domenica 4 maggio 2025

PARAFRASI COMMENTATA DEL "PURGATORIO" DI DANTE ALIGHIERI


Introduzione

Dante ha superato l’inferno e, d’ora in poi, tutto sarà meno arduo perché lui ora è capace di guardare in faccia le sue colpe: ha visto cosa riduce il peccato. Davanti a lui c’è un’intera montagna: è il purgatorio: un luogo di riparazione riservato solo chi si è sinceramente pentito dei propri peccati (veniali) prima di morire, ma non è stato sufficientemente buono da eliminare la tendenza a peccare. Non è un merito da poco quello di Dante: per questo si può dire che egli abbia “inventato” la visione moderna del purgatorio.

 Il purgatorio è nato contemporaneamente alla voragine infernale, ma situato agli antipodi della città di Gerusalemme (per Dante la terra è tonda…), il purgatorio è una montagna esposta al sole e ha alla sua sommità il paradiso terrestre. Il purgatorio non ospita diavoli e non è un luogo sotterraneo. Con la sua visione serena e dolce del purgatorio, Dante forse vuol dire che è possibile, nella vita, ricominciare: c’è speranza per tutti, quasi in ogni momento della vita, anche in quello finale.

L’idea del purgatorio è consolante per un credente: la possibilità di pentirsi dei propri peccati e di espiarli avendo però la certezza della salvezza, è una grande consolazione. Attenzione: questa certezza non deve far perdere di vista il compito primario, ossia pulirsi de peccati: chi va in purgatorio non è ancora salvo, ma il percorso di purificazione è ancora molto lungo perché è Dio che stabilisce la durata del percorso.

La pena peggiore che subiscono tutti coloro che vanno in purgatorio e il differimento della possibilità di vedere Dio: i beati, infatti, vedono Dio subito dopo la morte, i purganti no. I purgandi subiscono anche delle pene “corporali”, nel senso che, pur essendo ombre incorporee, per volontà di Dio mantengono una sensibilità per poter subire la sua vendetta. Ma i purgandi non sono solo puniti, bensì anche purificati: sia assistendo a esempi di condotta edificanti (scolpiti nella roccia, recitati da voci o veduti in momenti di estasi), sia confessando i propri peccati, sia bevendo l’acqua dei ruscelli dell’Eden.

 Il periodo di espiazione che le anime devono trascorrere in purgatorio può essere accorciato grazie alle preghiere dei vivi che vivono sulla terra secondo la fede e difatti molte anime chiedono a Dante di raccontare di loro nel mondo affinché qualcuno preghi per loro. Il poeta però crea un legame doppio tra anime e gli uomini sulla terra, perché anche le anime del purgatorio pregano per i vivi.  Questa è una cosa molto bella, tanto è vero che nel canto XI, i superbi recitano il Padre Nostro per chi sta ancora nel mondo, affinché non ceda alle tentazioni ed eviti il peccato: questo fatto crea un ponte di fratellanza tra aldilà e aldiquà.

Sulla spiaggia dell’antipurgatorio, Dante alcune anime spaesate scendere da un vascello velocissimo, guidato da un angelo. Per loro, morte da poco, è impossibile non essere attratte da Dante, uomo in carne e ossa, il cui corpo, al contrario del loro, proietta l’ombra. Tutte le anime del purgatorio saranno colpite dalla corporeità di Dante. Esse sono appena giunte in purgatorio dalla foce del Tevere e sono ancora impastate di sensazioni e affetti umani. E subito tra loro, Dante e Virgilio si stabilisce la fiducia, senza nemmeno conoscersi, perché il purgatorio non c’è posto per la diffidenza.

Dante si commuove ritrovando un amico, il musico Casella. Ma questa atmosfera idilliaca è rotta da Catone: dovere ingrato eppure necessario quello del guardiano dell’antipurgatorio (a suo tempo pagano e suicida per la libertà, è simbolo della libertà e della rettitudine morale), perché la strada verso l’espiazione definitiva delle proprie colpe non può patire indugi.

Dante deve pulirsi la faccia, eliminare ogni scoria dell’inferno: così potrà proseguire il suo cammino e addentrarsi tra le rupi dell’antipurgatorio che, oltre che a essere il primo approdo di tutte le anime purganti, ospita coloro che, pur pentitisi prima di morire, furono troppo peccatori per andare direttamente in purgatorio e devono scontare un periodo supplementare di attesa, secondo quanto stabilito da Dio: gli scomunicati (che in vita furono allontanati dalla Chiesa: anche per loro c’è speranza) e i negligenti “per forza morti” che trascurarono i doveri religiosi e si pentirono proprio all’ultimo. Pentirsi costa tanto: significa gettare a mare un’intera vita, un insieme di ambizioni, speranze, tutte però basate su qualcosa di fragile e superfluo: i beni materiali.

Come non ricordare nel canto V Buonconte da Montefeltro, capo ghibellino e perciò nemico della Chiesa (capo degli aretini sconfitti da Firenze a Campaldino nel 1289, battaglia alla quale partecipò anche Dante) che, pentitosi proprio all’ultimo, ora è salvo? E come non pensare al padre di costui, Guido, che invece, pur pentitosi per tempo, tornò a peccare ed è stato condannato all’inferno (canto XXVII della prima cantica)?


La porta del purgatorio (canto IX)

Nel canto IX, trasportato durante il sonno da santa Lucia, santa a cui Dante era devoto, il nostro si ritrova vicino alla porta del purgatorio presidiata da un angelo dotato di spada; la porta infernale era invece enorme e sempre spalancata, coronata da parole che toglievano ogni speranza: accade così perché pochi si salvano e molti preferiscono vivere da disumani e morire nel peccato.

Davanti alla porta ci sono tre gradini, simbolo dei momenti del sacramento della confessione: Dante li percorre colmo di umiltà e devozione. Sebbene l’angelo, ministro di Dio, conosca già le colpe di Dante, il poeta deve ugualmente rivelarle tutte perché la confessione, per essere efficace, deve giungere spontaneamente dalla bocca del peccatore. Poi l’angelo apre la porticina grazie a due chiavi, una d’ora e l’altra d’argento, consegnatigli da san Pietro. Infine, l’angelo traccia sette “P” sulla fronte di Dante: sono simboli dei sette vizi capitali espiati nei sette gironi del purgatorio: solo quando tutte e sette le “P” saranno cancellate, Dante sarà pienamente purificato e potrà accedere al paradiso terrestre.

 

Gironi I-III: l’amore diretto al male del prossimo (canti X-XVII)

Entrato in purgatorio, Dante non si volta perché l’angelo portinaio gli ha intimato di non farlo: chi ha iniziato a percorrere la strada della redenzione, non può voltarsi indietro né fermarsi, perché vanificherebbe tutto. E s’accorge che la roccia di quei primi tornanti del purgatorio è addobbata con stupende sculture, opera di Dio, che riportano scene di umiltà e atti di superbia punita.

Sì, questa è un’altra idea geniale di Dante: Dio non fa espiare le colpe solo con le punizioni, ma con gli esempi, perché al dolore va accompagnato l’insegnamento. Queste scene sono riservate ai primi peccatori che Dante incontrerà: i superbi. Costretti a portare grossi massi e a tenere il capo basso, essi subiscono la pena di non poter più sollevare il capo nella maniera sfrontata con cui lo facevano in vita. Dante li compatisce perché sa bene che la superbia può nascere in chi esercita l’arte. E l’incontro con il miniatore Oderisi nel canto XI gli farà capire quanto è effimera la gloria artistica, quanto sia breve e quanto sia facile che un artista (come accadde a Cimabue con Giotto) venga presto oscurato da un artista che arriva dopo di lui. Questo è un saggio insegnamento per Dante, che teme di dover scontare alcuni anni in purgatorio per la colpa della superbia… ma… se ancora oggi parliamo di lui e di Giotto forse significa che la gloria artistica non è sempre poi tanto effimera.

 

Di certo Dante non temeva di essere giudicato invidioso, almeno a quanto dice lui, visto che nel canto XIII si confessa lontano da questo peccato da lui giudicato, già nell’inferno, un vizio tipico nelle corti del suo tempo. Cioè lo vedeva connesso alla politica e lo giudicava molto grave, vista anche la pena degli invidiosi.

“Invidiare”, secondo l’etimologia, significa guardare storto; per questo le anime di chi espia questo peccato hanno le palpebre cucite con il filo di ferro. Pena assai dura, degna forse più dell’inferno, segno che essi in vita usarono male il dono della vista: anziché ammirare la bellezza del creato, usarono gli occhi per odiare e per sperare di appropriarsi di ciò che apparteneva ad altri. Essi peccarono quindi doppiamente, sia invidiando, sia desiderando i beni materiali, i quali hanno il difetto di non bastare mai per tutti e di suscitare, per questo, le più terribili passioni. Altra cosa sono i beni celesti, che non finiscono mai, bastano per tutti e, anzi, più uomini ne godono, più essi diventano ricchi.

 

Parlando degli altri peccatori, gli iracondi, si comprende che per Dante la rabbia non è sempre sbagliata. Costoro hanno voluto il male del prossimo poiché non hanno saputo resistere alle offese e si sono abbandonati a una rabbia malvagia e ingiusta e per questo sono accecati dal fumo nero, perché la rabbia incontrollata acceca. La cosa interessante è che, grazie nell’incontro con l’anima di un iracondo, Marco Lombardo (canto XVI), sorta di alter-ego del poeta si spiega perché la società del tempo sia così malvagia e abbia dimenticato le virtù cristiane. Dante viveva infatti in una società piena di violenza, dove la vita dell’individuo non valeva nulla; una società rovinata da conflitti politici aspri tra le singole città e anche all’interno delle città stesse, in una penisola dove non esisteva un’autorità sovracittadina in grado di garantire sicurezza alle persone.

Questo era il grande cruccio del poeta. Egli aveva fatto politica attiva a Firenze alla fine del ‘200, durante le lotte tra la borghesia mercantile e l’aristocrazia, tra i guelfi neri filo-papali e guelfi bianchi, a cui Dante, con il suo atteggiamento moderato, era affine. Egli nel 1300 ricoprì anche la carica più importante, quella dei sei priori, ma dopo la vittoria dei guelfi neri (favoriti da papa Bonifacio VIII) del 1301, In quanto guelfo bianco, fu esiliato e condannato a morte e dovette vagare per diverse città e borghi italiani, mendicando pane e denaro.

 

Ma perché l’uomo commette il male? Dio, infatti, gli ha donato tutte le facoltà per vivere bene seguendo le sue leggi. L’uomo è una creatura imperfetta. Egli sbaglia sia per ragioni “psicologiche”, sia per cause “esterne”, imputabili all’ordine sociale. Dante afferma che l’anima dell’uomo, appena creata da Dio, contiene alcune conoscenze di base (il principio di identità e quello di non contraddizione) e l’inclinazione ad amare Dio. Se l’uomo seguisse questa inclinazione, non peccherebbe mai.

