sabato 4 febbraio 2017

ALLA RICERCA DI UNA LUCE (RACCONTO) DI G. BARRECA


Andrea si sollevò dal cuscino mettendosi a sedere, esausto. Sarebbe riuscito a fare lezione? Il sole era già alto: la sua luce s’insinuava attraverso i buchi della tapparella ancora abbassata, punteggiando di giallo la parete a fianco del letto sfatto. Andrea avvertiva lontano il mormorio del traffico mattutino. Un sapore amaro in bocca. Aveva dormito da solo. Lei se ne era andata da un mese ormai. A fianco a lui, quali simboli di un’estrema solitudine, i segni del solo piacere sessuale a lui possibile in quel momento. Un “piacere” solitario, doloroso, un piacere da sconfitto.
Si scosse. Non poteva continuare in quel modo. I suoi studenti lo attendevano. Gremivano ancora la sua aula, nonostante i suoi silenzi sempre più prolungati, le sue pause colme di malinconia. L’aula ad anfiteatro lo proteggeva, perché pochi si accorgevano che durante quelle pause i suoi occhi si arrossavano e il viso si congestionava nello sforzo di arrestare le lacrime.
Monica se ne era andata dopo quindici anni d’amore. D’amore? Non lo sapeva più. C’era un figlio, ormai grandicello, che lo testimoniava. C’erano tante fotografie e tanti ricordi. Oddio, si disse, no, i ricordi no. Ma non riuscì a evitare di cadere nella tentazione di rievocare il “bel” tempo andato: sapeva che farlo gli avrebbe riempito l’anima di spilli acuminati, ma al contempo non riuscì a evitare quella tortura. Era il suo salvagente ambiguo: all’apparenza fatto di gomma e utile per galleggiare, nella realtà si rivelava di piombo, la sua condanna a morte.
Posso parlarti? Quasi sedici anni prima si era presentata così nell’ufficio del professore. In realtà lui era un semplice assistente del corso di filosofia morale. Lei era una laureanda in cerca di relatore. Era una mattina di primavera ancora fredda. Milano agonizzava nella foschia. Monica si sedette di fronte: Andrea rimase colpito da quel “tu”. Gli parve un segno di scarsa considerazione verso di lui. Di certo lei avrebbe preferito incontrare il titolare della cattedra. Ma Monica gli aprì un sorriso bianco che sembrava non finire mai. Aveva una ciocca di capelli ricci che le ballava sulla fronte, velandole l’occhio sinistro. Aveva zigomi pronunciati, bocca piccola e due occhi scuri, tondi. A lui parvero i primi segni di ciò che, più tardi, nella primavera del loro amore, avrebbe chiamato “bellezza faticosa”.
Quella mattina lei gli aveva raccontato i motivi per cui aveva tardato a laurearsi. Un divorzio (aveva cinque anni in più di lui), tanta solitudine, incertezza, una casa da portare avanti, una figlia di sei anni da crescere da sola. Lui le guardava le mani. Monica gesticolava molto. E non smetteva d’osservalo.
Basta, basta, devo alzarmi, si ripeté cercando di arrestare il flusso dei ricordi che lo faceva soffocare. Cercò a testoni le calze. Pensò che una doccia avrebbe spazzato via tante cose dal suo corpo e dallo spirito. Cercò di distrarsi trascinandosi in bagno: la luce illuminava lo specchio, che gli restituì l’immagine di un quarantatreenne amareggiato ma non da buttare via. Riuscì persino a sorridere, ma non poté distrarsi nemmeno sotto la doccia, perché Monica era di nuovo con lui. All’inizio lei voleva sempre fare la doccia assieme. Per risparmiare l’acqua calda, diceva sorridendo con una malizia così dolce che a lui faceva mescolare il sangue. Erano docce indimenticabili. Poi anche quello finirono.
Monica si era laureata grazie a lui tre anni dopo. Era già incinta del loro figlio. Quel figlio che lui non aveva mai capito bene, quel figlio uscito da una pancia che aveva già ospitato il seme di un altro uomo e che aveva già generato qualcuno. Non era stato un buon padre. Era stato molto presente fisicamente, quasi asfissiante, ma spiritualmente era assente, pallido, evanescente.
