domenica 4 maggio 2025

PARAFRASI COMMENTATA DEL "PURGATORIO" DI DANTE ALIGHIERI


Introduzione

Dante ha superato l’inferno e, d’ora in poi, tutto sarà meno arduo perché lui ora è capace di guardare in faccia le sue colpe: ha visto cosa riduce il peccato. Davanti a lui c’è un’intera montagna: è il purgatorio: un luogo di riparazione riservato solo chi si è sinceramente pentito dei propri peccati (veniali) prima di morire, ma non è stato sufficientemente buono da eliminare la tendenza a peccare. Non è un merito da poco quello di Dante: per questo si può dire che egli abbia “inventato” la visione moderna del purgatorio.

 Il purgatorio è nato contemporaneamente alla voragine infernale, ma situato agli antipodi della città di Gerusalemme (per Dante la terra è tonda…), il purgatorio è una montagna esposta al sole e ha alla sua sommità il paradiso terrestre. Il purgatorio non ospita diavoli e non è un luogo sotterraneo. Con la sua visione serena e dolce del purgatorio, Dante forse vuol dire che è possibile, nella vita, ricominciare: c’è speranza per tutti, quasi in ogni momento della vita, anche in quello finale.

L’idea del purgatorio è consolante per un credente: la possibilità di pentirsi dei propri peccati e di espiarli avendo però la certezza della salvezza, è una grande consolazione. Attenzione: questa certezza non deve far perdere di vista il compito primario, ossia pulirsi de peccati: chi va in purgatorio non è ancora salvo, ma il percorso di purificazione è ancora molto lungo perché è Dio che stabilisce la durata del percorso.

La pena peggiore che subiscono tutti coloro che vanno in purgatorio e il differimento della possibilità di vedere Dio: i beati, infatti, vedono Dio subito dopo la morte, i purganti no. I purgandi subiscono anche delle pene “corporali”, nel senso che, pur essendo ombre incorporee, per volontà di Dio mantengono una sensibilità per poter subire la sua vendetta. Ma i purgandi non sono solo puniti, bensì anche purificati: sia assistendo a esempi di condotta edificanti (scolpiti nella roccia, recitati da voci o veduti in momenti di estasi), sia confessando i propri peccati, sia bevendo l’acqua dei ruscelli dell’Eden.

 Il periodo di espiazione che le anime devono trascorrere in purgatorio può essere accorciato grazie alle preghiere dei vivi che vivono sulla terra secondo la fede e difatti molte anime chiedono a Dante di raccontare di loro nel mondo affinché qualcuno preghi per loro. Il poeta però crea un legame doppio tra anime e gli uomini sulla terra, perché anche le anime del purgatorio pregano per i vivi.  Questa è una cosa molto bella, tanto è vero che nel canto XI, i superbi recitano il Padre Nostro per chi sta ancora nel mondo, affinché non ceda alle tentazioni ed eviti il peccato: questo fatto crea un ponte di fratellanza tra aldilà e aldiquà.

Sulla spiaggia dell’antipurgatorio, Dante alcune anime spaesate scendere da un vascello velocissimo, guidato da un angelo. Per loro, morte da poco, è impossibile non essere attratte da Dante, uomo in carne e ossa, il cui corpo, al contrario del loro, proietta l’ombra. Tutte le anime del purgatorio saranno colpite dalla corporeità di Dante. Esse sono appena giunte in purgatorio dalla foce del Tevere e sono ancora impastate di sensazioni e affetti umani. E subito tra loro, Dante e Virgilio si stabilisce la fiducia, senza nemmeno conoscersi, perché il purgatorio non c’è posto per la diffidenza.

Dante si commuove ritrovando un amico, il musico Casella. Ma questa atmosfera idilliaca è rotta da Catone: dovere ingrato eppure necessario quello del guardiano dell’antipurgatorio (a suo tempo pagano e suicida per la libertà, è simbolo della libertà e della rettitudine morale), perché la strada verso l’espiazione definitiva delle proprie colpe non può patire indugi.

Dante deve pulirsi la faccia, eliminare ogni scoria dell’inferno: così potrà proseguire il suo cammino e addentrarsi tra le rupi dell’antipurgatorio che, oltre che a essere il primo approdo di tutte le anime purganti, ospita coloro che, pur pentitisi prima di morire, furono troppo peccatori per andare direttamente in purgatorio e devono scontare un periodo supplementare di attesa, secondo quanto stabilito da Dio: gli scomunicati (che in vita furono allontanati dalla Chiesa: anche per loro c’è speranza) e i negligenti “per forza morti” che trascurarono i doveri religiosi e si pentirono proprio all’ultimo. Pentirsi costa tanto: significa gettare a mare un’intera vita, un insieme di ambizioni, speranze, tutte però basate su qualcosa di fragile e superfluo: i beni materiali.