Per Dante l’uomo possiede il libero arbitrio: Dante aveva il “problema” di conciliare l’onnipotenza di Dio, con il fatto che esiste il peccato. Se l’uomo non fosse libero, bisognerebbe ammettere che egli è responsabile di tutto, anche del male. Ma sarebbe un’eresia. Il possesso della libertà distingue l’uomo dagli altri animali ma, paradossalmente, rende più facile per lui cadere nel peccato. In campo conoscitivo, commette degli errori perché esercita le sue facoltà intellettuali sono limitate e vengono usate male, in campo etico egli cade nel peccato perché desidera le cose sbagliate.

L’uomo pecca quando fa un uso distorto dei doni più preziosi che Dio gli ha fatto: la ragione e la libera volontà. Egli sbaglia solo per colpa sua: Dio gli donato tutte le facoltà per operare il bene, ma l’uomo, l’unica creatura dotata di libertà, può scegliere il male. L’uomo non è un burattino, ma è libero e, proprio in quanto tale, responsabile agli occhi di Dio delle sue azioni. per questo può essere dannato o salvato.

Il fatto che l’uomo sia libero fonda la sua responsabilità, non solo nei confronti di Dio, ma anche sulla terra, nei confronti degli altri uomini. Essere liberi significa seguire le leggi di Dio e le leggi (giuste) della società civile. Se non esistesse il libero arbitrio dell’uomo, non avrebbe senso la struttura dei regni dell’aldilà che Dante immaginato e diverrebbe vano il compito che egli si è attribuito, quello di far ravvedere gli uomini raccontando loro come i peccatori sono puniti o salvati. Se la salvezza dell’uomo è in buona misura opera della grazia di Dio che agisce per motivi imperscrutabili, l’individuo può fare qualcosa per meritarsi tale grazia ossia operare il bene.

 

L’uomo è, come diceva Aristotele, un “animale” sociale destinato a vivere in società retta da leggi. Se dal punto di vista “psicologico”, Dio ha donato a l’uomo l’inclinazione ad amare i beni celesti, da quello esteriore, per rendere felice l’uomo, Dio ha stabilito l’esistenza di due autorità politiche, l’imperatore e il papa, entrambe incaricate di guidare l’individuo verso la felicità. Quella terrena grazie all’imperatore, quella celeste grazie al papa. Dio anche in questo caso aveva fatto le cose per bene, stabilendo che l’impero debba occuparsi delle leggi civili, mentre al papa spetti il compito di far osservare all’individuo le leggi di Dio.

Il problema è che ormai da lungo tempo nessuno fa rispettare le leggi civili e, di conseguenza, nessuno fa più rispettare la parola di Dio. Gli imperatori tedeschi (l’impero ormai è quello…), infatti, non guardano più all’Italia; dall’altro lato, gli uomini di Chiesa non si occupano più dell’anima delle persone ma sono da secoli interessati alle ricchezze materiali e al potere politico, tanto è vero che, al tempo di Dante, la Chiesa possiede già molti territori nell’Italia centrale, al tempo chiamati “Patrimonio di San Pietro”. Per questo Date pensa che la colpa maggiore per la decadenza della società italiana sia da attribuire al papa, perché il potere politico è stato donato all’impero (prima Romano e poi tedesco) da Dio; l’imperatore, dunque, ha ricevuto il potere politico in “concessione” e non può alienarlo, non può trasferirlo a un’altra autorità (al papa), perché tale potere appartiene solo a Dio. Per questo Dante ritiene illegittimo il documento su cui la Chiesa basava il suo diritto a esercitare il potete temporale, la (oggi sappiamo che era un falso) donazione di Costantino. Dante è molto duro contro gli uomini di Chiesa, tanto che mette all’inferno tutti i papi a lui contemporanei.

 

L’idea che potesse tornare un impreso universale era anacronistica, perché già da tempo era in atto il processo che avrebbe condotto alla formazione degli stati nazionali, come Francia e Inghilterra. Dante aveva però intuito che l’Italia, rimanendo ai margini della politica europea a causa degli egoismi particolari, sarebbe stata condannata a restare divisa per molto tempo. Attenzione, Dante non aveva in mente l’unità d’Italia e dunque non era un anticipatore di quel che avvenne nel 1861, però deplorava lo spirito di fazione che angustiava la vita di tante città italiane. Lui aveva capito che tale frammentazione tra le città italiane, che si riverberava anche sulla frammentazione linguistica, sarebbe stato un fattore di debolezza politica nel futuro e difatti così fu. Con la nascita degli stati nazionali, l’Italia sarà oggetto della spartizione tra di loro e per lunghi secoli rimarrà un paese debole, frammentato e litigioso.

 

L’ordinamento del purgatorio (canto XVII)

Alla fine dei primi tre gironi del purgatorio, i pellegrini fanno una sosta. Virgilio ne approfitta per spiegare a Dante qual è l’ordinamento del purgatorio. La cosa più “sconvolgente” è leggere che tutti i nostri atti, anche quelli peccaminosi, nascono dall’amore. Dunque, non sempre l’amore è buono, perché il suo valore dipende dall’oggetto amato. Si è detto che l’uomo è libero e che nasce con una innata tendenza a desiderare: senza desiderio, non potremmo vivere, perché gran parte della vita si struttura attorno alla brama di raggiungere qualcosa, sin da piccoli. Eppure, se tale tendenza a desiderare sceglie gli oggetti sbagliati, ecco il vizio e il peccato.

Accanto a un amore naturalmente diretto verso Dio, la sola cosa che dovremmo amare veramente, esiste un amore di “elezione”, nel quale si esercita la scelta dell’uomo, che può errare se desidera “il malo obietto”. Gli oggetti malvagi possono essere tanti e talvolta apparire anche molto attraenti, ma sono tali per l’uomo ingenuo o incapace di usare la ragione. Per Dante si tratta dei beni materiali: il sesso, la gloria, il denaro, il potere, il cibo: essi sono mali in sé, ma lo diventano se perseguiti con ossessione. La foga dei beni materiali è all’origine di tutti i mali del mondo: poiché tali beni sono fragili e non sono sufficienti per tutti, essi suscitano gelosie, invidia, rabbia e superbia.

Il superbo, l’invidioso e l’iracondo desiderano il male del prossimo e abbiamo già visto come scontano questo loro amore malato; se invece l’uomo agisce in virtù di un amore troppo tiepido verso Dio, cade nel vizio dell’accidia (punito nel quarto girone); quando invece l’uomo brama senza misura i beni mondani (cibo, sesso, denaro), conduce a commettere i peccati di avarizia, gola e lussuria, puniti negli ultimi tre gironi del purgatorio.

 

Ma ci si può pentire proprio di tutti i peccati e finire in purgatorio? Per Dante sembra di no: solo le colpe di incontinenza possono essere espiate, non quelle dovute alla malizia e alla violenza, peccati mortali che destinano irrimediabilmente all’inferno, dal VII cerchio in giù.

Per Dante il fine dell’uomo è la vita secondo ragione, ossia la capacità di evitare gli eccessi esercitando la virtù della temperanza, individuando il giusto mezzo da due comportamenti estremi ugualmente peccaminosi. Si prenda la superbia: è normale che un uomo abbia stima di sé; tuttavia, quando tale stima diventa eccessiva ed egli si sente superiore a tutti gli altri, commette peccato (dunque commetterebbe peccato anche chi, al contrario, ha un’autostima troppa bassa, ma Dante non ne parla). Quando l’individuo non è capace di trovare tale equilibrio, si hanno le colpe di incontinenza.

 

Gli ultimi tre cerchi (canti XIX-XXVI)

Leggendo dell’incontro con i peccatori del quinto cerchio, gli avari e i prodighi, mi ha stupito l’omaggio a Virgilio e la lode a poeti “pagani”, capaci però di intuire, senza esserne consapevoli, alcune verità cristiane.

Tra coloro che hanno le mani bucate Dante e Virgilio incontrano l’anima del poeta latino Stazio. Costui esprime grande ammirazione verso Virgilio arrivando addirittura ad affermare che la sua conversione al cristianesimo nacque leggendo i versi delle Bucoliche in cui Virgilio parla dell’arrivo di un fanciullo grazie al quale giungerà (anzi, tornerà) l’età dell’oro. Questi versi erano stati visti sin dai primi cristiani come un preannuncio dell’avvento di Cristo, come a voler rimarcare che ogni momento della storia dell’uomo faccia parte di un piano provvidenziali stabilito da Dio.

Dante inventa di sana pianta la vicenda della conversione del poeta latino Stazio al cristianesimo, per esaltare Virgilio nel momento in cui si sta avvicinando l’addio alla sua guida: il poeta latino, ahimè, non conobbe il cristianesimo e, dunque, non poté salvarsi, rimanendo confinato nel limbo.

Pur con tutto il bene che gli voleva, Dante non avrebbe potuto presentare un Virgilio salvato perché le sue parole sarebbero state ai limiti dell’eresia. Ma Virgilio, se non è stato cristiano, ha avuto il merito per Dante di aver intuito la fede, illuminando la strada a chi è venuto dopo di lui: “Per te poeta fui, per te cristiano” (v. 73). Queste parole, nella finzione narrativa pronunciate da Stazio, rispecchiano in pieno il pensiero di Dante.

Ora, si può storcere il naso sul fatto che il cristiano Dante si faccia guidare nell’aldilà dal pagano Virgilio. Ma la Commedia non è solo un poema sacro, bensì anche una grande opera di poesia. La poesia non ha limiti di tempo, di patria, né soffre barriere religiose: essa racconta l’indicibile, l’indescrivibile ed è il mezzo migliore per parlare di qualcosa che nessuno (o quasi) può vedere in vita, i regni dell’aldilà. Esiste insomma una sorta di universo poetico a cui appartengono tutti i grandi poeti antichi perché per Dante costoro, pur ignorando l’avvento di Cristo, nei loro versi mostrano di aver intuito qualcosa e di averlo scritto, certo sotto forma di favole o con un linguaggio poco chiaro. Senza tali poeti, senza le loro intuizioni, senza i loro versi che fanno lumeggiare una verità più alta, non esisterebbe la società cristiana e Dante non troverebbe le parole per raccontare del suo viaggio nell’aldilà.

 

Nel canto XXIII, tra i golosi, orrendamente emaciati e suppliziati come Tantalo (vedono una sorgente d’acqua fresca e un albero pieno di frutti invitanti ma, appena si avvicinano ad essi per assaggiarli, entrambi scompaiono), Dante incontro l’anima di Forese Donati, suo amico di gioventù, ha l’occasione di dialogare con lui. Forese era morto nel 1296 ed era fratello di Corso Donati, capo dei guelfi neri fiorentini nemici di Dante.

L’incontro con Forese è interessante per due motivi; uno, ci fa capire che anche nell’aldilà posso permanere affetti umani. La cosa non è molto ortodossa, ma risponde all’umanità della poesia di Dante, alla grandezza del suo cuore e al fatto che egli ha scritto la Commedia anche per rivedere i suoi amici. Due, è un modo che Dante impiega per scusarsi di un passato giovanile dissoluto. Il poeta, richiamando il momento della sua vita in cui, assieme a Forese, visse una fase di traviamento morale, dice: “Se tu riduci a mente / qual fosti meco e qual io teco fui, / ancor fia grave il memorar presente” (vv. 115-117). A cosa si riferisce Dante? Forse a quel periodo in cui a Firenze era esplosa una moda che aveva infiammato i giovani, quella dei duelli poetici. Tra Forese e Dante in gioventù c’era stato uno scambio di sonetti senza peli sulla lingua. Per esempio, a Dante che scrive all’amico accusandolo di non “scaldare” a sufficienza la moglie, Forese risponde con dei versi un po’ oscuri, i quali avanzano il sospetto che suo padre Alighiero avesse praticato l’usura.

