giovedì 25 marzo 2021

LA "COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI- PARAFRASI E COMMENTO DELL'INFERNO

Struttura dell’Inferno

L’inferno è un baratro, un cono rovesciato la cui base è posta sotto l’emisfero delle terre emerse e il cui vertice giunge al centro della terra. Esso si formò (cfr. canto XXXIV) quando Lucifero, l’angelo più bello, si rivoltò contro Dio e fu scacciato dal cielo. Vedendo cadere Lucifero e gli angeli che, come lui, si erano rivoltati contro Dio, la terra si ritirò inorridita, dando vita alla voragine infernale.

L’inferno è diviso in dieci cerchi: il primo è detto “anti-Inferno”, mentre negli altri nove cerchi i dannati sono puniti con pene modulate nella maggior parte dei casi secondo il meccanismo del contrappasso, secondo la quale i castighi hanno una corrispondenza rovesciata con il peccato commesso. Per esempio, i lussuriosi, che in vita sottomisero la propria ragione al turbine della passione, sono condannati a essere eternamente sballottati da una terribile bufera.

 

L’anti-inferno

Dopo aver attraversato la porta che annuncia con parole “oscure” l’entrata nell’inferno, Dante incontra i primi dannati, i quali, però, stanno in una specie di anticamera dell’inferno. Si tratta difatti di peccatori talmente infami da essere disprezzati sia da Dio, sia dai diavoli: sono gli ignavi (pusillanimi), “color che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”, ovvero coloro che, in vita, non presero mai una posizione netta e che, per viltà, non abbracciarono mai un’opinione o un’altra, né si schierarono mai in modo chiaro da una parte o dall’altra.

 

Il Limbo

Dopo questo primo cerchio esterno, comincia l’inferno vero e proprio, i cui nove cerchi concentrici diventano sempre meno ampi mentre scendono verso il centro della terra. A mano a mano che si va verso il basso, le pene diventano più strazianti, perché più gravi sono le colpe punite.

La prima zona che s’incontra è il limbo, il luogo in cui vivono le anime di coloro che non conobbero la fede cristiana. Per la teologia tradizionale, nel limbo si trovano i bambini morti non battezzati e, temporaneamente, i giusti che credettero in Dio ma vissero nel periodo tra la morte di Abele e l’avvento di Gesù. Dante però opera un’aggiunta, poiché inserisce nel limbo anche scrittori, poeti, filosofi e personaggi che non conobbero la fede cristiana o che non si convertirono ad essa, ma furono ugualmente dei giusti, essendo stati uomini di grande cultura e saggezza. In questo modo Dante paga il suo tributo alla cultura classica della quale era imbevuto (un grande poeta “pagano”, Virgilio, sarà la sua guida nell’inferno e nel purgatorio), senza contravvenire ai dogmi della fede cristiana che non prevedono che un pagano, per quanto giusto e saggio, possa accedere al regno dei cieli. Gli abitanti del limbo non sono angustiati da nessuna pena corporale e scontano una pena spirituale: essi nutrono un grande desiderio di conoscere Dio, ma sanno che esso non potrà mai realizzarsi.

 

Spiegazione della nascita del peccato e sulla gerarchia tra i peccati

Dopo il limbo, iniziano i tormenti veri e propri. Ogni anima dannata giunge sulla riva del fiume Acheronte, da cui Caronte, tetro traghettatore infernale, la conduce nell’inferno. Poi le anime incontrano il mostruoso giudice infernale Minosse, il quale indica loro il cerchio cui devono dirigersi, cingendosi con la coda un numero di volte equivalente al numero del cerchio cui le anime sono destinate. Poiché la giustizia divina è molto precisa e rigorosa, ogni colpa ha una pena commisurata alla gravità del peccato commesso. Dante, tramite le parole di Virgilio (canto XI), spiega qual è la disposizione dei dannati nell’inferno e per quale motivo essi sono puniti.