La doccia calda lo scosse. Pensò alla lezione di quella mattina. Una lezione facile. Il suo ultimo libro, La filosofia italiana e il fascismo, aveva avuto un buon successo accademico, anche perché era stato testo per il corso che aveva tenuto quell’anno. Il corso stava finendo: dopo l’ultima lezione, avrebbe dato spazio alle “tesine” degli studenti. Poi sarebbe cominciata la lotteria degli esami.
Pensare a queste cose gli fece bene: l’acqua scorreva sulla sua pelle con facilità, morbidezza, accarezzandolo come… come faceva Monica in quei momenti. Ecco che il mostro della nostalgia ricominciava a graffiarlo. Non poteva arrestarlo: rievocava la morbida sensazione dei seni di Monica contro il suo corpo insaponato e… Guardò in basso: un’altra erezione, l’ennesima. Iniziò a massaggiarsi ma non c’era tempo. Per farlo abbassare pensò a una sua collega di corso, brutta e sformata, con un sedere enorme e gli occhiali fumé. Ma si eccitò ancora di più. Lasciò perdere. Finì di lavarsi pensando al campionato di calcio, alla Juventus di nuovo campione. Uscì dal box doccia sgattaiolando come un ladruncolo sorpreso a rubare, cercando di sottrarsi al morbido fantasma di Monica.
Lo specchio gli restituì un’immagina sfocata di sé. Avrebbe preferito che non riflettesse nulla quella mattina. Osservandosi avvolto nell’accappatoio, cupo in volto, scarmigliato, comprese definitivamente che era disperato. Che non ce la faceva più. Che la sofferenza, spossandolo, aveva prosciugato ogni sua energia vitale. Che senza una donna non aveva più senso esistere, che senza Monica la vita era desertificata.
Si scosse. Avrebbe dovuto fare colazione. L’avrebbe fatta al bar di fronte all’università: faceva ormai caldo e la scollatura della barista era qualcosa che poteva offrire un senso nuovo alla sua giornata. Si vestì con calma: camicia azzurro-scuro, pantaloni beige, giacca leggera. Abbigliamento giovanile, fosse mai che qualche studentessa… Ecco, sì, Monica si era laureata cum laude. Lui l’aveva seguita molto bene durante la tesi, tanto è vero che durante quel periodo avevano scoperto di amarsi. Ma il giorno della laurea per lui fu poco felice: essendo ancora un assistente, anzi, un assegnista, non poté far parte della commissione giudicatrice. Il suo posto era stato appannaggio del titolare di cattedra. Lui era rimasto dietro le quinte: nel corridoio c’erano i genitori di Monica, che ormai conosceva, la sorella di lei, una zia, la bambina, Caterina, che di anni ne aveva 9. E c’era l’ex marito di Monica. Ecco, al vederlo, un travaso di bile lo aveva colto: si trattava di un sentimento che aveva provato spesso e che sovente rovinava i loro momenti, anche quelli più intimi. Era una gelosia remota, gelosia di un passato che non gli apparteneva. Lui la viveva male: era sempre insicuro, terrorizzato dal fatto che Monica potesse fare confronti tra lui e il suo ex marito, per concludere, magari, che quell’altro era meglio, e che aveva sbagliato a lasciarlo. Quante volte avevano litigato per quella gelosia! Andrea si rendeva conto di essere stupido, ma quando Monica lo criticava o gli faceva dei rilievi, lui, accecato dalla rabbia, pensava che la donna, nella sua testa, stesse facendo un paragone con l’altro, giudicandolo migliore.
Questa gelosia giungeva all’acme, ovviamente, nel sesso. Perché in quel caso lui temeva di non essere all’altezza, di essere giudicato inferiore all’altro. E nonostante Monica apparisse soddisfatta di lui e gli dicesse che non aveva mai fatto l’amore così bene e così tante volte, lui non riusciva a calmarsi. Credeva lo dicesse solo per blandirlo, per placare la sua gelosia. E quanto più lui la vedeva disinibita, tanto più si macerava, perché pensava che anche con l’altro lei era stata tanto aperta, anche se Monica gli sussurrava spesso: Nessuno mi hai amato come fai tu. Avevo da tempo dimenticato di essere donna, di essere bella e desiderabile.