Secondo l’Ottimo commento del 1333, Dante era al corrente della golosità dell’amico e sarebbe stato proprio lui a indurlo a pentirsi in punto di morte. Nella “tenzone” poetica tra i due, ci sono alcuni versi del nostro che alludono alla golosità dell’amico. Una di queste poesie, presa dall’edizione delle Rime di Dante curata da De Robertis, recita: “Ben ti faranno il nodo Salamone, / Bicci novello, e petti delle starne, / ma peggio fia la lonza del castrone, / ché ‘l cuoio farà vendetta della carne”. Dante dice che il suo amico Bicci (soprannome di Forese) sarà presto incastrato dal cappio (nodo) di Salomone (che non si poteva sciogliere), poiché il petto delle starne e la carne di castrato, lo ridurranno in miseria. Il peccato dei golosi è esecrato non solo per i danni morali, ma anche per quelli economici.

Dante pensava che avrebbe incontrato l’amico nell’antipurgatorio, non già in purgatorio pochi anni dopo essere morto. Forese spiega a Dante che il periodo che lui avrebbe dovuto passare nell’antipurgatorio è stato abbreviato dalle preghiere di sua moglie Nella; costei, la sua “vedovella”, è una donna buona e onesta, essendo tra le poche donne virtuose rimaste a Firenze. L’omaggio a Forese e la sottolineatura della moralità di sua moglie Nella, sono un risarcimento di Dante nei confronti della reputazione della donna alla quale nei suoi versi giovanili aveva rivolto delle frasi poco rispettose.

I lussuriosi e l’amore

Primi peccatori incontrati nell’inferno e ultimi peccatori del purgatorio (ma anche dell’intera Commedia), i lussuriosi sono immersi nel fuoco, simbolo della loro passione. Tra i lussuriosi che saranno salvato ci sono anche quelli “contro natura”, cioè gli omosessuali, che però nella Commedia sono definiti ermafroditi. Se per Dante l’amore sregolato è il peccato, tale non è un amore vissuto con misura. In ciò egli è coerente con buona parte della trattatistica moralistica del tempo che era raramente sessuofobica e tendeva a essere comprensiva verso una sessualità vissuta con ragionevolezza.

Ma non è solo per questo che Dante dona centralità all’amore. Egli è stato un poeta d’amore che ha innovato la lirica erotica creando quello che lui stesso, nel canto XXIV, definisce “dolce stil novo” (in realtà lo nomina l’anima del poeta lucchese Bonagiunta). Oltre a uno stile dolce e soave, il poeta d’amore è colui che scrive sotto dettatura di questo grande sentimento, che Dante conosce sin da giovanissimo, quando s’innamora di Beatrice.

Dante ha il merito di non concepire l’amore in modo drammatico o distruttivo (come il suo maestro Guido Guinizzelli, incontrato nel canto XXVI o Guittone), come una forza che può portare anche alla morte. Dante vuole anzi nobilitare l’amore affermando che, se esso è diretto vero una donna nobile e onesta, può condurre l’uomo alla beatitudine, come accadrà a lui grazie a Beatrice (da qui il nome Beatrice). Certo, anche l’amore verso una donna con tratti celestiali è sconvolgente e appassionante: Dante era consapevole della forza sovrabbondante del desiderio e da grande intellettuale qual era ha accettato questa forza, non l’ha denigrata, ma ha cercato di nobilitarla.

Nella Commedia questa concezione dell’amore viene ulteriormente sviluppata poiché si trasforma: da sentimento terreno, diventa caritas, ardore di carità, amore verso Dio; nondimeno, sebbene esso abbia un carattere celeste, non è meno forte dell’amore che si prova sulla terra verso qualcuno: anche l’amore verso Dio non perdona che chi è amato non riami a sua volta, anche tale amore si accende nell’animo del fedele come un fuoco incontrollabile, anche l’amore verso Dio sconvolge l’anima.

Queste espressioni richiamano i celebri versi del canto V dell’Inferno: la colpa della sventurata Francesca era aver definito il suo amore adultero con gli stessi caratteri di irresistibilità e forza che ha l’amore verso Dio. Francesca lo faceva per difendersi, affermando di non aver saputo resistere; Dante la compiange perché in parte la capisce, ma soprattutto perché la donna non aveva saputo superare il carattere sensuale del sentimento e si era fatta del tutto ghermire da lui, amando un uomo, Paolo, che non avrebbe dovuto amare essendo suo cognato. Se ella si fosse pentita, non sarebbe finita all’inferno, bensì in purgatorio e si sarebbe salvata.

Diversa la vicenda di un’altra donna Pia dei Malavolti, la cui anima Dante incontra nel canto V del Purgatorio. Anche lei fu uccisa dal marito, ma non per adulterio, bensì perché l’uomo, Nello d’Inghiramo dei Pannocchieschi, voleva sposare un’altra donna. Pia ormai non prova odio, perché è salva e preferisce ricordare la felicità provata il giorno delle nozze anziché il giorno della morte.

Il compito dell’amore terreno è quello di preparare l’uomo alla beatitudine. E ciò può accadere solo se si ama una creatura dotata di quelle qualità definita dal verso iniziale di un altro sonetto della Vita nuova: Tanto gentile e tanto onesta pare. La donna amata deve essere gentile (ossia di animo nobile), onesta (decorosa nell’aspetto e nel vestire).


Dante nell’Eden (canti XXVII-XXXIII)

Dopo i lussuriosi, Dante attraversa, grazie a Virgilio e assieme a Stazio, la barriera di fuoco che Dio (cfr. la Genesi) ha posto tra il purgatorio e il paradiso terrestre. Una volta nell’Eden, Dante è abbandonato da Virgilio: il poeta latino rappresenta la ragione umana, la quale non può guidare l’uomo verso Dio. D’altra parte, Dante ha visitato tutto l’inferno e tutto il purgatorio: gli sono state cancellate le sette “P” dalla fronte e, dunque, come dice Virgilio, egli è ormai padrone di sé stesso.

Guidato da Matelda, una donna bella e misteriosa, Dante si gode il paesaggio meraviglioso dell’Eden finché… be’, finché non appare Beatrice. E allora si può fare un po’ di gossip sulla vita di Dante. Nel libro III della Vita nuova, l’opera scritta in gioventù in cui racconta il suo amore per lei, Dante narra che egli rivede Beatrice a diciotto anni, nove anni dopo averla incontrata la prima volta da bambino. Ebbene, quando Dante rivede Beatrice, lui è ancora uno sbarbatello, lei invece, pur giovane, è una donna sposata e probabilmente ha già dei figli. In quel momento, accade un fatto straordinario: Beatrice, che cammina assieme a due donne più anziane ed è vestita con una veste bianca, simbolo di purezza, lo saluta. Il nostro tocca allora il cielo con un dito; anzi, come dice lui con maggiore finezza: “me parve allora vedere tutti li termini della beatitudine” (par. 1).

Dopo di ciò, Dante corre nella sua cameretta, s’addormenta e sogna. Vede Amore che gli dice che da quel momento in poi lui sarà il suo Signore. Amore tiene fra le braccia Beatrice: ella è nuda, ha una veste colore del sangue; su indicazione di Amore, “la donna de la salute”, mangia il cuore del poeta. Beatrice lo mangia con timidezza e, dopo averlo fatto, non è più lieta ma piangente. Amore la tiene fra le sue braccia e sparisce verso il cielo.

Nel Purgatorio, canto XXX, sorgendo da sotto un carro trainato da un grifone, simbolo della Chiesa, Dante vede salire una miriade di angeli festanti che circondano una figura femminile che scende dal cielo con un velo che le copre parte del volto e il capo. La donna indossa un mantello verde e una vesta del colore della fiamma: si tratta di Beatrice, che è ora una creatura del cielo. Dante reagisce come un uomo innamorato, perché è ancora un individuo in carne ed ossa ed è cotto di Beatrice sin da quando aveva nove anni. Se era innamorato della Beatrice umana, figuriamoci se non lo è della Beatrice creatura celeste.

Nell’Eden il nostro, ben prima di vedere Beatrice, va in panico e vive le medesime sensazioni che ebbe in gioventù quando fu invitato da un amico in un luogo dove erano adunate molte persone. A un certo punto il nostro poeta, che se ne stava bello tranquillo, avverte uno sconvolgimento totale perché, pur non avendola ancora vista, “sente” che Beatrice è presente nella casa. Prima ancora di vedere la donna amata, lui va in panico (Vita nuova, XIV.4).

La stessa cosa accade alle soglie del paradiso ed è bello questo parallelo tra biografia del poeta e vicenda narrata nella Commedia. Nel canto XXX lui scrive che, presentendo la presenza di Beatrice nell’Eden: “E lo spirito mio … / d’antico amor sentì la gran potenza” (vv. 34-39) e poi ai vv. 46-48 rivolto a Virgilio per chiedere aiuto (che nel frattempo è sparito): “conosco i segni del’antica fiamma”. Ancora oggi noi usiamo la parola “fiamma” per indicare un partner.

Beatrice non appare a Dante per dargli il benvenuto, bensì per bastonarlo. Lui ha appena salutato definitivamente Virgilio e piange perché il suo amato Virgilio e se ne va. Ma Beatrice gli dice che sono ben altre le cose per cui dovrebbe piangere perché Beatrice è molto arrabbiata con lui. E lo chiama per nome, “Dante” al v. 55, è l'unica volta nella Commedia appare il nome del poeta perché, quando ci si confessa è necessario enunciare il proprio nome. E qui si inscena un vero e proprio processo a Dante. Beatrice è davvero molto rigorosa, come una mamma arrabbiata col figlio.

L’accusa principale che lei muove al poeta è quella di averla dimenticata: una volta che lei è morta, lui ha smesso di seguire la strada che lei gli indicava, la via verso la beatitudine, e si è dato ad altro tanto da cadere nel peccato e da ritrovarsi nella famosa selva. Dante viene colpito moltissimo da questi rimproveri che lui accetta come un figlio colpevole, ma piange, sviene, non riesce a parlare. Addirittura, a un certo punto, gli angeli dicono a Beatrice: perché lo strapazzi tanto? E lei ribatte: voi siete abituati a guardare Dio per l’eternità e siete senza peccato, ma lui ha bisogno di essere strapazzato, perché deve confessare le sue colpe con la sua voce. Perché è ovvio che Beatrice, che è una donna del cielo, conosce già le colpe di Dante. Dio conosce le colpe dell'uomo, ma solo se l'uomo le confessa autonomamente, può essere perdonato. Questo esame di coscienza lo dovrebbe fare ogni uomo che legge la Commedia per riconoscere i propri errori e redimersi. Dante scrive per tutti noi, non solo per lui stesso, e vuole prendersi carico delle nostre colpe. Non bisogna scordare che nell’Eden, davanti agli angeli, alla processione mistica e a Beatrice, che è un’inviata del cielo, non c'è solo il Dante uomo, ma c'è l'intera umanità perché Beatrice è simbolo di Cristo e Dante è simbolo dell'umanità.