Come non ricordare nel canto V Buonconte da Montefeltro, capo ghibellino e perciò nemico della Chiesa (capo degli aretini sconfitti da Firenze a Campaldino nel 1289, battaglia alla quale partecipò anche Dante) che, pentitosi proprio all’ultimo, ora è salvo? E come non pensare al padre di costui, Guido, che invece, pur pentitosi per tempo, tornò a peccare ed è stato condannato all’inferno (canto XXVII della prima cantica)?


La porta del purgatorio (canto IX)

Nel canto IX, trasportato durante il sonno da santa Lucia, santa a cui Dante era devoto, il nostro si ritrova vicino alla porta del purgatorio presidiata da un angelo dotato di spada; la porta infernale era invece enorme e sempre spalancata, coronata da parole che toglievano ogni speranza: accade così perché pochi si salvano e molti preferiscono vivere da disumani e morire nel peccato.

Davanti alla porta ci sono tre gradini, simbolo dei momenti del sacramento della confessione: Dante li percorre colmo di umiltà e devozione. Sebbene l’angelo, ministro di Dio, conosca già le colpe di Dante, il poeta deve ugualmente rivelarle tutte perché la confessione, per essere efficace, deve giungere spontaneamente dalla bocca del peccatore. Poi l’angelo apre la porticina grazie a due chiavi, una d’ora e l’altra d’argento, consegnatigli da san Pietro. Infine, l’angelo traccia sette “P” sulla fronte di Dante: sono simboli dei sette vizi capitali espiati nei sette gironi del purgatorio: solo quando tutte e sette le “P” saranno cancellate, Dante sarà pienamente purificato e potrà accedere al paradiso terrestre.

 

Gironi I-III: l’amore diretto al male del prossimo (canti X-XVII)

Entrato in purgatorio, Dante non si volta perché l’angelo portinaio gli ha intimato di non farlo: chi ha iniziato a percorrere la strada della redenzione, non può voltarsi indietro né fermarsi, perché vanificherebbe tutto. E s’accorge che la roccia di quei primi tornanti del purgatorio è addobbata con stupende sculture, opera di Dio, che riportano scene di umiltà e atti di superbia punita.

Sì, questa è un’altra idea geniale di Dante: Dio non fa espiare le colpe solo con le punizioni, ma con gli esempi, perché al dolore va accompagnato l’insegnamento. Queste scene sono riservate ai primi peccatori che Dante incontrerà: i superbi. Costretti a portare grossi massi e a tenere il capo basso, essi subiscono la pena di non poter più sollevare il capo nella maniera sfrontata con cui lo facevano in vita. Dante li compatisce perché sa bene che la superbia può nascere in chi esercita l’arte. E l’incontro con il miniatore Oderisi nel canto XI gli farà capire quanto è effimera la gloria artistica, quanto sia breve e quanto sia facile che un artista (come accadde a Cimabue con Giotto) venga presto oscurato da un artista che arriva dopo di lui. Questo è un saggio insegnamento per Dante, che teme di dover scontare alcuni anni in purgatorio per la colpa della superbia… ma… se ancora oggi parliamo di lui e di Giotto forse significa che la gloria artistica non è sempre poi tanto effimera.

 

Di certo Dante non temeva di essere giudicato invidioso, almeno a quanto dice lui, visto che nel canto XIII si confessa lontano da questo peccato da lui giudicato, già nell’inferno, un vizio tipico nelle corti del suo tempo. Cioè lo vedeva connesso alla politica e lo giudicava molto grave, vista anche la pena degli invidiosi.

“Invidiare”, secondo l’etimologia, significa guardare storto; per questo le anime di chi espia questo peccato hanno le palpebre cucite con il filo di ferro. Pena assai dura, degna forse più dell’inferno, segno che essi in vita usarono male il dono della vista: anziché ammirare la bellezza del creato, usarono gli occhi per odiare e per sperare di appropriarsi di ciò che apparteneva ad altri. Essi peccarono quindi doppiamente, sia invidiando, sia desiderando i beni materiali, i quali hanno il difetto di non bastare mai per tutti e di suscitare, per questo, le più terribili passioni. Altra cosa sono i beni celesti, che non finiscono mai, bastano per tutti e, anzi, più uomini ne godono, più essi diventano ricchi.