La giornata fu perciò dura: si sentiva in disparte, anzi, si mise in disparte apposta, covando un immotivato rancore verso la sua donna, la quale invece lo cercò continuamente con lo sguardo, affondata nel suo abito elegante e nei suoi occhi commossi. La sera, a casa, avevano litigato perché lei lo aveva accusato di esserle stato lontano; lui aveva detto che gli aveva dato fastidio vedere il suo ex marito, e che era stato in disparte perché non voleva “disturbarla” mentre salutava sua figlia. Ma mia figlia è più importante di tutto e tutti, lo sai. Lo sapeva. Anche perché Caterina lo adorava: giocava volentieri con lui, lo abbracciava. E lui, che all’inizio, quasi per pudore, aveva cercato di non stare troppo vicino alla bambina, le voleva molto bene, come se fosse sua figlia.
Smise di vestirsi lentamente: questi ricordi gli facevamo male allo spirito. Che idiota era stato con le sue gelosie stupide, fondate sul nulla! Aveva rovinato tutto! La sua vita stava andando a rotoli: proprio ora che era diventato un ricercatore conosciuto, stimato per i suoi studi sulla filosofia italiana, il lato sentimentale della sua esistenza stava crollando. Dov’era Monica in quel momento? A scuola probabilmente. Ma… amava qualcun altro? Una fitta di angoscia gli spezzò quasi la schiena, tanto che dovette sedersi sul letto. Di certo aveva diritto, lei, ad amare un altro, ed essere amata. Una donna tanto eccezionale! E poi con lui era finita da un po’, ben prima che la donna se ne andasse, quel giovedì pomeriggio.
Rivide per l’ennesima volta il film di quelle ore. Erano soli in casa. I bambini dai nonni. Lei stava preparando la borsa, mentre c’erano due scatole di libri già caricate in macchina. Lui la spiava indaffarata a svuotare l’armadio e i cassetti. Era impotente. Sconvolto. Lei lo guardava con gli occhi rossi. Gli ripeteva: Sai, non c’è altra soluzione, vero? Però non aveva un tono perentorio. Forse cercava in lui quella forza che non aveva. Ma se ne andò. Ogni vestito tolto dall’armadio (quei perizoma così belli, quelle camicette da notte tanto eccitanti!), ogni scarpa messa nella scatola, erano una coltellata per lui. Un grumo di malinconia era fermo tra gola e stomaco. Respirava a fatica. Era una giornata bellissima, una giornata d’aprile con il sole, una di quelle giornate di primavera che sembrano non voler mai finire, profumate, piene di vita che rinasce.
Di chi era la colpa? Quel giorno, quando Monica si chiuse la porta alle spalle, in lacrime, dopo averlo baciato per l’ultima volta, lui lo capì. La colpa era sua. Pensò a quell’altro pomeriggio. Quello di un aprile precedente, un anno prima. Ancora una volta lo studio del “suo” professore. Ancora una volta i colloqui con gli studenti. Quella ragazza non molto più giovane di lui, desiderosa di laurearsi sullo storicismo di Benedetto Croce. Si chiamava Elena. Quegli occhi che lo scrutavano intensamente. Neri e grandi. Quelle mani affusolate che, durante il colloquio, si erano mosse sulla scrivania, fino a sfiorare le sue. Lui non aveva reagito: era attonito per quel contatto, ma non aveva respinto le mani di lei, anzi, gliele aveva toccate. I capelli ricci della ragazza, la sua bocca larga, quello sguardo intenso, lo avevano stregato. Finì il colloquio scoprendosi arrapato all’inverosimile, pensando che sarebbe potuto saltare addosso a quella studentessa se il dialogo fosse continuato. Quando, due settimane dopo, addosso le saltò davvero, capì subito che aveva oltrepassato un limite invalicabile. Dopo aver fatto l’amore con lei, che era così calda e disponibile, un acuto senso di colpa cominciò a torturarlo. Ma Elena presto lo richiamò a sé, e lui non si tirò indietro, producendosi in una doppietta da urlo, di quelle che meritano il giro del campo in trionfo. La cosa che lo sconvolse fu che, tornato a casa, non ebbe problemi con la sua compagna, ignara di tutto. Poi Elena decise che era finita, dopo sei mesi: Andrea non si mostrava intenzionato a lasciare Monica e lei aveva deciso di ricominciare da un’altra parte.
Ad Andrea la cosa andò bene, perché era stata una conquista facile e non cercata. Lui voleva stare con Monica. Si era scoperto capace di dissimulare in maniera eccellente: provava rimorsi solo dopo aver amato l’altra, ma più tardi ogni remora scompariva, e prevaleva la soddisfazione per essere stato in grado di amare due donne contemporaneamente, una volta, perfino, durante la medesima giornata.