Le colpe di Dante

Come mai Dante fa questa sorta di autoanalisi in cui si imputa di aver peccato, in cui fa dire a Beatrice: “perché tu, che eri nato sotto una congiunzione astrale favorevole e che avevi ricevuto da Dio enormi talenti, hai sprecato questi talenti per perseguire attività che non lo meritavano?”. Forse Dante imputava a sé stesso di aver amato altre donne per trovare sollievo dopo la scomparsa di Beatrice; in effetti, nella Vita nuova lui scrive che dopo la morte della donna egli ha cercato consolazione presso una donna gentile; però alla fine dell’opera, Dante dichiara di essere “tornato” ad amare Beatrice e a celebrarla e difatti ha una visione in cui la vede salire in cielo circondata d'angeli, un po' come l'immagine che abbiamo qua in purgatorio.

In realtà, senza stare a lambiccarsi il cervello, si potrebbe tornare alla Vita nuova per capire di cosa Dante si sentisse colpevole. Alla fine dell’opera, Dante scriveva: “Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. Dante alla fine della Vita nuova promette di scrivere in futuro un’opera per celebrare adeguatamente Beatrice. Ecco la colpa di Dante, simbolo di ogni altra colpa: dopo più di quindici anni dalla conclusione della sua opera giovanile, non aver ancora adempiuto alla promessa solenne di celebrare la gloria di Beatrice e la Commedia è proprio l'opera grazie alla quale Dante riesce a mantenere quella promessa.

Una volta confessate le proprie colpe, Beatrice attribuisce a Dante la missione di raccontare fedelmente agli altri uomini quel che ha visto il purgatorio. Ora Dante può accedere ai riti di purificazione: accompagnato da Matelda, beve l'acqua del fiume Lete che cancella il ricordo delle tendenze peccami. Poi beve l'acqua di un altro ruscello, l’Eunoè, che restaura il ricordo delle buone azioni. Dante è tornato puro come quando era nato: la purificazione dell'anima che si appresta ad andare in paradiso è una seconda nascita. Dante adesso è quindi pronto a salire in paradiso: “puro e disposto a salire ale stelle” (canto XXXIII).


sabato 11 gennaio 2025

"Nebbia" romanzo di Miguel de Unamuno


Nebbia (titolo originale: Niebla) è un romanzo scritto da Miguel de Unamuno, pubblicato nel 1904. È un'opera che si distingue per la sua originalità e per il suo approccio filosofico alla letteratura, fondendo elementi di narrativa tradizionale con una riflessione profonda sulla vita, la morte, l'identità e il destino umano.

Il ricco e giovane Augusto Pérez vive in una sorta di "nebbia" esistenziale, una condizione di smarrimento e indecisione che lo rende incapace di trovare un vero senso alla propria vita: “Noi uomini non siamo soggetti né alle grandi gioie né ai grandi dolori, perché queste gioie e questi dolori ci giungono avvolti in un’immensa nebbia di piccoli eventi. E la vita non è altro che questo, nebbia”.

Augusto è un giovane intellettuale di classe media che si sente alienato dal mondo che lo circonda. La sua esistenza, inizialmente monotona, si complica quando incontra una donna, Eugenia, che lo fa innamorare e lo spinge a riflettere sulle sue scelte esistenziali.

Il romanzo si sviluppa attraverso i pensieri e le azioni di Augusto, che, in un continuo dialogo interiore e con gli altri personaggi, si interroga sul suo posto nel mondo. Unamuno gioca con la percezione della realtà, creando situazioni che si rivelano essere incerte e ambigue. Fin qui ci sono alcune somiglianza con La coscienza di Zeno di Italo Svevo. La storia prende però una piega inaspettata quando Augusto decide di mettere in discussione la sua stessa esistenza e quella dei personaggi che lo circondano, arrivando a una riflessione meta-letteraria sul ruolo dell'autore e dei suoi personaggi.

Il romanzo racconta una storia d’amore, ma anche una storia dell’angoscia e della noia di un personaggio che incarna un alter-ego non solo dell’autore, bensì di tutta l’umanità. Tanto è vero che a un certo punto, il personaggio e l’autore si conoscono, hanno un dialogo drammatico, in cui il personaggio, deluso dall’amore, afferma che ha intenzione di suicidarsi e l’autore gli dice che non potrà farlo, perché sarà lui a farlo morire, come in effetti avverrà. Questa situazione fa crollare la classica struttura del romanzo, costringendo il lettore a domandarsi chi sia realmente l’autore e chi sia invece il personaggio dell'opera. Qual è la finzione, quale la realtà? «La mia vita è un romanzo, una novella … o che altro ancora? Tutto quello che succede a me, e a quelli che mi stanno intorno, è realtà o finzione? Non sarà forse un sogno di Dio o di chissà chi, che svanirà nel nulla quando Lui si sveglierà? E non sarà per questo che Gli dedichiamo cantici e preghiere, per continuare a farlo dormire, per conciliargli il sonno?”. E ancora«Io per lo meno posso dirti che per quanto mi riguarda, uno dei momenti in cui provo più vergogna è quando resto da solo a guardarmi allo specchio, e nessun altro mi vede. Finisco col dubitare della mia stessa esistenza, e siccome non riesco a riconoscermi, immagino di essere un sogno, un’entità immaginaria...».

Alla vigilia della Prima guerra mondiale, con questo libro de Unamuno esprime l’angoscia della società, dei suoi elementi più evoluti, mettendo in scena una sorta di teatro dell’assurdo, creando una storia che, iniziata come un romanzo classico (con trama, personaggi, sentimenti), implode su sé stessa, si sfilaccia per dimostrare quanto sia sfilacciata e insensata l’esistenza. Il senso di disorientamento e di sconfitta del personaggio è quello dell’umanità, che vive una crisi di identità esistenziale.

L’autore però ha la speranza e la fede che l’uomo possa mutare. Si tratta di una fede religiosa dove il dubbio ha una parte essenziale, ma nella quale l’incertezza sono è fine a sé stessa, bensì aperta alla costruzione di qualcosa, a una speranza. «E pensare è dubitare, nient’altro che dubitare. Si crede, si sa, si immagina senza dubitare; né la fede, né la conoscenza, né l’immaginazione prevedono il dubbio, e il dubbio addirittura le distrugge: ma non si pensa senza dubitare. Ed è il dubbio che trasforma la fede e la conoscenza, che sono qualcosa di estatico, di placido, di morto, in pensiero, che è invece qualcosa di dinamico, di inquieto, di vivo».

 Una delle caratteristiche più sorprendenti di Nebbia è il suo stile, all’epoca altamente innovativo, che rompe con le convenzioni narrative tradizionali. Per certi versi, esso anticipa le esperienze di Joyce, Wolf e Svevo, dando forma al flusso di coscienza, unito all’atteggiamento disincantato del protagonista. Il romanzo è strutturato in forma di dialoghi tra i personaggi, ma anche in forma di monologhi interiori del protagonista. Questi monologhi si alternano a riflessioni filosofiche che spaziano dalla libertà individuale all'idea di morte e di destino.

De Unamuno introduce anche il concetto di "punto di vista" come una riflessione sulla realtà e sull'illusione. La "nebbia" che permea la vita di Augusto simboleggia l'incertezza e l'irrazionalità dell'esistenza umana. Il romanzo solleva domande profonde sull'identità, il libero arbitrio e la condizione umana, sfidando il lettore a confrontarsi con i propri dubbi e le proprie incertezze.

Un altro aspetto importante dell'opera è la critica alla società dell'epoca, e al contempo una riflessione sull'individuo come essere isolato, incapace di connettersi pienamente con gli altri e con il mondo circostante. Le difficoltà e le angosce di Augusto sono specchio delle sue lotte interiori e della sua ricerca di significato in un mondo che appare privo di certezze. L’autore riassume tali angosce con una riflessione leopardiana: “Quasi tutti gli uomini si annoiano inconsapevolmente. La noia è il fondo della vita, ed è la noia che ha inventato tutti i giochi, le distrazioni, i romanzi e l’amore. La nebbia della vita trasuda una dolcissima noia, agrodolce liquore”.

Il compito del romanziere, dell’intellettuale, è quello di smascherare l’insensatezza dell’esistenza, la follia dell’uomo, il suo credersi padrone del proprio destino. La denuncia della gratuità assoluta della vita non è fine a sé stessa, ma è un modo per delineare la possibilità di una rinascita. Ecco perché, scrivendo una nota al romanzo vent’anni dopo la sua pubblicazione, l’autore denuncia l’idiozia imperante, che si concretizzava in un atteggiamento comune che portò l’umanità verso la guerra mondiale (e che, pochi anni dopo, l’avrebbe condotta verso un’altra guerra): “L’essenza del puro idiota sta nel fatto che egli non sospetta minimamente di essere un idiota, si crede in buona fede furbo, e quanto più grande è l’idiozia che ripete – perché le idiozie non si dicono, ma si ripetono soltanto – tanto più si convince di enunciare una profonda verità. Per questo il puro idiota è idiota positivo e aggressivo e offensivo, al contrario dell’idiota spurio, che resta sempre negativo e difensivo.

Sono parole che andrebbero bene anche per i tanti leoni da tastiera di oggi, per i tanti che, dietro (l’apparente) anonimato di un social network, pontificano su qualunque argomento, pur senza sapere nulla, e si credono i più furbi e i più intelligenti, i soli in grado di conoscere quelle “verità” che qualcuno (i poteri forti, il “sistema”…) nasconde alla massa degli ingenui.

Nebbia è un romanzo filosoficamente ricco e stilisticamente audace, che continua a stimolare il dibattito tra i lettori e gli studiosi. La sua riflessione sulla condizione umana e sulla relazione tra l'autore e i suoi personaggi lo rende un'opera molto più di una semplice narrazione. La capacità di Unamuno di mescolare la filosofia esistenziale con la narrativa, creando un testo che sfida le convenzioni e le aspettative, fa di Nebbia un capolavoro della letteratura del XX secolo.

Se siete interessati a un'opera che esplora le profondità dell'animo umano e la natura stessa della realtà, Nebbia è una lettura imprescindibile che può dire moltissimo anche all’umanità di oggi.

martedì 26 settembre 2023

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

 

Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, famiglia, patria, casa, “pianeta” (come lo chiama lui) LGBT e animalismo. Perché questo titolo? “Il Mondo al contrario vuole […] provocatoriamente rappresentare lo stato d’animo di tutti quelli che, come me, percepiscono negli accadimenti di tutti i giorni una dissonante e fastidiosa tendenza generale che si discosta ampiamente da quello che percepiamo come sentire comune, come logica e razionalità” (p. III dell’introduzione). L’autore esprime un pensiero conservatore, molto legato alla necessità del rispetto delle tradizioni e della legge, che non appare perciò perfettamente adattabile a una destra italiana che negli ultimi anni, e in maniera paradossale, ha espresso una certa allergia alle regole: si pensi al caso della vaccinazione obbligatoria sul Covid, osteggiata da molte persone che si dichiaravano di destra.