L’uomo si distingue dagli altri animali perché possiede un’anima intellettiva (la ragione, per intenderci). In essa, e non nella parte passionale o vegetativa dell’anima, ha sede la volontà. Senza la ragione, l’uomo non potrebbe agire coscientemente, né compiere il male: gli animali e le piante, difatti, non commettono intenzionalmente azioni malvagie. Secondo Dante, l’uomo possiede una innata disposizione o inclinazione a fare il bene, perché l’amore è all’origine delle sue azioni e tale amore è parte dell’amore con cui Dio ama il mondo. Quando l’azione dell’uomo si dirige verso il bene più alto di tutti, ossia verso Dio, egli vive nella grazia divina e non può peccare.

Tuttavia, dal momento che l’uomo è dotato di ragione e di volontà nonché della capacità di scegliere come agire, egli è libero: è in questo ambito che nasce il peccato. Naturalmente, non tutti i peccati sono uguali, e Dante, in accordo con l’insegnamento della Chiesa, riconosce che sussiste una gerarchia tra di essi: nei primi cinque cerchi dell’inferno sono puniti i peccati “meno” gravi, quelli di incontinenza, che avvengono quando la parte razionale dell’anima è offuscata dalla parte passionale e risulta perciò debole o passiva. L’incontinente eccede nel godimento di beni che, di per sé, non sono peccaminosi (l’amore e il cibo, per esempio).

Più gravi sono i peccati riconducibili a quella che Dante chiama “malizia” (l’agire malvagio) e alla matta bestialitade, ossia rispettivamente alla frode e alle diverse forme di violenza. Nella violenza la ragione partecipa alla ideazione dell’atto, ma è la bestialità dell’uomo che lo porta a commettere il crimine. Da ciò deriva un incrudelimento delle pene per i violenti. Ancora più grave è il peccato di frode, nel quale la ragione stessa porta a termine l’inganno dopo attenta e accurata riflessione, diventando strumento del male. L’inganno può essere perpetrato ai danni di coloro che non hanno alcun rapporto di fiducia con noi oppure contro chi si fida di noi (familiari, amici o cittadini, nel caso in cui l’ingannatore sia un uomo di Stato), assumendo in questo caso i crismi del vile tradimento.

 

Cerchi I – V: i peccati di incontinenza

I peccatori incontinenti sono ospitati nei primi cinque cerchi. Tali peccati avvengono quando l’uomo impiega in modo improprio appetiti e istinti naturali. La ragione dell’incontinente, quindi, non è in grado, per passività o debolezza, di contrastare o correggere l’eccessivo amore portato verso i beni mondani: questo dimostra che l’amore stesso può essere causa di peccato. Per esempio, i lussuriosi sono coloro che eccedettero nel seguire il naturale desiderio d’amore, legittimamente finalizzato alla procreazione; i golosi esagerarono nell’impiegare il naturale istinto di nutrirsi per sopravvivere. Gli avari e i prodighi fecero un uso sbagliato della naturale tendenza a non sprecare il denaro, perché desiderarono ricchezze in maniera smodata. Ma ci sono pure coloro che vengono puniti perché amarono Dio in modo troppo tiepido, come gli accidiosi.

 

Cerchio VII: i peccati legati alla violenza

I peccatori che stanno nel settimo cerchio (diviso a sua volta in tre gironi) si macchiarono di colpe più gravi e difatti sono rinchiusi nella torrida città di Dite, presidiata da un esercito di diavoli. Il peccato di violenza è più grave di quello di incontinenza perché per commettere violenza è necessario un intervento attivo della ragione che spinga la volontà: nella violenza la ragione progetta l’atto e il braccio lo porta a termine. Si può commettere violenza contro una persona o contro i beni di questa persona. Dante colloca perciò nei tre gironi diverse tipologie di peccatori, partendo dal peccato meno grave a quello più grave. Ci sono i violenti contro il prossimo (gli assassini) o contro i beni del prossimo (ladri); i violenti contro sé stessi (i suicidi) o contro i propri beni (scialacquatori) e i violenti contro Dio (bestemmiatori), la natura (i sodomiti) e il lavoro o l’arte (gli usurai).