Poi un giorno Monica aveva letto le mail. Aveva scoperto tutto. Non aveva fatto scenate, né gli aveva fatto la morale. Aveva pianto molto, sentendosi ingannata. Gli aveva chiesto se era stata l’unica volta. Gli aveva detto che doveva vergognarsi, perché in quei casi bisogna porre fine alla relazione e dedicarsi anima e corpo all’altra. Sono delusa da te, scioccata per la tua capacità di fingere. Sei solo malato di sesso, la tua voglia di…, di…, di scopare sempre è un insulto, un comportamento maschilista; per te… per te una donna vale l’altra, io non conto, nulla, per te un “buco” vale l’altro. Che schifo. Lui capì, da quelle frasi volgari (Monica non diceva mai parolacce), che era finita davvero.
Andrea non aveva replicato nulla, paralizzato dalla propria colpa, che, in quel momento, osservando gli occhi rossi di Monica, gli sembrava enorme. Ma cosa poteva fare? Gli venivano in mente solo giustificazioni banali, maschili. Niente che potesse smuovere il cuore tradito della sua donna. Che minchione era stato! Glielo aveva detto anche il suo amico, qualche sera dopo. Farsi beccare le e-mail è da coglioni. Se la cosa era finita, cancella le tracce. Sai quanta gente fa le corna? Ma mica ci ricama sopra tutta la poesia che fai tu! È la poesia che ti frega sempre, la volontà di vedere spiritualità anche dove c’è solo carne. Che inguaribile romantico sei!
Eh sì perché per lui le mail d’amore dell’altra erano delle medaglie al valore, piene di frasi affettuose e di pensieri profondi. Si sentiva un uomo capace di vivere solo per amore, prigioniero volontario dei sentimenti, una sorta di esteta redivivo, un Oscar Wilde più furbo. Invece era stato solo patetico, sia con Monica che con quell’altra. Non aveva avuto le palle per lasciare la prima donna, né di resistere al richiamo sessuale dell’altra, la quale, era chiaro, da lui avrebbe voluto anche di più. Quando lui le chiedeva: “Non è solo sesso, vero?”, lei lo guardava con un sorriso tenero, stupita per quell’ingenuità, e gli rispondeva: “certo, ma se fosse solo sesso ti andrebbe male?”. No, non gli sarebbe andata male, eppure Andrea capiva che Elena gli poteva voler bene sul serio. Ma non aveva mai nominato i sentimenti, né parlato male di Monica, imbarazzato dalla paura di dover cambiare vita e abitudini.
Insomma, era stato un imbecille totale. Se lo ripeté bevendo il cappuccino. La barista quel giorno era malata. C’era un uomo al bancone: corrucciato, con la faccia stanca, la voce arrocchita dal fumo. Fu un segnale. La giornata non iniziava sotto gli auspici migliori. A un certo punto la radio aveva cominciato a sparare a tutto volume una canzone di Tiziano Ferro: fu l’ultimo segno che gli dimostrò che quella era una giornata di merda.

Il cortile dell’università di Milano era inondato di luce. C’era vento. Tracce di polvere si sollevavano dal pietrisco ghiaioso, mentre il viavai di docenti e studenti appariva chiassoso e perfino allegro. Ma in lui la luce si era spenta. Dopo un mese speso a rievocare di continuo il momento dell’addio di Monica, gli errori marchiani da lui commessi, si sentiva spossato, del tutto incapace di pensare a un futuro. La cosa che gli donava maggior dolore era constatare che tutto quello che era accaduto era avvenuto solo per colpa sua. Sarebbe stato consolante, o quantomeno lenitivo della sua sofferenza, prendersela con qualcun altro. E invece no: il suo dolore non aveva nemmeno quello sfogo. Era una cosa tutta sua, era un peso che avrebbe dovuto portare da solo.