A proposito del titolo, sorge spontanea una domanda più generale: come mai, con la destra saldamente al governo, molte persone che aderiscono a questo universo politico si sentono ancora minoranza? Perché, pur avendo in mano la RAI (oltre a Mediaset), queste persone protestano contro un preteso “pensiero unico” o una ideologia “mainstream” che li escluderebbe dal dibattito politico o, peggio, li demonizzerebbe? Perché essi pensano che, nonostante il governo Meloni e i tanti anni di berlusconismo, l’establishment di questo paese sia ancora in mano a una cultura che, se non è più definibile di sinistra, veicolerebbe un’ideologia che esclude qualsiasi dissenso a una narrazione della storia e del reale affermata come l’unica verità. Essi pensano che sui temi storici (per esempio sul rapporto tra fascismo e Resistenza) ed etici ci sia un pensiero maggioritario che impedisce qualsiasi diversa interpretazione, non accettandola come legittima, bensì demonizzandola. Questa idea, che Vannacci nel suo libro esprime in modo un po’ raffazzonato, è invece ben definita da Marcello Veneziani che su “La verità” del 23-9-2023 scrive: “Un diverso ascolto, una diversa apertura verso chi ha opinioni contrarie gioverebbe non solo alla società, svelenirebbe il clima ma riuscirebbe anche a sgonfiare il potenziale di rabbia che poi monta davanti al disprezzo altrui e alla richiesta permanente di censura verso chi dissente. Lo dicevo già anni fa: se volete smontare le post-verità mettete da parte le pre-falsità, ovvero i pregiudizi falsi prefabbricati a senso unico che spacciate sui temi storici, civili, culturali e sociali.”

Questa premessa è indispensabile per comprendere il successo del libro di Vannacci, il quale, probabilmente in maniera inconsapevole, intercetta un pensiero di destra che, dopo decenni di anticamera, vorrebbe entrare nelle stanze del potere, ma che pensa di non poterlo fare a causa di un potere che sarebbe al di sopra della lotta politica e risponderebbe a logiche europeiste e transnazionali asservite all’economia e a un’ideologia progressista che vorrebbe mutare consuetudini vecchie di secoli.

Per tornare al libro, ecco alcuni caratteri che mi sembrano tipici delle sue argomentazioni.


Semplificazione e banalizzazione

L’autore analizza con un apparente imparzialità e a volte con blanda acutezza talune questioni (a parte quando parla dei gay); poi, una volta esposto il problema, al momento di proporre le soluzioni e di denunciarne le cause, sbraca totalmente e perde la testa: il vizio di semplificare porta l’autore a banalizzare e talvolta a brutalizzare le questioni affrontate. Il furore ideologico e il fastidio verso tutto ciò che è diverso da lui lo conduce a mandare in vacca qualsiasi argomento, proponendo soluzioni facili che, naturalmente, avrebbero l’unico effetto di non risolvere il problema, anzi di acuirlo. Per esempio, a proposito dei gay, Vannacci afferma di opporsi al DDL Zan perché non ritiene le offese a una persona in virtù del suo orientamento sessuale più gravi di quelle a lei indirizzate per la squadra di calcio di cui la è tifosa o per il lavoro che svolge. Come al solito, semplifica e banalizza: “Gridare ‘gay di merda’ è altrettanto odioso e discriminatorio che gridare “interista di merda”, “operaio di merda”, ‘uomo di merda’, ‘poliziotto di merda’, ‘professore di merda’. Molti sedicenti giuristi sostengono che il delitto d’odio nei confronti di una certa categoria di persone deve essere considerato più grave perché chi lo commette ottiene l’effetto che tutte le persone appartenenti alla minoranza individuata (i neri, le donne, i mussulmani, gli omosessuali o i transessuali) si sentano minacciati e vivano, per questo, in uno stato di perenne paura e sottomissione. Ma proprio secondo lo spirito dei crimini contro l’eguaglianza, anche le categorie degli interisti, degli operai, degli uomini, dei poliziotti o dei professori” (pp. 282-283). Insomma, Vannacci paragona un gay a un tifoso di una squadra di calcio e sostiene che offendere una persona per la sua fede calcistica, che è qualcosa di esteriore e superfluo, equivale a offenderlo per il suo orientamento sessuale, che è invece una pulsione intimamente connessa con la propria interiorità.

Lo stesso meccanismo di esagerazione e falsificazione della realtà e di assolutizzazione di un fatto occasionale, si trova in questa frase: “Basta accendere una TV per vedere una pletora di commentatori, conduttori e opinionisti dichiaratamente queer che si alternano incessantemente sul tubo catodico quasi come se l’appartenenza ad una categoria di persone che esprimono esplicitamente una preferenza sessuale minoritaria dovesse favorire gli ascolti. Ormai sono moltissime le serie televisive, gli spot, i video o i clip dove prolificano baci saffici e che vedono quali protagonisti lesbiche e gay, famiglie omosessuali o coppie dello stesso sesso che conducono vite da bourgeois bohème in una delle nostre metropoli alla moda” (p. 246). Ora, quale TV vede Vannacci? Sulla RAI, normalizzata dalla destra al governo, quali sarebbero i conduttori queer? Per quanto riguarda le serie televisive, si tratta di iniziative di privati che vengono viste da chi sceglie di fare un abbonamento. Se al generale danno fastidio, non faccia l’abbonamento e non le guardi. Vannacci presenta ai suoi lettori un fatto non verificabile spacciandolo per verità assoluta (quanti conduttori queer ci sono e quante e quali sono le trasmissioni che esaltano l’omosessualità? Sono davvero così tante?) per giungere alla conclusione che la società italiana è invasa da sostenitori dell’ideologia gender.

 Ossessione verso la sinistra

Per ogni questione, l’autore individua come colpevole politico la sinistra (suo costante obiettivo polemico), giudicata, secondo il solito luogo comune, popolata da intellettuali verbosi e fighetti. Mentre il colpevole sociale di quasi tutti i problemi è la mescolanza tra i popoli. Per esempio, parlando delle occupazioni abusive, un fenomeno senza dubbio odioso, l’autore se la prende solo con la sinistra e con il sindaco di Roma, Gualtieri, che guarda caso è del PD, e non cita mai, per esempio, le occupazioni di Casa Pound, l’organizzazione politica di destra, né cita sindaci di città governate dalla destra: “Tra questi soggetti, abituati al doppiopesismo caro a molte frange progressiste, sembrerebbe rientrare pienamente il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e la sua giunta che, non solo chiudono gli occhi, ma concedono pacificamente la residenza a chi occupa abusivamente uno stabile o vive senza titolo in un alloggio popolare”, scrive a p. 176.  Altro esempio: nel capitolo sugli omosessuali, l’autore, presentando alcuni rari casi di immigrati che si sono dichiarati “gay” per non essere rimpatriati, riesce ancora a incolpare anche in questo caso i migranti e la sinistra, nella persona del sindaco di Roma Gualtieri che avrebbe concesso dei privilegi agli immigrati LGBT (p. 261). Non c’è niente da fare: per Vannacci, in un modo o nell’altro, tutti i guai della nostra epoca sono sempre e comunque imputabili agli immigrati e alla sinistra. Egli, in questo modo, crea un bersaglio polemico contro cui sfogare il proprio risentimento e la propria frustrazione di vivere in un mondo che non è più quello di Vannacci family, dell’infanzia di Vannacci e degli ideali di Vannacci.

La sinistra è anche colpevole di gettare discredito sul concetto di “patria”, colpendo i suoi simboli, come l’inno di Mameli che qualcuno ha proposto “di sostituir[e] con le zingaresche note della ballata di “Bella Ciao” (p. 224). A parte che Bella ciao celebra la liberazione dal fascismo, cioè da un regime che non avrebbe concesso a Vannacci la libertà di scrivere quel che scrive, definirla “zingaresca” è un atto razzista e anche inquietante, poiché giunge da un generale che ha giurato sulla Costituzione democratica nata anche dalla lotta contro il nazifascismo. Naturalmente, quando parla di patria l’autore va in orgasmo, ma, come dire, lo si può comprendere. Sentiamolo: “L’Europa non sostituirà mai la mia bella Italia che preferisco, nel bene e nel male, a qualsiasi altro paese solo per il fatto di sentirla mia e frutto, anche solo marginalmente, di quanto tutti i miei avi abbiano fatto negli anni passati. Ideale che rimane immutato anche al variare della politica perché a combattere e a rischiare la pelle per i preminenti interessi della mia Nazione mi ci hanno spedito sia governi di destra che di sinistra e non ho mai avuto alcun dubbio che la cosa giusta da fare fosse quella di prendere zaino ed armi e tenere fede, con la massima integrità, al giuramento prestato in nome del mio onore ed in nome della difesa della mia Patria” (p. 219). A proposito di amor di patria e orgoglio nazionale, perché l’autore non ricorda che oggi governa un partito, la Lega, che fino a pochi anni fa lanciava melma sul gran parte degli italiani, sognava la secessione e considerava criminali personalità come Garibaldi o Mazzini? Pertanto, il discorso sull’amor di patria, Vannacci dovrebbe rivolgerlo a uno dei partiti a cui lui sembra più vicino e che, si dice, vorrebbe candidarlo alle prossime elezioni.

 Idolatria di ciò che è naturale

L’autore afferma di voler combattere un modello sociopolitico in cui tutti i valori in cui egli crede sarebbero messi in discussione, per proporre un modello in cui nessun valore può essere messo in discussione; secondo lui, il fondamento di una norma, di una legge risiede nel loro essere stati validi per lungo tempo, per tradizione o secondo natura. È questo un caso di naturalismo etico; per esempio, l’autore difende (ma da cosa?) la famiglia “tradizionale” con queste parole: “La stessa tipologia di famiglia, bisogna ammetterlo, ha assicurato la sopravvivenza e la prosperità della specie umana per millenni, almeno in occidente ed in tanti altri posti al mondo in cui si sono adottati, con le varianti del caso, modelli familiari molto simili al nostro. Un’istituzione vincente, dunque, sicuramente perfettibile, come tutto, ma indubbiamente e oggettivamente efficace” (p. 186).

Il modello “tradizionale” di famiglia non nasce con la comparsa dell’uomo sulla terra, come sostiene Vannacci; parlando in generale, si può dire che la famiglia ha subito nei secoli diversi mutamenti, perché nell’antichità romana essa era intesa come famiglia allargata e comprendeva anche la servitù, gli schiavi liberati e i figli adottati. Oltre a ciò, il pater familias aveva potere assoluto su moglie, figli e schiavi. Questo modello familiare muta solo in parte tra Medioevo e in età moderna perché, soprattutto in ambito rurale, la famiglia è ancora “allargata” e coinvolge tutti i suoi componenti nei lavori agricoli. Nelle città, invece, la famiglia è più ristretta, ma anche in quel caso non esiste un modello univoco, poiché ci sono differenze tra le famiglie nobili e quelle dei lavoranti o dei mercanti, dove spesso tutti i membri sono coinvolti nelle attività, sebbene esse non riguardino la terra bensì il commercio o l’artigianato. Durante l’800 si afferma un modello di famiglia maggiormente legato all’attività industriale e nelle città, la famiglia operaia, spesso numerosa, vede impiegato nella fabbrica non solo il capofamiglia, ma anche la moglie e poi i figli. Prosegue quasi immutato invece il modello di famiglia contadina, mentre nella famiglia borghese dei ceti sociali più alti in genere lavora solo il padre (magari in ufficio o come imprenditore) e la donna si dedica esclusivamente alla crescita dei figli. Questo modello “borghese” è stato profondamente modificato negli ultimi cento anni, poiché è progressivamente cresciuto il numero delle donne lavoratrici ed è stata soppressa la figura del capo-famiglia, ridistribuendo le responsabilità e i diritti tra i coniugi. Dunque, non esiste un modello di famiglia “tradizionale” e perciò non può essere messo in pericolo proprio perché la famiglia, come ogni costruzione umana, muta profondamente.