 

Cerchi VIII – IX: i peccati di malizia: i fraudolenti

Gli ultimi due cerchi, l’ottavo e il nono, ospitano i peccatori più terribili e spregiati. Essi commisero colpe legate alla malizia e alla frode, che sono più gravi sia della violenza che dell’incontinenza: si tratta dei fraudolenti, ovvero degli ingannatori. Essi peccarono perché utilizzarono la ragione, la facoltà nobile dell’uomo, per ideare gli inganni e i tradimenti più turpi. I peccati di frode sono più tremendi degli altri perché, mentre nell’incontinente la ragione è debole e nel violento essa progetta l’azione ma non la esegue, nella frode è la ragione sia a ideare l’atto che a portarlo a termine. Questo totale traviamento della facoltà razionale, usata per ingannare, destina i dannati alle pene più orrende.

Secondo Dante, nondimeno, anche tra i peccati di frode ci sono gradi diversi di gravità. I primi peccatori che egli incontra sono i fraudolenti contro chi non si fida. Essi sono rinchiusi nelle Malebolge. Nelle dieci bolge (cerchi o fosse concentriche) si trovano, tra gli altri, seduttori, adulatori, simoniaci (coloro che fecero commercio delle cose sacre, per esempio promettendo il perdono dei peccati in cambio di denaro), maghi e indovini, ipocriti, ladri, falsi consiglieri, seminatori di scandali e scismi, falsari di monete e di parole. Costoro hanno ingannato persone che non si fidavano di loro e che non avevano con loro legami né affettivi, né di parentela, né di amicizia.

I peccatori peggiori, quelli che occupano il nono e ultimo cerchio dell’inferno (in fondo al quale c’è Lucifero), sono invece i fraudolenti contro chi si fida. Essi patiscono le pene più dure. Se ingannare qualcuno è già di per sé assai grave, tradire qualcuno che si fida di noi (un familiare, un parente, un amico, la propria patria), è la cosa più ignobile che possa avvenire. Tutti costoro sono puniti nel lago Cocito, un’immensa distesa di ghiaccio posta al fondo dell’inferno, al cui centro troneggia il mostruoso Lucifero.

I traditori dei parenti occupano la zona detta Caina (dal nome di Caino che uccise il fratello Abele). Nella seconda zona, chiamata Antenora (dal nome dell’eroe mitologico Antenore che nel medioevo era – ingiustamente - ritenuto responsabile di avere convinto i troiani ad accettare il cavallo che i greci vollero donare loro), sono puniti i traditori della patria. Questi peccatori sono immersi fino al collo nel ghiaccio del lago Cocito, ma mantengono il viso eretto, mentre le loro lacrime si ghiacciano all’istante. Nella terza zona, la Tolomea (forse da Tolomeo, il signore d’Egitto che nel 48 a. C. fece uccidere a tradimento Pompeo, il nemico di Cesare), sono puniti i traditori degli ospiti. Essi sono bloccati nel lago ghiacciato a pancia in giù. Hanno inoltre sulle cavità oculari una barriera formata dalle lacrime ghiacciate (visiere di cristallo) che impedisce alle altre lacrime di fluire.

Infine, nella Giudecca, dove si trova immerso a metà nel ghiaccio Lucifero (o Satana), che assomiglia a un gigantesco marchingegno, sono puniti i peccatori peggiori di tutti: i traditori dei benefattori. Essi sono sepolti e irrigiditi nel ghiaccio, giacendo in diverse posizioni: chi in piedi, chi a testa in giù o all’insù. Tra costoro, i traditori per antonomasia sono Bruto e Cassio, che ingannarono Giulio Cesare, e soprattutto Giuda, che tradì Gesù. Essi vengono eternamente maciullati dalle tre mostruose bocche di Lucifero. Ma Giuda, che è il traditore più perverso, non viene solo masticato da Lucifero, bensì è quasi per intero dentro la bocca di Satana, tanto che la sua faccia non si può vedere.