 

Parlando degli altri peccatori, gli iracondi, si comprende che per Dante la rabbia non è sempre sbagliata. Costoro hanno voluto il male del prossimo poiché non hanno saputo resistere alle offese e si sono abbandonati a una rabbia malvagia e ingiusta e per questo sono accecati dal fumo nero, perché la rabbia incontrollata acceca. La cosa interessante è che, grazie nell’incontro con l’anima di un iracondo, Marco Lombardo (canto XVI), sorta di alter-ego del poeta si spiega perché la società del tempo sia così malvagia e abbia dimenticato le virtù cristiane. Dante viveva infatti in una società piena di violenza, dove la vita dell’individuo non valeva nulla; una società rovinata da conflitti politici aspri tra le singole città e anche all’interno delle città stesse, in una penisola dove non esisteva un’autorità sovracittadina in grado di garantire sicurezza alle persone.

Questo era il grande cruccio del poeta. Egli aveva fatto politica attiva a Firenze alla fine del ‘200, durante le lotte tra la borghesia mercantile e l’aristocrazia, tra i guelfi neri filo-papali e guelfi bianchi, a cui Dante, con il suo atteggiamento moderato, era affine. Egli nel 1300 ricoprì anche la carica più importante, quella dei sei priori, ma dopo la vittoria dei guelfi neri (favoriti da papa Bonifacio VIII) del 1301, In quanto guelfo bianco, fu esiliato e condannato a morte e dovette vagare per diverse città e borghi italiani, mendicando pane e denaro.

 

Ma perché l’uomo commette il male? Dio, infatti, gli ha donato tutte le facoltà per vivere bene seguendo le sue leggi. L’uomo è una creatura imperfetta. Egli sbaglia sia per ragioni “psicologiche”, sia per cause “esterne”, imputabili all’ordine sociale. Dante afferma che l’anima dell’uomo, appena creata da Dio, contiene alcune conoscenze di base (il principio di identità e quello di non contraddizione) e l’inclinazione ad amare Dio. Se l’uomo seguisse questa inclinazione, non peccherebbe mai.

Per Dante l’uomo possiede il libero arbitrio: Dante aveva il “problema” di conciliare l’onnipotenza di Dio, con il fatto che esiste il peccato. Se l’uomo non fosse libero, bisognerebbe ammettere che egli è responsabile di tutto, anche del male. Ma sarebbe un’eresia. Il possesso della libertà distingue l’uomo dagli altri animali ma, paradossalmente, rende più facile per lui cadere nel peccato. In campo conoscitivo, commette degli errori perché esercita le sue facoltà intellettuali sono limitate e vengono usate male, in campo etico egli cade nel peccato perché desidera le cose sbagliate.

L’uomo pecca quando fa un uso distorto dei doni più preziosi che Dio gli ha fatto: la ragione e la libera volontà. Egli sbaglia solo per colpa sua: Dio gli donato tutte le facoltà per operare il bene, ma l’uomo, l’unica creatura dotata di libertà, può scegliere il male. L’uomo non è un burattino, ma è libero e, proprio in quanto tale, responsabile agli occhi di Dio delle sue azioni. per questo può essere dannato o salvato.

Il fatto che l’uomo sia libero fonda la sua responsabilità, non solo nei confronti di Dio, ma anche sulla terra, nei confronti degli altri uomini. Essere liberi significa seguire le leggi di Dio e le leggi (giuste) della società civile. Se non esistesse il libero arbitrio dell’uomo, non avrebbe senso la struttura dei regni dell’aldilà che Dante immaginato e diverrebbe vano il compito che egli si è attribuito, quello di far ravvedere gli uomini raccontando loro come i peccatori sono puniti o salvati. Se la salvezza dell’uomo è in buona misura opera della grazia di Dio che agisce per motivi imperscrutabili, l’individuo può fare qualcosa per meritarsi tale grazia ossia operare il bene.

 

L’uomo è, come diceva Aristotele, un “animale” sociale destinato a vivere in società retta da leggi. Se dal punto di vista “psicologico”, Dio ha donato a l’uomo l’inclinazione ad amare i beni celesti, da quello esteriore, per rendere felice l’uomo, Dio ha stabilito l’esistenza di due autorità politiche, l’imperatore e il papa, entrambe incaricate di guidare l’individuo verso la felicità. Quella terrena grazie all’imperatore, quella celeste grazie al papa. Dio anche in questo caso aveva fatto le cose per bene, stabilendo che l’impero debba occuparsi delle leggi civili, mentre al papa spetti il compito di far osservare all’individuo le leggi di Dio.