Ma sì, l'autore ribatterebbe asserendo che lui intende sostenere che per costruire una famiglia e fare figli, è necessaria da sempre l’unione tra un uomo e una donna. Anche qui sbaglia e deve rassegnarsi perché al giorno d’oggi non è vera nemmeno questa cosa. La possibilità di avere figli prescindendo dall’unione fisica tra sessi diversi è ormai una realtà che va accettata; a Vannacci può non piacere, ma perché lui vuole impedire ad altri di impiegare questa possibilità prevista dalla legge? Perché vuole impedire ad altri di esercitare un diritto che non lede i suoi, di diritti, e che non riguarda la sua sfera personale di individuo eterosessuale che ha avuto figli in modo tradizionale? Cosa cambia per lui se una donna usa la fecondazione in vitro o l’eterologa? Cosa cambia per lui se due gay si sposano? Perché vuole imporre agli altri un modello etico proprio quando lui è il primo a protestare contro chi vorrebbe imporre a lui e ad altri l’accettazione di determinati comportamenti? Si potrebbe infine osservare con malizia che i leader politici di quei partiti cui Vannacci appare vicino vivono tutti, legittimamente, in famiglie non tradizionali. 

Accettare ciò che è naturale come criterio per attestate la giustezza di un valore o di un atto, è un atteggiamento ingenuo, perché anche le malattie, le alluvioni e le catastrofi sono cose naturali, eppure noi le combattiamo. Dunque, ciò che è naturale non va sempre bene, dipende dalle conseguenze esso produce e perciò la naturalità di un comportamento non può essere assunta come un valore.

Vannacci non ne è consapevole di sicuro, ma proprio la dottrina nazionalsocialista si opponeva alle dottrine considerate rivali e alle religioni accusandole di aver allontanato l’uomo tedesco dalla natura e dalle sue leggi, obbligandolo a vivere un’esistenza non adeguata a lui e che spegneva tutte le sue più autentiche pulsioni: “Tutto questo era naturale. L'ordine, un tempo, era appropriato e degno. Rispettava le leggi della natura. Non come oggi, quando tutto avviene contro le leggi della natura” (parole del capo delle SS Heinrich Himmler, citate nel celebre libro di J. Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Einaudi, Torino 2016, p. 193).

L’autore nondimeno non sente ragioni e inanella una serie di errori storici che farebbero sorridere uno studente delle medie: “Sono convinto che nulla nasca per caso e se la famiglia esiste da millenni sotto la forma tradizionale un motivo ci sarà. Il nucleo familiare esiste da quando l’uomo esiste [falso, ovviamente]. Senza scomodare gli antropologi sappiamo che l’unione di un uomo e una donna ha garantito il prosperare della specie umana, la sua evoluzione e il suo benessere. All’origine non vi è stato alcun inventore del nucleo familiare, non esiste alcun copyright o, almeno, non ve ne è traccia all’ufficio brevetti. È stata semplicemente l’espressione della Natura che, attraverso i severi processi di selezione e adattamento ha individuato l’organizzazione più efficace per garantire la sopravvivenza della specie” (p. 188). Partendo da questi presupposti, ogni comportamento che non segue la sua idea è per l’autore “contro natura”: “[i gay] si inventano il ‘diritto alla genitorialità’ e giustificano pratiche come l’utero in affitto per soddisfare i desideri biologicamente contronatura delle coppie arcobaleno” (p. 191). A chi gli fa notare che in natura esistono esempi, seppure meno diffusi, di unioni non tradizionali, l’autore risponde derubricandole a eccezioni che confermano la regola, dimenticandosi che anche questi sono comportamento “naturali”, voluti da quella “madre natura” che lui nomina quasi fosse un vero e proprio essere vivente. Peccato che, parlando del rapporto tra uomo e ambiente, l’autore riconosca che nessuna etichetta morale è applicabile ai fatti naturali: “la Natura non ha pulsioni umane né sentimenti. Il leone non è cattivo perché sbrana la gazzella. La Terra non ci vuole male perché ci inghiottisce nella lava di un’eruzione vulcanica” (p. 13).

A parte il fatto che oggi la famiglia “tradizionale” non è messa in discussione da nessuno e che, anzi, è difesa da forze politiche che hanno governato quasi ininterrottamente questo Paese dal 1994, l’autore dimostra di essere un uomo che pretende di obbligare gli altri a vivere secondo le sue idee. È bello sapere che lui ha avuto una famiglia perfetta, ma non tutte le famiglie sono tali: non è necessario citare Tolstoj sulle famiglie infelici, però è necessario ribadire che l’autore esprime una posizione pericolosa, perché pretende di imporre agli altri come amare, come vivere, come costruire la propria famiglia e la propria vita. Per difendere il suo modello di famiglia, egli, come detto, si appella alla legge di natura, attribuendo all'aggettivo "tradizionale" un significato etico forte per attribuire valore assoluto a comportamenti che si richiamano alla consuetudine: “Dalla transizione sessuale alla propaganda anti-famiglia tradizionale, tramite le proposizioni di improbabili modelli di famiglie allargate multietniche, multigenitoriali, multiorientate e inclusive per antonomasia gli attacchi rivolti soprattutto al pubblico giovane ed inesperto sono a dir poco continui. D’altra parte, i tentativi fatti negli anni Settanta dalla generazione dei figli dei fiori caratterizzati dal libertinismo assoluto non sembrano aver conseguito ragguardevoli risultati. Ancora una volta è la Natura a prevalere. Ancora una volta quel concetto di famiglia definito 'vecchio stampo' oggetto di tante critiche e disapprovazioni si è rivelato un modello efficace” (p. 209).

Poste queste argomentazioni, l’autore nega che esista un “diritto alle genitorialità” basato su motivazioni affettive. E come argomenta questa negazione di tale diritto? Ancora una volta appellandosi a ciò che secondo lui sarebbe naturale e dunque giusto; nell’intento di negare la valenza etica della genitorialità e di ridurla a un puro fatto di natura, Vannacci giunge addirittura ad animalizzare l’uomo, rendendolo di fatto una bestia, tacendo tutto il complesso di relazioni affettive e sentimentali che l’umanità ha sviluppato a partire da un impulso naturale: “L’opzione di procreare, quindi, più che un diritto verrebbe definita un privilegio riservato ai pochi che, più di altri, danno dimostrazione di quelle caratteristiche irrinunciabili a fare progredire la specie. Una vera e propria élite che si guadagna spesso a suon di cornate, lotte, morsi, calci e lunghe azzuffate il privilegio di mettere al mondo un altro esemplare della propria varietà. La Natura, quindi, ragiona proprio con una logica opposta a quella che vorrebbe imporre il concetto di “diritto alla genitorialità” che, in quanto tale, dovrebbe essere invece esteso senza alcuna discriminazione ad ogni elemento della società umana” (p. 195).

Da queste posizioni alla messa in discussione di aborto e divorzio il passo è breve; ma quello che traspare dalle sue idee è un rimpianto, nemmeno troppo nascosto, per il bel tempo felice in cui i papà lavoravano e le donne stavano a casa a crescere i figli: “Se c’è una cosa che non mi convince né da un punto di vista sociale né sotto il profilo economico è il modello ritenuto quasi obbligatorio dei servizi per l’infanzia. In essenza, non capisco perché una donna o un uomo dovrebbe andare necessariamente a lavorare per poi essere obbligati a spendere buona parte di quanto guadagnano per il pagamento di questi servizi” (p. 200) aggiungendo che “è chi si realizza nel lavoro, chi solo nella famiglia, chi ha bisogno di entrambe le cose ma in proporzioni diverse e, per fortuna, sono ancora in molte le donne che non considerano l’autorealizzazione incompatibile con la gravidanza e con la nascita di un figlio. Quello che fa la differenza oggi è la retribuzione. I genitori lavorano per necessità e non per scelta, almeno in Italia. La drastica diminuzione della natalità è anche dovuta a questo perverso meccanismo” (p. 203).

Bene, dopo aver detto che lui ha avuto una famiglia tradizionale bella e felice, con il papà che lavorava ed era poco presente e con la mamma casalinga, ma capace di crescere quasi da sola, tre figli e dopo aver assicurato che anche i suoi amici hanno avuto famiglie felici e hanno vissuto nel Mulino Bianco, l’autore spara a zero contro chi vorrebbe mettere in discussione questo modello di famiglia tradizionale. Chi sono costoro? Nell’ordine,

a)    il socialismo reale (!!!) che “brama di “comunizzare” la società e di assegnare alle sole istituzioni statali l’educazione dei giovani che devono essere, sin dai primi anni d’età, sottratti alle grinfie familiari che ne potrebbero alterare i valori di riferimento”. Perché non c’è nessun riferimento all’eugenetica e al razzismo di Hitler?

b)    il femminismo: “Oltre a promuovere istituzioni come il divorzio e l’aborto al suon dello slogan “tremate, tremate, le streghe son tornate” si oppone alla figura femminile intesa come madre. Le moderne fattucchiere sostengono che solo il lavoro ed il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile vita domestica”.

c)       gli omosessuali, che “introducono il concetto di fluidità sessuale, di percezione del sesso e di transgender e che classificano come famiglia l’unione tra due persone di sesso uguale o, non importa quale sesso, anzi, il sesso non esiste è solo una percezione!”

d)      gli animalisti (!!!!!): “che sostengono che l’amore, che assolutamente non può definirsi affetto, è possibile anche nei confronti di una tenera bestiolina e che, quindi, pretendono esteso il concetto di famiglia a chi vive con un gatto, un cane, un porcellino d’India o, addirittura, un maiale. Non si spiegano il perché, dunque, alla scomparsa del padroncino l’adorato essere peloso non debba avere il diritto di percepire la pensione di reversibilità come invece l’avrebbe un coniuge o un figlio minorenne” (pp. 186-187).

E non ci si può perdere il vergognoso paragone tra le politiche familiari di alcuni stati democratici occidentali odierni e la sanguinaria Cambogia. L’autore infatti ha il coraggio (o l’impudenza) di scrivere: “Nel tragico esperimento della Cambogia di Pol Pot i genitori perdevano da subito ogni autorità sui bambini che venivano affidati a comunità controllate dai rappresentanti del terrificante regime. Ora, la fluida società moderna degli Stati che si professano liberi e progressisti sta conseguendo i medesimi risultati con metodi che solo apparentemente appaiono meno coercitivi” (p. 205). Più condivisibili sono le osservazioni sulla necessità di non ridurre la vita delle persone al solo orizzonte lavorativo, a scapito di altre sfere della personalità che meriterebbero di essere sviluppate; interessante anche la possibilità di remunerare il genitore che si occupa in prevalenza dei figli.