Il tempo della Commedia

 

La vita di Dante (diminutivo di Durante) Alighieri (Firenze 1265-Ravenna 1321) si svolse in un periodo storico difficile sia per la sua città, Firenze, sia per l’Italia. Poiché la Commedia trabocca di riferimenti all’attualità del tempo (tanto da poter essere intesa, secondo Marco Santagata, come una sorta di instant-book ante-litteram), è opportuno accennare ad alcuni fatti storici che avvennero in Italia a cavallo tra XIII e XIV secolo.

Durante il ‘200, il clima politico europeo e italiano era influenzato dallo scontro tra guelfi e ghibellini. Queste due denominazioni erano nate in Germania attorno al 1125 quando, alla morte dell’imperatore Enrico V, si contesero il trono tedesco due famiglie: quella degli Hohenstaufen del Ducato di Svevia, i cui sostenitori furono chiamati “ghibellini” dal nome di un loro castello a Weiblingen, e quella dei duchi di Baviera, i Welfen, da cui sorse il termine “guelfi”. Gli Hohenstaufen volevano rafforzare l’autonomia dell’imperatore rendendolo indipendente dal papa, mentre i Welfen erano vicini al pontefice. Da quel momento, il termine “guelfi” estese il proprio significato sino a designare uno schieramento politico legato alla Chiesa di Roma in ottica anti-imperiale, mentre il termine “ghibellini” iniziò a indicare coloro che erano favorevoli all’imperatore e alla sua indipendenza dal papa. Tuttavia, dietro alle grandi questioni ideali, spesso le fazioni erano divise da interessi particolari, per cui le definizioni di “guelfi” o di “ghibellini” non avevano sempre una identità ideologica definita.

Più tardi, nel 1198 Federico Hohenstaufen (il futuro e celebre Federico II), rimasto orfano a soli quattro anni, assunse, come prevedevano le disposizioni testamentarie della madre Costanza di Altavilla, il titolo di re di Sicilia e fu posto sotto la tutela di papa Innocenzo III. Dopo essere stato cinto della corona imperiale nel 1220, Federico II (che era stato eletto re di Germania nel 1212 ed era inoltre re di Sicilia dal 1208), si allontanò dall’influenza di Roma (anche perché nel frattempo Innocenzo III era morto), dedicandosi a riorganizzare il regno di Sicilia, stabilendo sull’isola un governo forte, autoritario, oltre che culturalmente avanzato (a quell’epoca nacque e prosperò la scuola poetica siciliana).

Il rafforzamento del regno svevo in Sicilia e l’elezione a imperatore, permisero a Federico di controllare un territorio molto vasto, esteso in pratica dalla Germania al sud d’Italia, ad eccezione del Patrimonio di San Pietro, su cui aveva giurisdizione il papa, e dell’Italia settentrionale, sui cui Comuni tuttavia l’imperatore aveva molta influenza. L’estensione dei domini di Federico II preoccupò subito la Chiesa di Roma e rese diffidenti i Comuni italiani dell’Italia settentrionale, gelosi della loro autonomia. Per questo Federico II fu scomunicato diverse volte e fu considerato un eretico dai suoi avversari (Dante lo punisce come eretico ed epicureo nel sesto cerchio dell’inferno).

Queste vicende politiche influenzarono anche la Toscana e Firenze. Nella prima metà del XIII secolo la regione era sostanzialmente filoimperiale, ossia ghibellina, mentre Firenze era guelfa. Nel 1249 le truppe di Federico II rovesciarono il governo dei guelfi fiorentini, imponendo in città un governo ghibellino. Ma la morte dell’imperatore, avvenuta nel 1250, indebolì i ghibellini, tanto che i guelfi tornarono al governo di Firenze dopo il 1251.

