mercoledì 22 luglio 2015

Marcelo Figueras, KAMCHATKA, l’Asino d’oro Edizioni, Roma 2015

Chi ha giocato a Risiko la conosce. Gli altri quasi certamente no, anche se sono esperti di geografia: “Kamchatka”. È una penisola dell’Estremo Oriente russo, un luogo remoto. Ma è anche una regione del gioco del Risiko, un territorio da conquistare o da difendere, a seconda dello svolgimento del gioco. Per Harry (è un nome di fantasia), il piccolo protagonista del romanzo di Marcelo Figueras si tratta, soprattutto, dell’ultima parola che gli disse suo padre prima di scomparire, prima di diventare un desaparecido. Questo saluto non viene descritto nel libro come un momento solenne né retorico, anche perché nessuno sa che sarà l’ultimo; certo, tutti temono che possa esserlo, quantomeno gli adulti.
È l’ottobre 1976: da sette mesi l’Argentina è in mano alla feroce dittatura militare del generale Jorge Rafael Videla (1925-2013) e il papà di Harry, un avvocato di sinistra, da mesi è ricercato e vive in clandestinità con la famiglia. La fuga però è agli sgoccioli, la polizia ha individuato il loro nascondiglio. Allora papà e mamma decidono di affidare i figli al nonno paterno. Ma il bambino queste cose le intuisce appena: “In quel momento ho dieci anni. Sono un ragazzino dall’aspetto normale, a eccezione, forse, dei capelli ribelli che tendono a starmi dritti sulla testa come tanti punti esclamativi”.
Il papà saluta il figlio con trasporto, l’affida al nonno per proteggerlo sperando di poterlo rivedere. Non accadrà. Il momento dell’addio è dolce, struggente per chi sa come andrà a finire la vicenda, ma nel ricordo letterario si tinge di un colore tenue, in fondo privo di dramma: “Papà era andato alla macchina a prendere il Risiko, me lo porta, me lo mette in mano con un sorriso … Poi mi bacia e mi dice ti voglio tanto bene, di nuovo con un tono un po’ da Narciso, papà si irrigidisce sempre quando deve dire qualcosa di importante. Quindi mi graffia con la barba che non si rade da giorni e mi parla all’orecchio, mi dice varie cose ma quella che ricordo è Kamchatka, perché Kamchatka è l’ultima parola che ha detto ma anche perché Kamchatka riassume tutto, le ultime parole sono importanti” (pp. 361-362).
Figueras scrive una storia molto bella perché parla di una tragedia nazionale con gli occhi di un bambino; e si capisce bene che l’adozione di questa prospettiva non è un espediente retorico, bensì nasce dalla sua volontà di tornare a ragionare proprio come un bambino di dieci anni, benché scriva da adulto e abbia avuto il tempo di elaborare i ricordi nefasti, dando loro un’interpretazione razionale, politica, storica. Tuttavia l’evento è stato così traumatico da aver in qualche modo fermato il tempo a quell’assolato giorno di ottobre del 1976 quando, in una stazione di servizio, il bimbo saluta il suo papà per sempre. D’altra parte, sebbene il bambino abbia dieci anni e non sappia quasi nulla della dittatura militare, intuisce ugualmente qualcosa, capta delle frasi nei discorsi sussurrati degli adulti. I bambini spesso conoscono il dolore ma non sanno dargli forma verbale.
Forse adottare il punto di vista, in apparenza ingenuo, di un bambino, è servito per dare senso a una realtà sconvolgente, incomprensibile per la ragione; l’immaginazione del fanciullo diviene al tempo stesso una maschera protettiva e un modo per guardare in faccia il male. Essa è una maschera protettiva poiché, almeno in apparenza, salva dal dolore, rinviandone all’età matura l’esplosione. E si tratterà di un’esplosione contenuta perché il tempo trascorso stempera in parte anche i dolori più atroci, è inevitabile. Tuttavia l’immaginazione diventa anche l’unico modo per guardare negli occhi questa tragedia a posteriori, e poterne parlare senza soffocare per la rabbia e la sofferenza. “Narrare la storia della clandestinità … ci permetteva di staccarci dal racconto dell’orrore, perché il bambino subiva una perdita, sì … ma al tempo stesso aveva l’occasione di vivere un’avventura. Con la benedizione dei genitori, cambiava nome e storia ed esplorava il vasto mondo sconosciuto”.
Per questo anni dopo, rievocando gli avvenimenti, l’autore si accorge che adottare un punto di vista “infantile” è l’unica maniera per evitare di cadere nella retorica parlando dei desaparecidos. Anche perché in Argentina la ferita è ancora aperta (il romanzo esce nel 2003, ma nasce e si sviluppa a partire da una precedente sceneggiatura per un film di successo), e si tratta di un argomento, come dire, scottante. Gli occhi di un bambino, ferito e reso orfano così presto, sono un atto d’accusa chiaro e potente, per certi aspetti ben più incisivo di un’invettiva o di un’indagine sui crimini compiuti dagli sgherri di Videla: nel libro, infatti, non ci sono mai parole dirette contro il regime, né si narra la storia di esso, e neppure ci sono barlumi di analisi politica. Queste cose non ci sono perché non appartengono alla vita di un bambino che, anche nei momento in cui è in fuga assieme ai genitori e al fratellino, pensa ai suoi soldatini, alle avventure di Superman, alle imprese di Houdini, alla sua serie televisiva preferita che dovrà abbandonare nella casa da cui stanno scappando.