Esaltazione della “normalità”

Corollario del principio della fedeltà alla natura è l’appello alla “normalità” e la suddivisione delle persone o delle cose in “normali” e “anormali”. A p. 193 l’autore dichiara: “La normalità c’è. Esiste. Non per questo è buona o cattiva, migliore o peggiore, ma non la si può negare in nome di una artificiale e pretestuosa inclusività” (p. 193). Più avanti la normalità è definita: “condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o fuori dall’ordinario e dalla consuetudine” (p. 240). Immagino che la definizione sia tratta da un vocabolario; ma dal punto di vista etico, le parole hanno un significato più pieno, che si stacca da quello semplicemente oggettivo della loro definizione per assumerne un altro, molto più caldo e vivo. La definizione del vocabolario è un punto di partenza, non di arrivo. Per la riflessione morale, la definizione citata da Vannacci non regge, perché contiene la parola stessa che vuole definire: non si può affermare che la normalità è ciò che si ritiene normale! Sarebbe come voler definire una spiaggia scrivendo: “la spiaggia è ciò che si ritiene essere una spiaggia”. L’autore insiste: “La domanda che ci viene da porci è se esista una normalità nei gusti e nelle preferenze. Certamente! Dipende da molti fattori, fra cui la cultura e la civiltà giocano un ruolo molto importante ma una ‘normalità’ nei gusti esiste eccome!” (p. 240). 

Fa quasi tenerezza questo appello alla normalità, perché l’autore è il primo a riconoscere che nei secoli cambiano i gusti e le mode e cambia l’idea di ciò che si ritiene come “normale”. Difatti, l’autore afferma che coreani e cinesi ritengono normale “mangiare i cani”, cosa inammissibile per noi, oppure parla del masochismo, per dimostrare che ci sono pratiche che, per quanto esistenti nel mondo, non possono essere definite “normali” (p. 241). Ma un cinese direbbe che loro mangiano i cani da secoli e che dunque per loro è “normale” nonché naturale farlo, mentre un masochista direbbe che le pratiche che lui ama sono vecchie come il mondo e dunque, a suo modo, “normali”. Insomma, il generale si contraddice da solo e in questo capitolo tocca il fondo, perché dimostra di avere le idee confuse. L’autore, dunque, costruisce una definizione di normalità che lui stesso, nella sua esposizione, deve negare: nei fatti, egli riconosce che anche in questo caso non esiste una normali in senso oggettivo, ma una diversa prospettiva dei vari popoli nel giudicare “normale” ciò che essi ritengono consuetudinario.

 Egocentrismo e mancanza di empatia

L’autore sembra un uomo che, avendo finora avuto una vita ricca di soddisfazioni, una felice famiglia di origine e un altrettanto felice famiglia costruita, sia terrorizzato dal fatto che qualche cosa possa cambiare, che il suo mondo perfetto e la sua vita colma di gioie possano essere incrinati da scelte politiche o sociali. Appare incapace di empatia, di mettersi al posto dell’altro, e giudica le questioni dall’alto delle sue granitiche certezze, affermando che ciò che lui ha visto e ha vissuto va bene mentre che tutto il resto no. Non è empatico forse perché crede, ingenuamente, che molte questioni sociali nascano non da bisogni reali, bensì o da bisogni indotti da una parte politico-ideologica oppure da una modernità che vuole cancellare i valori tradizionali, quelli di un tempo antico e felice, quando tutto andava bene e non c’erano per strada poveri o immigrati e gli omosessuali non facevamo mai outing ma si nascondevano.

Ma dove ha vissuto finora il generale? Il tempo che lui rimpiange, ovviamente non è mai esistito, e l’autore, di fronte a un presente che gli appare disordinato e multiforme (e che non capisce), non reagisce con curiosità o con spirito critico, bensì con fastidio, inventandosi un passato mitico in un cui tutto andava bene ed esisteva un modello unico di famiglia, di vita, di pensiero. Di fronte a un mondo che secondo lui sta andando a rotoli, solo la famiglia, ovviamente la famiglia secondo il modello Vannacci, anzi, direi, solo la famiglia Vannacci, può salvare: “Proprio oggi, invece, che anche quelle che consideravamo le più solide evidenze si stanno sgretolando, che siamo pervasi da incertezze e dubbi riguardo al presente e soprattutto nei confronti del futuro, che siamo soggetti ad una comunicazione incessante caratterizzata da fake news e strumentalizzazioni dovremmo cercare di salvare quello che ancora rappresenta una roccaforte ed un punto fermo della società e la famiglia naturale, che incarna ancora un’affidabile rete di solidi affetti e un comprovato e resiliente spazio di sicurezza, è certamente uno di quei capisaldi a cui non si può rinunciare” (p. 210). L’egocentrismo traspare spesso tra le pagine del libro, giacché l’autore tende a giudicare il mondo a partire dalle sue esperienze; atteggiamento che può risultare comprensibile, ma che non può essere univoco, perché il mondo moderno, si rassegni Vannacci, è vario. D’altra parte, come non citare il filosofo che disse che al mondo non esistono fatti, bensì solo interpretazioni di questi fatti? Oppure questa frase da Padri e figli di Turgenev: “In assoluto non esistono principi – tu ancora non l’hai capito! – esistono solo sensazioni. Tutto dipende dalle sensazioni.» «Ma come?» «Ecco come. Prendi me, per esempio: io seguo un orientamento negativo… per via di una sensazione. Mi piace negare, il mio cervello è fatto così e basta! Perché mi piace la chimica? Perché ti piacciono le mele? Sempre per via di sensazioni. Senza eccezioni. Gli uomini non sono capaci d’andare oltre. Non tutti te lo direbbero, e un’altra volta magari nemmeno io te lo direi.»”. Spiace ricordarlo all'autore, ma l'uomo decide quasi sempre decide in base alle sensazioni più che alla ragione. Un po’ come fa l’autore di questo libro che, sebbene in apparenza sia ragionevole, poi si lascia guidare dai suoi sentimenti. E, si può aggiungere, la realtà è la costruzione operata da miliardi di punti di vista su di essa, poiché ogni essere vivente tende a vedere il reale con i suoi occhi. 

Tuttavia, è importante che ogni tanto l’individuo provi quantomeno a mettersi al posto dell’altro; Vannacci questa cosa non lo fa e il suo egocentrismo risulta talvolta infantile. Per esempio, lui racconta così il suo primo impatto con i neri: Fu nel 1975, quando con tutta la famiglia ci trasferimmo a Parigi che, per la prima volta, cominciai a venire a contatto quotidianamente con persone di colore. Mi ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mia mano sopra la loro, mentre si reggevano al tientibene dei vagoni, per capire se la loro pelle fosse al tatto più o meno dura e rugosa della nostra. Li guardavo continuamente, con quella scarsa discrezione che caratterizza l’atteggiamento di molti bambini curiosi, e mi colpiva sia la tonalità molto più chiara del palmo delle loro mani sia il netto contrasto che si percepisce nei loro occhi dove la sclera – la parte bianca del bulbo oculare – si staglia con i colori estremamente scuri delle loro pupille” (p. 89). Frase che fa sorridere d’amarezza perché nasce da un’idea di totale diversità delle persone nere. Non è razzista, ma potrebbe essere il prodromo del razzismo: essa sottende l’idea che i neri siano qualcosa di diverso dai bianchi. Si dirà che nel 1975 Vannacci aveva otto anni, ma l’obiezione non pare pertinente, perché oggi, adulto e vaccinato, l’autore scrive cose simili, dimostrando di essere ancora carico di pregiudizi: “Anche se abbiamo seconde generazioni di Italiani dagli occhi a mandorla, il riso alla cantonese e gli involtini primavera non fanno parte della cucina e della tradizione nazionale; anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri; anche se vi sono portatori di passaporto italiano che pregano nelle moschee, ciò non cancella 2000 anni di cristianità” (p. 110). Si è italiani non per il colore della pelle o per i “tratti somatici”, ma per la cittadinanza: e l’essere italiano si evolve, le popolazioni non sono entità fisse, pure e intoccabili.

L’egocentrismo, come anticipato, porta l’autore ad assolutizzare le sue esperienze di vita, traendo da esse giudizi universali; non solo, egli fa delle dichiarazioni nette senza prendersi la briga di dimostrarle, spacciandole per verità. Ancora una volta, sempre a proposito degli stranieri, il generale parla di sé stesso, partendo da un’esperienza infantile, raccontando che lui da piccolo viveva a Ravenna, allorché “A parte le orde di tedeschi e di biondi turisti del Nord Europa che, a partire dalla primavera, cominciavano a invadere le piazze, i lidi e le bellissime chiese bizantine, di stranieri non se ne vedevano tanti per le strade della città” (p. 88). L’assenza di stranieri di quel periodo sembra essere per lui un fatto positivo, perché egli sottintende che allora la società era più ordinata e meno vessata dalla criminalità: la cosa però è falsa, perché al tempo c’era il terrorismo, c’erano le bombe fasciste, la mafia faceva il bello e il cattivo tempo in Sicilia. Va be’, andiamo avanti. Da quel che scrive, la situazione oggi per lui è peggiorata proprio perché ci sono i migranti. E come giustifica questa idea? Ovviamente partendo dalla sua esperienza personale. Egli scrive che un giorno, mentre con un amico si stava “gustando” un caffè a Viareggio, è “stato preso d’assalto da una schiera di persone di colore che, in rapida successione, mi hanno abbordato senza tanti convenevoli chi per cercare di vendermi un libro sulla cultura africana, chi proponendomi fazzoletti di carta e accendini a un euro e chi, molto più semplicemente, chiedendomi qualche spicciolo per comprarsi da mangiare” (p. 89). E poco dopo, “passeggiando sul bellissimo lungomare, ho incrociato un paio di Cingalesi che uscivano da un cantiere, ho salutato un Filippino che conosco e che lavora presso uno stabilimento balneare e sono incappato sui teli pieni di ciarpame stesi dai Senegalesi vicino al molo” (Ivi).

Può essere che il generale “un giorno” abbia avuto la sfortuna di essere avvicinato da queste persone che si permettono di infastidire lui, uomo benestante e tranquillo, per chiedergli qualche spicciolo per mangiare o per vendere qualche cianfrusaglia per sbarcare il lunario. Ma quante volte capita realmente una cosa del genere nelle nostre città? E inoltre, chi ci assicura che Vannacci dica il vero? Si noti che l’autore non manca di far notare di aver salutato un “Filippino” che conosce, come a dire che lui ha amici migranti, dunque non è razzista. L’autore, insomma, partendo da un’esperienza personale casuale (perché non dice “tutti i giorni” bensì “un giorno”) che, per quanto fastidiosa, non è certamente grave, conclude addirittura che la società multietnica non è ineluttabile, bensì un’esigenza che creatasi solo di recente a causa di fattori storici (il colonialismo) e della morbidezza delle società occidentali, che fanno sapere di voler accogliere tutti. Ma quando mai? Secondo l’autore, si tratta di un inganno, perché la società multietnica non è “quell’Eden che alcuni dissimulatori vorrebbero farci apparire” (p. 93).