Il problema è che ormai da lungo tempo nessuno fa rispettare le leggi civili e, di conseguenza, nessuno fa più rispettare la parola di Dio. Gli imperatori tedeschi (l’impero ormai è quello…), infatti, non guardano più all’Italia; dall’altro lato, gli uomini di Chiesa non si occupano più dell’anima delle persone ma sono da secoli interessati alle ricchezze materiali e al potere politico, tanto è vero che, al tempo di Dante, la Chiesa possiede già molti territori nell’Italia centrale, al tempo chiamati “Patrimonio di San Pietro”. Per questo Date pensa che la colpa maggiore per la decadenza della società italiana sia da attribuire al papa, perché il potere politico è stato donato all’impero (prima Romano e poi tedesco) da Dio; l’imperatore, dunque, ha ricevuto il potere politico in “concessione” e non può alienarlo, non può trasferirlo a un’altra autorità (al papa), perché tale potere appartiene solo a Dio. Per questo Dante ritiene illegittimo il documento su cui la Chiesa basava il suo diritto a esercitare il potete temporale, la (oggi sappiamo che era un falso) donazione di Costantino. Dante è molto duro contro gli uomini di Chiesa, tanto che mette all’inferno tutti i papi a lui contemporanei.

 

L’idea che potesse tornare un impreso universale era anacronistica, perché già da tempo era in atto il processo che avrebbe condotto alla formazione degli stati nazionali, come Francia e Inghilterra. Dante aveva però intuito che l’Italia, rimanendo ai margini della politica europea a causa degli egoismi particolari, sarebbe stata condannata a restare divisa per molto tempo. Attenzione, Dante non aveva in mente l’unità d’Italia e dunque non era un anticipatore di quel che avvenne nel 1861, però deplorava lo spirito di fazione che angustiava la vita di tante città italiane. Lui aveva capito che tale frammentazione tra le città italiane, che si riverberava anche sulla frammentazione linguistica, sarebbe stato un fattore di debolezza politica nel futuro e difatti così fu. Con la nascita degli stati nazionali, l’Italia sarà oggetto della spartizione tra di loro e per lunghi secoli rimarrà un paese debole, frammentato e litigioso.

 

L’ordinamento del purgatorio (canto XVII)

Alla fine dei primi tre gironi del purgatorio, i pellegrini fanno una sosta. Virgilio ne approfitta per spiegare a Dante qual è l’ordinamento del purgatorio. La cosa più “sconvolgente” è leggere che tutti i nostri atti, anche quelli peccaminosi, nascono dall’amore. Dunque, non sempre l’amore è buono, perché il suo valore dipende dall’oggetto amato. Si è detto che l’uomo è libero e che nasce con una innata tendenza a desiderare: senza desiderio, non potremmo vivere, perché gran parte della vita si struttura attorno alla brama di raggiungere qualcosa, sin da piccoli. Eppure, se tale tendenza a desiderare sceglie gli oggetti sbagliati, ecco il vizio e il peccato.

Accanto a un amore naturalmente diretto verso Dio, la sola cosa che dovremmo amare veramente, esiste un amore di “elezione”, nel quale si esercita la scelta dell’uomo, che può errare se desidera “il malo obietto”. Gli oggetti malvagi possono essere tanti e talvolta apparire anche molto attraenti, ma sono tali per l’uomo ingenuo o incapace di usare la ragione. Per Dante si tratta dei beni materiali: il sesso, la gloria, il denaro, il potere, il cibo: essi sono mali in sé, ma lo diventano se perseguiti con ossessione. La foga dei beni materiali è all’origine di tutti i mali del mondo: poiché tali beni sono fragili e non sono sufficienti per tutti, essi suscitano gelosie, invidia, rabbia e superbia.

Il superbo, l’invidioso e l’iracondo desiderano il male del prossimo e abbiamo già visto come scontano questo loro amore malato; se invece l’uomo agisce in virtù di un amore troppo tiepido verso Dio, cade nel vizio dell’accidia (punito nel quarto girone); quando invece l’uomo brama senza misura i beni mondani (cibo, sesso, denaro), conduce a commettere i peccati di avarizia, gola e lussuria, puniti negli ultimi tre gironi del purgatorio.

 

Ma ci si può pentire proprio di tutti i peccati e finire in purgatorio? Per Dante sembra di no: solo le colpe di incontinenza possono essere espiate, non quelle dovute alla malizia e alla violenza, peccati mortali che destinano irrimediabilmente all’inferno, dal VII cerchio in giù.

