, balla con Nick, simulando verso di lui una grande eccitazione sessuale. George assiste quasi indolente, finché Martha non comincia a raccontare che il marito aveva concepito un romanzo nel quale narrava la “storia di un ragazzo turbolento”, che aveva ucciso il padre e la madre, asserendo poi che erano morti di freddo. Martha conclude dicendo che suo padre, il preside, letto quel sudiciume, aveva sconsigliato a George di pubblicarlo, minacciandolo, se lo avesse fatto, di farlo rimanere con “il sedere per terra”. Il tutto è narrato da Martha con un tono sprezzante, mentre Nick, che continua a ballare con lei svolge un ruolo da comprimario, all’ombra della donna dalla quale è attratto. La povera Honey, del tutto fuori di sé, urla solo “violenza, violenza”.
Anche in questa occasione non si capisce se quell’abbozzo di romanzo sia esistito davvero, né se racconti una storia reale e nemmeno se la storia sia quella della vita di George. Sembrerebbe sia così, vista la reazione rabbiosa di quest’ultimo: ma poco prima George, parlando da solo a solo con Nick, aveva raccontato quella stessa storia addebitandola a un suo amico di gioventù. Dove sta allora la realtà vera del film e dove quella inventata, il film nel film?
Per George, a ogni modo, la misura è colma: chiede più volte alla moglie di smetterla finché, esasperato, la afferra per il collo, fin quasi a strozzarla. Ma la zuffa dura un attimo: ora è George che, sadicamente, propone un nuovo gioco (mentre la moglie lo guarda con odio), raccontando la storia di un professorino gentile che vive in una città americana di provincia e che ha sposato una biondina insignificante solo perché questa era in preda a una gravidanza isterica e perché “piena di grana”. Solo adesso Honey, che capisce che George sta spiattellando le confidenze di Nick, ha un sussulto di lacrime sentendosi tradita. Poi la coppia giovane abbandona il locale, come se cercasse di affrancarsi da quella coppia anziana così pericolosa.
George e Martha hanno un duro chiarimento nel parcheggio del bar: la loro rottura appare definitiva, anche perché sotto l’astio che Martha cova verso il marito, serpeggia una grande delusione, quella di stare con un uomo passivo, abulico, senza ambizioni. Come lei forse? D’altra parte, oltre agli insulti, all’odio che traspare dal volto espressivo di una superba Liz Taylor, le parole non lasciano scampo. La moglie dice che nella vita si può sopportare quasi tutto, che si può trovare quasi sempre una giustificazione per resistere anche nelle situazioni più difficili, ma che, a un certo punto, all’improvviso, quell’equilibrio basato su scuse e giustificazioni crolla senza rimedio. È quel succede a loro quella sera. La condanna verso il marito è senza appello, tanto che Martha gli dice: “Non ci si può riavvicinare al niente e tu sei il niente. Stasera ti guardavo ed era come se tu non esistessi”. Egli non è un uomo, poiché manca di spina dorsale. Il marito, giudicandola una donna viziata, ubriacona e sporcacciona, le consiglia di smetterla perché l’attaccherà con le stesse armi che userà lei. Martha se ne va, dopo che i due hanno appena dichiarato che tra loro sarà “guerra totale”.
Più tardi tutti tornano, in ordine sparso, alla casa di George e Martha, al grembo di ogni disperazione, quella che Martha all’inizio del film definisce una “topaia”. E torna la solita atmosfera sospesa tra ironia e angoscia: dalle immagini si capisce che Martha e Nick sono a letto; ma la cosa non sembra turbare George, che ride come fosse fuori di sé, mentre Honey è in deliquio, distrutta dall’alcol. A un certo punto, dimenandosi a terra, Honey confessa di non vuole avere figli perché è terrorizzata dal dolore che si prova durante il parto. George, allora, le racconta di come egli dovette comunicare alla moglie la morte del loro bambino. Egli rievoca la scena del telegramma con la ferale notizia, e del modo con cui lo lesse alla moglie. Forse è per questo che lui aveva chiesto con insistenza a Martha di non tirare fuori la storia del bambino. Per non rievocare un dramma tanto doloroso.
Nel frattempo Martha e Nick non fanno l’amore, perché l’uomo, vinto dall’alcol, fa cilecca. Per Martha è l’ennesima delusione con un uomo, è la dimostrazione definitiva di quanto gli uomini valgano poco: “tutti pappine [gli uomini], io sono la Madre Terra”. Questo incidente produce un nuovo rovesciamento di sentimenti: Martha infatti ora cerca il marito, che è in giardino, affermando, con malinconia, che lui è stato l’unico uomo che ha amato e che l’ha soddisfatta sessualmente.
Infine c’è l’epilogo del film, durante il quale la coppia anziana domina la scena, cercando di addossare sulla coppia giovane una parte del peso, sempre meno sopportabile, delle proprie angosce, della propria tristezza, del proprio fallimento. George e Martha, fornendo prova di grande capacità drammaturgica, rievocano la scena della notizia della morte del figlio. George fa finta di rileggere il telegramma che recò loro la triste notizia; Martha si dispera, si strappa i capelli, piange come solo una madre può fare. È una scena tremenda, dalle tinte forti; la coppia giovane vi assiste inerme, sebbene Honey, benché ubriaca, abbia un sussulto, asserendo che ora vuole un figlio. Poi tutto sembra calmarsi, dalle finestre l’alba bussa ai vetri si capisce che la storia del figlio morto George e Martha se la sono inventata.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...