In questo modo la drammaticità dell’evento è parzialmente stemperata, mentre la narrazione diviene leggera, ironica, a tratti divertente, benché rimanga un fondo di amarezza e di commozione che le parole allegre, l’ironia, ovviamente, non possono né devono cancellare. Ma scrivere questa storia significa non spegnere la luce, dare continuità alle vite, illudersi che la morte non le interrompa.
L’autore rilancia la fiducia nella capacità umana di raccontare storie, anche quelle terribili; e il lettore gli è grato, perché la pesantezza della situazione vissuta dalla famiglia in fuga raramente intacca la scorrevolezza della narrazione. Agli occhi di un bambino, poi, questa fuga si colora dei tratti dell’avventura: l’improvviso abbandono della scuola, la fuga dalla casa di Buenos Aires, il nascondiglio in una casa fuori città, la nuova scuola, l’amicizia con il giovane uomo Lucas (anch’egli in fuga e anch’egli futuro desaparecido), la clandestinità, l’assunzione di una nuova e falsa identità. Sono tutti avvenimenti che il bambino affronta con la sua mentalità testarda, ingenua, fantasiosa, aiutato anche dalla leggerezza del fratello, il “Nano”, un bimbo di cinque anni. Per esempio, la preoccupazione principale del protagonista, quando la mamma li porta verso il nascondiglio, è quella di non poter rivedere i compagni di classe, di aver abbandonato i proprio giochi, i libri, il Risiko, il barattolo di Nesquik. Ma gli avvenimenti che vivrà lo fanno anche crescere: perché nei momenti drammatici, benché i genitori cerchino in ogni modo di apparire tranquilli, egli osserverà la paura nei loro occhi e, da bambino, intuisce che c’è pericolo, ma non sa elaborare razionalmente questa intuizione. Forse è un bene: perché per lui non è giunto ancora, per fortuna, il tempo di rendersi conto della tragedia che la sua famiglia sta vivendo. Questo tempo verrà quando sarà adulto.
All’epilogo, l’ultimo capitolo, il cerchio si chiude. Il momento del saluto definitivo al papà apre e termina il libro. La frase che contiene la parola “Kamchatka” non è pronunciata casualmente: qualche sera prima di quell’addio, Harry è riuscito finalmente a battere il papà giocando a Risiko. Non era mai successo prima. E mai succederò dopo. Quella parola, quel riferimento a un gioco, inserita in un saluto di commiato che il padre teme possa essere definitivo, è un segno d’amore, perché è l’estremo tentativo di tenere fuori il bambino da quella tragedia, proteggendolo, temporaneamente, da un dolore immenso, che egli proverà soprattutto negli anni successivi, quando comprenderà, quando gli racconteranno la storia dal punto di vista dei suoi genitori. La mamma e il papà di Harry hanno cercato di proteggere i figli, di rendere la loro vita accettabile anche nei mesi della clandestinità.  Ormai, però, è giunto l’epilogo.
Il libro di Figueras non è un romanzo storico, né un’autobiografia. Racconta una storia verosimile, traccia il quadro di una tragedia nazionale dal punto di vista particolare di un bambino reso orfano senza colpa. Un regime dittatoriale uccide i suoi oppositori, ma così facendo non crea solo delle vittime in carne e ossa. Perché per ogni oppositore assassinato, fatto sparire, ci sono altre persone che, pur non eliminate fisicamente, verranno in qualche modo menomate, derubate di una parte di sé: sono i figli, le mogli, i mariti, i familiari della persona uccisa. Al numero delle vittime andrebbe dunque aggiunto quello delle persone distrutte interiormente, perché private di una persona cara e amata.
Eppure, nonostante tutto, per Figueras raccontare è una salvezza, perché significa trasmettere qualcosa a qualcun altro, che vive in un tempo e in un luogo diversi, ma che può intercettare una storia, raccontarla a sua volta, rilanciarla, diffonderla: “Io credo che le storie non finiscano, perché anche quando la vita esaurisce la propria energia dà vita ad altre vite. Un corpo morto (pensate agli embrioni) non fa che moltiplicare la vita che vive sottoterra, perché dia frutti sulla terra e nutra i tanti che, a loro volta, morendo daranno vita. Finché ci sarà vita in questo universo, nessuna storia finirà del tutto: si trasformerà. Quando moriamo, il racconto della nostra vita si limita a cambiare di genere: non più un poliziesco, una commedia, una storia epica, ma un libro di geografia, di biologia, di storia”.

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