Per Dante il fine dell’uomo è la vita secondo ragione, ossia la capacità di evitare gli eccessi esercitando la virtù della temperanza, individuando il giusto mezzo da due comportamenti estremi ugualmente peccaminosi. Si prenda la superbia: è normale che un uomo abbia stima di sé; tuttavia, quando tale stima diventa eccessiva ed egli si sente superiore a tutti gli altri, commette peccato (dunque commetterebbe peccato anche chi, al contrario, ha un’autostima troppa bassa, ma Dante non ne parla). Quando l’individuo non è capace di trovare tale equilibrio, si hanno le colpe di incontinenza.

 

Gli ultimi tre cerchi (canti XIX-XXVI)

Leggendo dell’incontro con i peccatori del quinto cerchio, gli avari e i prodighi, mi ha stupito l’omaggio a Virgilio e la lode a poeti “pagani”, capaci però di intuire, senza esserne consapevoli, alcune verità cristiane.

Tra coloro che hanno le mani bucate Dante e Virgilio incontrano l’anima del poeta latino Stazio. Costui esprime grande ammirazione verso Virgilio arrivando addirittura ad affermare che la sua conversione al cristianesimo nacque leggendo i versi delle Bucoliche in cui Virgilio parla dell’arrivo di un fanciullo grazie al quale giungerà (anzi, tornerà) l’età dell’oro. Questi versi erano stati visti sin dai primi cristiani come un preannuncio dell’avvento di Cristo, come a voler rimarcare che ogni momento della storia dell’uomo faccia parte di un piano provvidenziali stabilito da Dio.

Dante inventa di sana pianta la vicenda della conversione del poeta latino Stazio al cristianesimo, per esaltare Virgilio nel momento in cui si sta avvicinando l’addio alla sua guida: il poeta latino, ahimè, non conobbe il cristianesimo e, dunque, non poté salvarsi, rimanendo confinato nel limbo.

Pur con tutto il bene che gli voleva, Dante non avrebbe potuto presentare un Virgilio salvato perché le sue parole sarebbero state ai limiti dell’eresia. Ma Virgilio, se non è stato cristiano, ha avuto il merito per Dante di aver intuito la fede, illuminando la strada a chi è venuto dopo di lui: “Per te poeta fui, per te cristiano” (v. 73). Queste parole, nella finzione narrativa pronunciate da Stazio, rispecchiano in pieno il pensiero di Dante.

Ora, si può storcere il naso sul fatto che il cristiano Dante si faccia guidare nell’aldilà dal pagano Virgilio. Ma la Commedia non è solo un poema sacro, bensì anche una grande opera di poesia. La poesia non ha limiti di tempo, di patria, né soffre barriere religiose: essa racconta l’indicibile, l’indescrivibile ed è il mezzo migliore per parlare di qualcosa che nessuno (o quasi) può vedere in vita, i regni dell’aldilà. Esiste insomma una sorta di universo poetico a cui appartengono tutti i grandi poeti antichi perché per Dante costoro, pur ignorando l’avvento di Cristo, nei loro versi mostrano di aver intuito qualcosa e di averlo scritto, certo sotto forma di favole o con un linguaggio poco chiaro. Senza tali poeti, senza le loro intuizioni, senza i loro versi che fanno lumeggiare una verità più alta, non esisterebbe la società cristiana e Dante non troverebbe le parole per raccontare del suo viaggio nell’aldilà.

 

Nel canto XXIII, tra i golosi, orrendamente emaciati e suppliziati come Tantalo (vedono una sorgente d’acqua fresca e un albero pieno di frutti invitanti ma, appena si avvicinano ad essi per assaggiarli, entrambi scompaiono), Dante incontro l’anima di Forese Donati, suo amico di gioventù, ha l’occasione di dialogare con lui. Forese era morto nel 1296 ed era fratello di Corso Donati, capo dei guelfi neri fiorentini nemici di Dante.

L’incontro con Forese è interessante per due motivi; uno, ci fa capire che anche nell’aldilà posso permanere affetti umani. La cosa non è molto ortodossa, ma risponde all’umanità della poesia di Dante, alla grandezza del suo cuore e al fatto che egli ha scritto la Commedia anche per rivedere i suoi amici. Due, è un modo che Dante impiega per scusarsi di un passato giovanile dissoluto. Il poeta, richiamando il momento della sua vita in cui, assieme a Forese, visse una fase di traviamento morale, dice: “Se tu riduci a mente / qual fosti meco e qual io teco fui, / ancor fia grave il memorar presente” (vv. 115-117). A cosa si riferisce Dante? Forse a quel periodo in cui a Firenze era esplosa una moda che aveva infiammato i giovani, quella dei duelli poetici. Tra Forese e Dante in gioventù c’era stato uno scambio di sonetti senza peli sulla lingua. Per esempio, a Dante che scrive all’amico accusandolo di non “scaldare” a sufficienza la moglie, Forese risponde con dei versi un po’ oscuri, i quali avanzano il sospetto che suo padre Alighiero avesse praticato l’usura.