Entrò nell’aula gremita con passo malfermo. Che ne sapevano tutti quei ragazzi del suo dolore? Che ne importava a loro? Che ne importava al mondo dei suoi errori da ragazzino, della sua smania di donne, del suo desiderio infinito, della sua incapacità di scegliere “tra lei e quell’altra che non sapevi lasciare/tra i tuoi due figli e l’una e l’altra morale”, come cantava Guccini in Scirocco? Perché era venuto al mondo? Perché era stato così sprovveduto, così sciocco, tanto incapace di accontentarsi? Ora che Monica non c’era più, sentiva che aveva amato solo lei nella sua vita. Le altre non valevano nulla al suo confronto. Ma era rimasto solo. Sia Monica che le altre erano ormai lontane da lui. Certo, era stato lui che le aveva allontanate. E aveva fatto bene, perché non lo soddisfacevano. Ma Monica, no, Monica era praticamente perfetta, una donna che ogni uomo avrebbe voluto accanto. Oppure quell’altra, Elena, almeno quella avrebbe potuta tenerla accanto; ma lei quando si era accorta che Andrea era incapace di decidere tra lei e l’altra, lo aveva lasciato.
Cominciò a far lezione. Non vedeva nulla davanti a sé: l’aula gli pareva avvolta da una caligine che le lenti a contatto, indossate quella mattina, rendevano sempre più spessa. La voce sembrava sempre sul punto di mancargli. Leggeva gli appunti con tono anonimo; era paralizzato, incapace di gesticolare come era solito fare. Dov’era Monica in quel momento? Che stava facendo? Ed Elena dov’era finita? Se l’avesse richiamata avrebbero potuto ricominciare a vedersi? L’avrebbe mai perdonato Monica? È possibile, da un momento all’altro, passare dall’amore all’odio e non tornare indietro? Dov’era suo padre, morto da anni? Perché se ne era andato via così presto? Forse gli avrebbe dato dei consigli saggi, lo avrebbe guidato meglio. Mentre parlava agli studenti gli mancò il respiro. Una crisi d’ansia? Dopo tanti anni?
Io non ti amo più, gli aveva detto Monica un mese prima, sul punto di chiudere la porta alle proprie spalle. Ecco, gli aveva proprio detto in quel modo. Non lo aveva guardato. Quel ricordo gli tornò in mente togliendogli il fiato, a tradimento, proprio nel momento meno opportuno. Poi Monica aveva aggiunto, trafiggendolo a fil di spada: Il solo pensiero di essere toccata da te mi dà il voltastomaco. Benché fosse una frase banale, da programma televisivo pomeridiano (Monica a volte usava un linguaggio un po’ sciatto), fu una stilettata che lo tramortì.
In preda a un attacco di panico, dovette uscire dall’aula. Era solo, ormai: senza famiglia e isolato in dipartimento, dove, nonostante i tanti anni trascorsi, non aveva stretto amicizie vere, tutto occupato dalla sua famiglia, famiglia che poi aveva distrutto per la sua indecisione perenne. Andrea si era convinto, in quel mese, che tutte le strade per lui erano ostruite e che niente avrebbe potuto aiutarlo. Infine, il colpo basso della nostalgia, del mostro che da un mese lo divorava, gli confermò che il mondo reale non faceva per lui. Dove avrebbe trovato requie, dove sarebbe divenuto finalmente se stesso?
Oppresso da questi pensieri, giunse sulla soglia del dipartimento di filosofia e si arrestò. Il flusso di studenti e docenti era rado in quel momento. Come aveva potuto abbandonare l’aula? Cosa stavano pensando i suoi allievi? Di certo che era matto. Come sarebbe potuto rientrare? Quale scusa avrebbe potuto escogitare? No, nessuno scusa, era finito il tempo degli inganni verso se stesso, non sarebbe tornato più. Era giunto il momento di prendere in mano la propria esistenza.
Nessuno sembrava badare a lui, benché molti lo conoscessero, eppure Andrea percepiva tanti occhi fissi su di sé, quelli di Monica, che lo accusava di averla delusa, di suo figlio, sempre più estraneo a lui, e di suo padre che, nella nebbia di un al di là a cui Andrea non sapeva dare credito, lo indicava col dito come uno sciocco. Allora si sedette sotto le colonne del porticato, come in raccoglimento, e pensò alla sua colpa, al suo comportamento da sprovveduto, all’inutilità di tutta la filosofia che aveva studiato. Il dolore insopportabile, la vergogna e l’indignazione provati prima si erano quasi sublimati in una sorta di indolenza disperata e lucida.