Cadendo nel solito difetti di enunciare presunte verità senza dimostrarle, Vannacci scrive che la mescolanza delle culture non è solo pericolosa dal punto di vista sociale, ma è antistorica perché le società nascono attorno a valori comuni e condivisi: “Chi me lo farebbe fare di congregarmi con chi non la pensa come me, con chi ha abitudini e costumi diversi, con chi ama ciò che io detesto e che, per giunta, non ha alcuna intenzione di trovare un punto d’incontro al fine di rendere serena e pacifica la convivenza?” (p. 92). Chi l’ha detto che è sempre così? È vero che molto spesso i popoli si sono formati attorno a valori comuni, ma è altrettanto vero che ci sono state popolazioni che sono nate grazie all’immigrazione e al contatto tra le loro genti diverse. Come è vero che la mescolanza di culture ed etnie nel passato ha provocato guerre e conflitti, è altrettanto vero che tale mescolanza ha promosso lo sviluppo dei popoli e la contaminazione benefica tra culture, si pensi al confronto-scontro con l’Islam durante il medioevo, foriero di guerre ma anche di conquiste culturali essenziali per i due contendenti. Chi l’ha detto che l’incontro tra culture porta sempre problemi? A volte è vero, altre volte non lo è. Vannacci, invece, prende come verità assoluta un aspetto parziale di una questione assai complessa e, ovviamente, propone una soluzione drastica, come se fosse facile affrontare il tema della migrazione: “Ovunque si sia cercato di applicare l’ideologia del multiculturalismo si è andati incontro a esacerbati attriti sociali, crescente violenza e protratti tentativi di prevaricazione. L’immigrazione non è un fenomeno ineludibile ma è governato da leggi di convenienza. La stabilità, la prosperità, lo sviluppo e la pacifica convivenza della società occidentale può essere seriamente messi in pericolo dai continui ed incontrollati flussi migratori” (p. 128). Pertanto, se la convivenza è impossibile, è necessario che un gruppo domini e l’altro obbedisca: “La società multiculturale e multietnica rispetto di norme comuni. In Somalia tutto andava bene fintanto che Siad Barre, forte di un esercito tutto sommato ben armato e fondatore del primo servizio segreto somalo, riusciva a conglomerare con metodi non proprio da gentiluomo le varie tribù. Così, il braccio pesante di Tito nei confronti delle varie anime della ex Jugoslavia ha consentito una convivenza pacifica per più di mezzo secolo in tutta la penisola balcanica occidentale. Si entra poi nella contemporaneità quando andiamo ad esaminare il ruolo determinante che figure come Saddam Hussein e Gheddafi hanno giocato per garantire con la forza la coesione di stati in cui gli elementi culturali fondanti della società erano estremamente labili” (p. 101). E poco oltre: “Altra verità che quindi mi preme sottolineare è che nel mondo reale la convivenza di più civiltà è tanto più pacifica quanto più vi è il dominio di una civiltà sulle altre oppure, tanto più esista una forte organizzazione statuale che faccia rispettare rigorosamente a tutte le civiltà che coabitano un solo, univoco e irremovibile codice di condotta. Questa ruvida e amara verità, che io ho semplicemente sperimentato sulla mia pelle in regioni dove ci si è scannati atrocemente fra diverse etnie, l’antropologa Ida Magli l’ha chiaramente evidenziata dopo anni di studi e di approfondite ricerche scientifiche nelle sue opere. La scienziata è lapidaria: “nella nostra storia umana, le culture non si integrano pacificamente fra loro ma una vince e domina e l’altra perde, e viene dominata” (p. 102).

A parte l’idea pericolosa di aumentare i conflitti tra i gruppi sociali e di parlare di dominio di un gruppo sull’altro, è scandalosa la sua ammirazione per dittatori come Saddam e Gheddafi e Tito (dittatori che si rifacevano tutti, in modo assai diverso, a un’idea socialista) i quali governavano i loro popolo con il famigerato pugno di ferro, spargendo il sangue dei loro dissidenti.

 

Ammirazione per la Russia di Putin

Il generale ammira uno stato dittatoriale che ha invaso un paese libero come l’Ucraina. Ma perché lui venera la Russia di oggi? Principalmente, perché gestisce bene l’immigrazione: “in Russia, nonostante l’incredibile estensione del territorio e l’impossibilità di gestirne e controllarne le frontiere, l’immigrazione clandestina non esiste o è un fenomeno relegato alle popolazioni nomadi delle steppe asiatiche. Il clandestino in Russia non lo vai a fare perché sai che non avrai vita facile” (p. 117). Naturalmente, poiché in Russia non c’è immigrazione incontrollata, la criminalità è minima: “Per non parlare della Russia, ed in particolare di Mosca, dove incontravo, ben dopo l’imbrunire nei grandissimi e bellissimi parchi cittadini, donne sole e mamme con bambini che assaporavano il fresco delle sere estive senza il benché minimo timore di essere molestate”. E poi questa perla: “In Russia c’è lavoro, e ce n’è anche tanto. Rispetto a molti posti del mondo, vi si vive anche abbastanza bene” (p. 116). Chissà cosa pensano i poveri ucraini bombardati dai missili russi, delle lodi di un generale italiano al paese che li sta aggredendo!

 Connessione tra immigrazione e criminalità.

In una Italia dove i reati negli ultimi anni sono in costante calo, si continua a parlare dell’emergenza sicurezza. Lo si fa perché una parte politica, il centro-destra, ha basato su questa emergenza il suo successo elettorale ed è in ciò spalleggiata dalle televisioni amiche (prima soprattutto Mediaset, ora anche la RAI). La questione sicurezza viene dunque ingigantita, facendo percepire ai cittadini un’emergenza che nei fatti non esiste. È ovvio che i piccoli reati, per chi li subisce, sono odiosi, ma il meccanismo psicologico innestato è il solito. Si dà notizia della presenza delle borseggiatrici, si mettono assieme dieci-venti testimonianze, e si batte la grancassa, si martella ogni giorno sullo stesso tema e si crea l’idea che esista un’emergenza su un pubblico già predisposto a farsi allarmare. Vannacci ammette che i reati calano e che l’insicurezza una condizione più percepita che reale, ma poi, con una demagogia che fa cadere le braccia, scrive: “Fa ribrezzo quell’Italia ormai schierata dalla parte dei delinquenti! Uscendo dalla logica del Mondo al Contrario mettere in carcere i delinquenti non è indice di autoritarismo e disumanità, non viola alcun diritto fondamentale, non ci fa tornare indietro a tempi medioevali ma è il modo meno violento per rendere inoffensiva una persona pericolosa, per controllarla e per recuperarla alla convivenza sociale” (p. 142). Ancora una volta, dopo un’analisi vagamente pacata della situazione (benché, secondo me, non condivisibile), l’autore manda in vacca scrivendo frasi di tenore demagogico.

Questa tesi può essere vera in astratto, ma si scontra con un’epoca che è molto più frazionata di quella di un tempo. D’altra parte, anche nel passato, nonostante conflitti assai acuti, le civiltà di sono incontrate, mischiate: non ci sono soluzioni facili alla questione immigrazione. Vannacci deve rassegnarsi: se una parte del mondo vive nel benessere e nella libertà, è ovvio che attragga chi scappa da guerre e fame. Lui teme che la mescolanza possa inficiare i valori che tengono uniti un popolo, come quello di patria affermando che chi vive in Italia deve adeguarsi agli usi, ai costumi e alle leggi. Tutte cose comprensibili e che mi sembra che la gran parte degli stranieri accetti tranquillamente, tanto è vero che l’emergenza sicurezza viene usata solo a scopi politici, facendo un gran caos quando uno straniero commette un reato e invece sottacendo o dando meno spazio (parlo della destra) quando un italiano commette un reato contro uno straniero.

Conclusione

Si potrebbero scrivere molte cose su uno scritto che si estende per più di trecento pagine. La sua paura della diversità, della multiformità, del policentrismo dei tempi d’oggi, lo conduce sul terreno di un anacronistico atteggiamento antimoderno. Questo non significa negare i problemi, enormi peraltro, che l’età contemporanea pone all’umanità; la società multietnica, se è inevitabile, non è qualcosa che si può imporre da sé. Tuttavia, se la soluzione verso certi problemi è quella suggerita dall’autore, cioè il fatto che ogni cultura si arrocchi e si chiuda in sé stessa, non avremo nessuna società, né multietnica né monoetnica. E il mondo, sembra, va proprio in nella direzione auspicata da Vannacci: la direzione della chiusura, dell’aggressività verso il diverso, del respingimento indiscriminato verso tutti i migranti.

Per questo, non si comprende il senso del libro di Vannacci, il suo risentimento, quando il mondo sta seguendo proprio la direzione che lui e i sovranisti desiderano e sperano che esso segua; certo, di fronte alla logica inesorabile di una cultura occidentale che, sentendosi alla fine, reagisce arroccandosi perché è debole, non ci sono argomenti validi da opporre. Non serve spiegare che l’umanità, da quando è sulla terra, si è sempre mischiata; che i flussi migratori hanno garantito nei millenni la circolazione delle merci e delle idee; che il contatto tra i popoli può provocare certamente tensioni, ma che senza certi contatti forse la modernità non sarebbe mai cominciata. Né serve spiegare che l’Europa e l’Occidente non hanno radici cristiane, bensì greco-romane, perché il cristianesimo è nato in Oriente e si è diffuso per primo per molti secoli in Oriente e solo molto più tardi in Occidente. Il libro mi sembra il termometro di una civiltà terrorizzata, che si sente in declino demografico ed economico ed è incapace di ascoltare le ragioni, ma è attratta solo dai sentimenti negativi. Scrive l’autore: “Nei secoli l’Occidente si è guadagnato una posizione predominante basata sullo sviluppo e sulla tecnologia che ci consente di vivere in condizioni di benessere estremamente più vantaggiose dei sette miliardi di persone che vivono altrove. Se vogliamo mantenerlo, questo benessere, se lo vogliamo tramandare ai nostri figli allora tocca continuare a lottare duramente per esso altrimenti sì che il tanto vaticinato inevitabile ed ineludibile si trasformerà in realtà” (p. 126). E il diritto all’odio appare il degno corollario di questo libro a tratti delirante: “Per quanto esecrabile, l’odio è un sentimento, un’emozione che non può essere represso nell’aula di un tribunale. Se questa è l’era dei diritti allora, come lo fece Oriana Fallaci, rivendico a gran voce anche il diritto all’odio e al disprezzo e a poterli manifestare liberamente nei toni e nelle maniere dovute” (p. 281).

PARAFRASI COMMENTATA DEL "PURGATORIO" DI DANTE ALIGHIERI

Introduzione Dante ha superato l’inferno e, d’ora in poi, tutto sarà meno arduo perché lui ora è capace di guardare in faccia le sue colpe: ...