Secondo l’Ottimo commento del 1333, Dante era al corrente della golosità dell’amico e sarebbe stato proprio lui a indurlo a pentirsi in punto di morte. Nella “tenzone” poetica tra i due, ci sono alcuni versi del nostro che alludono alla golosità dell’amico. Una di queste poesie, presa dall’edizione delle Rime di Dante curata da De Robertis, recita: “Ben ti faranno il nodo Salamone, / Bicci novello, e petti delle starne, / ma peggio fia la lonza del castrone, / ché ‘l cuoio farà vendetta della carne”. Dante dice che il suo amico Bicci (soprannome di Forese) sarà presto incastrato dal cappio (nodo) di Salomone (che non si poteva sciogliere), poiché il petto delle starne e la carne di castrato, lo ridurranno in miseria. Il peccato dei golosi è esecrato non solo per i danni morali, ma anche per quelli economici.

Dante pensava che avrebbe incontrato l’amico nell’antipurgatorio, non già in purgatorio pochi anni dopo essere morto. Forese spiega a Dante che il periodo che lui avrebbe dovuto passare nell’antipurgatorio è stato abbreviato dalle preghiere di sua moglie Nella; costei, la sua “vedovella”, è una donna buona e onesta, essendo tra le poche donne virtuose rimaste a Firenze. L’omaggio a Forese e la sottolineatura della moralità di sua moglie Nella, sono un risarcimento di Dante nei confronti della reputazione della donna alla quale nei suoi versi giovanili aveva rivolto delle frasi poco rispettose.

I lussuriosi e l’amore

Primi peccatori incontrati nell’inferno e ultimi peccatori del purgatorio (ma anche dell’intera Commedia), i lussuriosi sono immersi nel fuoco, simbolo della loro passione. Tra i lussuriosi che saranno salvato ci sono anche quelli “contro natura”, cioè gli omosessuali, che però nella Commedia sono definiti ermafroditi. Se per Dante l’amore sregolato è il peccato, tale non è un amore vissuto con misura. In ciò egli è coerente con buona parte della trattatistica moralistica del tempo che era raramente sessuofobica e tendeva a essere comprensiva verso una sessualità vissuta con ragionevolezza.

Ma non è solo per questo che Dante dona centralità all’amore. Egli è stato un poeta d’amore che ha innovato la lirica erotica creando quello che lui stesso, nel canto XXIV, definisce “dolce stil novo” (in realtà lo nomina l’anima del poeta lucchese Bonagiunta). Oltre a uno stile dolce e soave, il poeta d’amore è colui che scrive sotto dettatura di questo grande sentimento, che Dante conosce sin da giovanissimo, quando s’innamora di Beatrice.

Dante ha il merito di non concepire l’amore in modo drammatico o distruttivo (come il suo maestro Guido Guinizzelli, incontrato nel canto XXVI o Guittone), come una forza che può portare anche alla morte. Dante vuole anzi nobilitare l’amore affermando che, se esso è diretto vero una donna nobile e onesta, può condurre l’uomo alla beatitudine, come accadrà a lui grazie a Beatrice (da qui il nome Beatrice). Certo, anche l’amore verso una donna con tratti celestiali è sconvolgente e appassionante: Dante era consapevole della forza sovrabbondante del desiderio e da grande intellettuale qual era ha accettato questa forza, non l’ha denigrata, ma ha cercato di nobilitarla.

Nella Commedia questa concezione dell’amore viene ulteriormente sviluppata poiché si trasforma: da sentimento terreno, diventa caritas, ardore di carità, amore verso Dio; nondimeno, sebbene esso abbia un carattere celeste, non è meno forte dell’amore che si prova sulla terra verso qualcuno: anche l’amore verso Dio non perdona che chi è amato non riami a sua volta, anche tale amore si accende nell’animo del fedele come un fuoco incontrollabile, anche l’amore verso Dio sconvolge l’anima.