Era giunto il momento di prendere veramente in mano le redini della propria esistenza. Così si diceva, “prendere in mano le redini”. Quell’espressione gli era sempre sembrata stupida, tipica della televisione, dei rotocalchi in mostra dai parrucchieri. Ma il concetto era giusto. Ce l’avrebbe fatta? Dibatté dentro di sé questa possibilità, rendendosi conto che no, non ce l’avrebbe mai fatta, perché era solo, o almeno, aveva fatto terra bruciata (altra espressione che gli faceva venire l’orticaria) attorno a sé. Si sentì senza speranza.
Allora si alzò ed entrò in dipartimento, tenendo lo sguardo diritto davanti a sé per evitare qualsiasi contatto con persone conosciute. Salì al primo piano e si fermò ansante: ebbe l’impressione che il suo animo galleggiasse in una specie di tinozza vecchia e scrostata, colma di un liquido viscido. Si appoggiò a un muro, come per sorreggersi. Riprese l’ascesa e giunse al piano superiore, lo oltrepassò e si arrestò sul mezzanino. Si diresse infine verso il ballatoio e uscì all’aperto.
Il cielo era azzurro. Spirava un vento profumato. Pensò che sarebbe stato bello poter tornare indietro a quando era bambino, magari crescendo diversamente. Forse la sua vita sarebbe stata differente. Per tanti anni aveva creduto che, se non aveva scelto di venire al mondo, poteva quantomeno scegliere come stare al mondo. Ma le cose che gli erano capitate, l’una dopo l’altra, avevano smentito questa idea. Non era stato capace di decidere della propria vita, di cancellare il senso di perenne inquietudine che lo paralizzava, quel senso di precarietà continuo, quella pietra al collo sempre così pesante.
Giunto sul ballatoio, Andrea si fermò. Il vento sfiorava i suoi radi capelli. Sentì una sirena avvicinarsi e poi sparire, un colpo di clacson, una voce di ragazza esigere qualcosa da qualcuno. Allora esitò. Tuttavia il sole, la brezza del giorno, il rumore del gaio e futile chiacchiericcio degli studenti seduti sotto i portici, lo fece sentire di troppo una volta di più, un “oggetto” superfluo, incapace di lasciare una traccia nel mondo. Eppure ristette ancora, ebbe un’altra esitazione che si prolungò per diversi minuti. Che stava succedendo? Si sedette sul cemento, per calmarsi, forse per ritrovare la determinazione che aveva fino a pochi secondi prima. Guardò il cielo, rammaricandosi di non essere capace di essere come gli altri. Pensò al titolo di un libro che aveva letto l’anno prima: Il desiderio di essere come tutti. Ecco, se lui fosse stato una persona poco sensibile, meno complicata, più banale, forse avrebbe sofferto meno. Certo, si disse, avrebbe anche amato di meno.
Era sempre stato un uomo d’intelletto, aveva creduto che solo questa facoltà potesse spianare la strada per comunicare con le altre anime nobili. E ne aveva incontrare poche nella sua vita. E queste poche le aveva deluse con la sua pusillanimità. Che ci faceva lì, altrimenti? Come poteva pensare di tornare a immergersi nel mondo dopo che aveva deciso di allontanarlo da sé, di sfuggire da lui per preservare la parte più nobile di sé? Lui aveva tradito e vilipeso il mondo, le belle facoltà che la natura gli aveva donato. Cercò allora di infondersi nuovamente coraggio, si disse che si trattava solo di un attimo, di un istante breve, della sola sofferenza per il dolore fisico: solo questa lo tratteneva. Andrea pensò a Socrate, al suo coraggio, alla fierezza di Seneca.

E in quel bel sole, in quel cielo azzurro, in quell’aria profumata e colma di vita che si rinnovava, si scosse. Appoggiò i piedi sull’orlo del ballatoio: avvertì dentro di sé una sorta di benessere tragico, finché, sporgendosi verso il vuoto, vacillò, sentì che le gambe cedevano e che il corpo si piegava in avanti come se volesse affrettare la fine. Comprese che stava davvero calando il sipario. Gli mancò l’equilibrio, poi scorse sotto di lui un abisso grigio e il selciato divenire sempre più vicino. Infine andò incontro a qualcosa che non avrebbe saputo descrivere, una specie di oscurità rumorosa e assai dolorosa, ma solo per qualche istante, e infine sentì un impasto di terriccio e sangue caldo nella bocca. Poi la luce si spense.

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

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