Queste espressioni richiamano i celebri versi del canto V dell’Inferno: la colpa della sventurata Francesca era aver definito il suo amore adultero con gli stessi caratteri di irresistibilità e forza che ha l’amore verso Dio. Francesca lo faceva per difendersi, affermando di non aver saputo resistere; Dante la compiange perché in parte la capisce, ma soprattutto perché la donna non aveva saputo superare il carattere sensuale del sentimento e si era fatta del tutto ghermire da lui, amando un uomo, Paolo, che non avrebbe dovuto amare essendo suo cognato. Se ella si fosse pentita, non sarebbe finita all’inferno, bensì in purgatorio e si sarebbe salvata.

Diversa la vicenda di un’altra donna Pia dei Malavolti, la cui anima Dante incontra nel canto V del Purgatorio. Anche lei fu uccisa dal marito, ma non per adulterio, bensì perché l’uomo, Nello d’Inghiramo dei Pannocchieschi, voleva sposare un’altra donna. Pia ormai non prova odio, perché è salva e preferisce ricordare la felicità provata il giorno delle nozze anziché il giorno della morte.

Il compito dell’amore terreno è quello di preparare l’uomo alla beatitudine. E ciò può accadere solo se si ama una creatura dotata di quelle qualità definita dal verso iniziale di un altro sonetto della Vita nuova: Tanto gentile e tanto onesta pare. La donna amata deve essere gentile (ossia di animo nobile), onesta (decorosa nell’aspetto e nel vestire).


Dante nell’Eden (canti XXVII-XXXIII)

Dopo i lussuriosi, Dante attraversa, grazie a Virgilio e assieme a Stazio, la barriera di fuoco che Dio (cfr. la Genesi) ha posto tra il purgatorio e il paradiso terrestre. Una volta nell’Eden, Dante è abbandonato da Virgilio: il poeta latino rappresenta la ragione umana, la quale non può guidare l’uomo verso Dio. D’altra parte, Dante ha visitato tutto l’inferno e tutto il purgatorio: gli sono state cancellate le sette “P” dalla fronte e, dunque, come dice Virgilio, egli è ormai padrone di sé stesso.

Guidato da Matelda, una donna bella e misteriosa, Dante si gode il paesaggio meraviglioso dell’Eden finché… be’, finché non appare Beatrice. E allora si può fare un po’ di gossip sulla vita di Dante. Nel libro III della Vita nuova, l’opera scritta in gioventù in cui racconta il suo amore per lei, Dante narra che egli rivede Beatrice a diciotto anni, nove anni dopo averla incontrata la prima volta da bambino. Ebbene, quando Dante rivede Beatrice, lui è ancora uno sbarbatello, lei invece, pur giovane, è una donna sposata e probabilmente ha già dei figli. In quel momento, accade un fatto straordinario: Beatrice, che cammina assieme a due donne più anziane ed è vestita con una veste bianca, simbolo di purezza, lo saluta. Il nostro tocca allora il cielo con un dito; anzi, come dice lui con maggiore finezza: “me parve allora vedere tutti li termini della beatitudine” (par. 1).

Dopo di ciò, Dante corre nella sua cameretta, s’addormenta e sogna. Vede Amore che gli dice che da quel momento in poi lui sarà il suo Signore. Amore tiene fra le braccia Beatrice: ella è nuda, ha una veste colore del sangue; su indicazione di Amore, “la donna de la salute”, mangia il cuore del poeta. Beatrice lo mangia con timidezza e, dopo averlo fatto, non è più lieta ma piangente. Amore la tiene fra le sue braccia e sparisce verso il cielo.

Nel Purgatorio, canto XXX, sorgendo da sotto un carro trainato da un grifone, simbolo della Chiesa, Dante vede salire una miriade di angeli festanti che circondano una figura femminile che scende dal cielo con un velo che le copre parte del volto e il capo. La donna indossa un mantello verde e una vesta del colore della fiamma: si tratta di Beatrice, che è ora una creatura del cielo. Dante reagisce come un uomo innamorato, perché è ancora un individuo in carne ed ossa ed è cotto di Beatrice sin da quando aveva nove anni. Se era innamorato della Beatrice umana, figuriamoci se non lo è della Beatrice creatura celeste.

Nell’Eden il nostro, ben prima di vedere Beatrice, va in panico e vive le medesime sensazioni che ebbe in gioventù quando fu invitato da un amico in un luogo dove erano adunate molte persone. A un certo punto il nostro poeta, che se ne stava bello tranquillo, avverte uno sconvolgimento totale perché, pur non avendola ancora vista, “sente” che Beatrice è presente nella casa. Prima ancora di vedere la donna amata, lui va in panico (Vita nuova, XIV.4).

La stessa cosa accade alle soglie del paradiso ed è bello questo parallelo tra biografia del poeta e vicenda narrata nella Commedia. Nel canto XXX lui scrive che, presentendo la presenza di Beatrice nell’Eden: “E lo spirito mio … / d’antico amor sentì la gran potenza” (vv. 34-39) e poi ai vv. 46-48 rivolto a Virgilio per chiedere aiuto (che nel frattempo è sparito): “conosco i segni del’antica fiamma”. Ancora oggi noi usiamo la parola “fiamma” per indicare un partner.

Beatrice non appare a Dante per dargli il benvenuto, bensì per bastonarlo. Lui ha appena salutato definitivamente Virgilio e piange perché il suo amato Virgilio e se ne va. Ma Beatrice gli dice che sono ben altre le cose per cui dovrebbe piangere perché Beatrice è molto arrabbiata con lui. E lo chiama per nome, “Dante” al v. 55, è l'unica volta nella Commedia appare il nome del poeta perché, quando ci si confessa è necessario enunciare il proprio nome. E qui si inscena un vero e proprio processo a Dante. Beatrice è davvero molto rigorosa, come una mamma arrabbiata col figlio.

L’accusa principale che lei muove al poeta è quella di averla dimenticata: una volta che lei è morta, lui ha smesso di seguire la strada che lei gli indicava, la via verso la beatitudine, e si è dato ad altro tanto da cadere nel peccato e da ritrovarsi nella famosa selva. Dante viene colpito moltissimo da questi rimproveri che lui accetta come un figlio colpevole, ma piange, sviene, non riesce a parlare. Addirittura, a un certo punto, gli angeli dicono a Beatrice: perché lo strapazzi tanto? E lei ribatte: voi siete abituati a guardare Dio per l’eternità e siete senza peccato, ma lui ha bisogno di essere strapazzato, perché deve confessare le sue colpe con la sua voce. Perché è ovvio che Beatrice, che è una donna del cielo, conosce già le colpe di Dante. Dio conosce le colpe dell'uomo, ma solo se l'uomo le confessa autonomamente, può essere perdonato. Questo esame di coscienza lo dovrebbe fare ogni uomo che legge la Commedia per riconoscere i propri errori e redimersi. Dante scrive per tutti noi, non solo per lui stesso, e vuole prendersi carico delle nostre colpe. Non bisogna scordare che nell’Eden, davanti agli angeli, alla processione mistica e a Beatrice, che è un’inviata del cielo, non c'è solo il Dante uomo, ma c'è l'intera umanità perché Beatrice è simbolo di Cristo e Dante è simbolo dell'umanità.


Le colpe di Dante

Come mai Dante fa questa sorta di autoanalisi in cui si imputa di aver peccato, in cui fa dire a Beatrice: “perché tu, che eri nato sotto una congiunzione astrale favorevole e che avevi ricevuto da Dio enormi talenti, hai sprecato questi talenti per perseguire attività che non lo meritavano?”. Forse Dante imputava a sé stesso di aver amato altre donne per trovare sollievo dopo la scomparsa di Beatrice; in effetti, nella Vita nuova lui scrive che dopo la morte della donna egli ha cercato consolazione presso una donna gentile; però alla fine dell’opera, Dante dichiara di essere “tornato” ad amare Beatrice e a celebrarla e difatti ha una visione in cui la vede salire in cielo circondata d'angeli, un po' come l'immagine che abbiamo qua in purgatorio.

In realtà, senza stare a lambiccarsi il cervello, si potrebbe tornare alla Vita nuova per capire di cosa Dante si sentisse colpevole. Alla fine dell’opera, Dante scriveva: “Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. Dante alla fine della Vita nuova promette di scrivere in futuro un’opera per celebrare adeguatamente Beatrice. Ecco la colpa di Dante, simbolo di ogni altra colpa: dopo più di quindici anni dalla conclusione della sua opera giovanile, non aver ancora adempiuto alla promessa solenne di celebrare la gloria di Beatrice e la Commedia è proprio l'opera grazie alla quale Dante riesce a mantenere quella promessa.

Una volta confessate le proprie colpe, Beatrice attribuisce a Dante la missione di raccontare fedelmente agli altri uomini quel che ha visto il purgatorio. Ora Dante può accedere ai riti di purificazione: accompagnato da Matelda, beve l'acqua del fiume Lete che cancella il ricordo delle tendenze peccami. Poi beve l'acqua di un altro ruscello, l’Eunoè, che restaura il ricordo delle buone azioni. Dante è tornato puro come quando era nato: la purificazione dell'anima che si appresta ad andare in paradiso è una seconda nascita. Dante adesso è quindi pronto a salire in paradiso: “puro e disposto a salire ale stelle” (canto XXXIII).


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