La situazione di relativo equilibro seguita alla morte di Federico II si ruppe attorno al 1258 quando Manfredi, figlio naturale (non legittimo) di Federico II, ottenne la corona di Sicilia e di Puglia violando i diritti del legittimo erede Corradino di Svevia. Manfredi guidò la riscossa ghibellina: in Toscana, i ghibellini fuoriusciti da Firenze, tra cui c’era Manente (detto Farinata) degli Uberti (come si racconta nel canto X dell’inferno), si allearono con Siena e, aiutati dalla cavalleria imperiale, sconfissero i guelfi fiorentini in una terribile battaglia avvenuta a Montaperti nel 1260. Dopo questa disfatta, al concilio di Empoli i rappresentanti dell’imperatore proposero di radere al suolo Firenze, ma la proposta non passò per l’opposizione proprio di Farinata degli Uberti. Ad ogni modo i ghibellini, rientrati a Firenze, presero il potere attuando vendette contro i loro nemici. La riscossa guelfa non tardò: papa Clemente IV offrì la corona del regno meridionale a Carlo d’Angiò, duca di Provenza e fratello del re di Francia; incoronato a Roma nel gennaio 1266, Carlo cominciò la guerra contro Manfredi. Lo scontro decisivo avvenne a Benevento in febbraio, quando le truppe di Carlo d’Angiò sconfissero gli imperiali (Dante parla di questo scontro nell’inferno, canto XXVII), uccidendo Manfredi (che Dante colloca in purgatorio). Due anni dopo a Tagliacozzo, in Abruzzo, fu sconfitto pure Corradino di Svevia.

La battaglia di Benevento segnò una disfatta per la fazione ghibellina in Italia, nonché la fine del potere della casata Sveva. A Firenze il ritorno dei guelfi comportò il solito strascico di vendette, violenza, bandi e morte contro i ghibellini superstiti. Particolare accanimento venne riservato ai discendenti di Farinata (che nel frattempo era morto nel 1264). La vittoria dei guelfi determinò altresì un periodo di pace e stabilità, che favorì lo sviluppo dell’attività mercantile e finanziaria, tanto è vero che le compagnie bancarie fiorentine trafficavano in quel tempo con tutta Europa, imponendo quale moneta predominante il fiorino d’oro.

In realtà i ghibellini, benché sconfitti e ridotti di numero, mantenevano ancora delle roccaforti in Italia. Una di queste era la Romagna, che per una decina d’anni, grazie a Guido da Montefeltro (che Dante mette tra i consiglieri di frode nell’ottava bolgia del cerchio VIII, vedi canto 27 dell’inferno), oppose resistenza al tentativo del papa di assoggettarla. Solo verso il 1283, dopo l’intervento dei francesi, il papa domò la Romagna.

Nel frattempo, nel 1281 l’imperatore tedesco Rodolfo d’Asburgo riprese a interessarsi dell’Italia e ciò donò ai ghibellini la speranza di poter riprendere la lotta. In Toscana il centro nevralgico delle fazioni ghibelline divenne Arezzo, che diede filo da torcere alle altre città della regione, finché queste le mossero guerra. Gli aretini, guidati da Buonconte di Montefeltro (che Dante incontrerà nel purgatorio, canto quinto), ottennero una prima vittoria nel 1288 presso la Pieve del Toppo (Dante accenna a questo fatto nel canto 13 dell’inferno); poi però i guelfi toscani vinsero lo scontro decisivo a Campaldino nel 1289 (battaglia alla quale partecipò Dante stesso), sbaragliando i loro avversari.

Questa vittoria ridimensionò le velleità ghibelline in Toscana; Firenze si volse allora contro Pisa (già indebolita dalla sconfitta subita contro Genova nel 1284), al tempo governata dal vescovo ghibellino Ruggieri degli Ubaldini (colui che imprigionò e fece morire di fame il conte Ugolino della Gherardesca e i suoi figli, vedi canto 33 dell’inferno). La battaglia tra Firenze e Pisa continuò per alcuni anni, finché Firenze risultò vincitrice e capace di conquistare alcuni castelli pisani, tra cui quello di Caprona nel 1289 in Valdarno (a questa battaglia fu presente Dante, secondo quanto dice nel canto 21 dell’inferno).

Nel 1293 a Firenze, quando la città era da anni in mano al partito guelfo, fu varata una riforma politica che creò gli Ordinamenti di giustizia. Questi provvedimenti scaturirono dai dissidi tra la nuova borghesia dedita al commercio, sempre più ricca benché lontana dalle leve del comando cittadino, e l’aristocrazia, ossia i magnati, le famiglie ricche di antico lignaggio, che si identificavano quasi del tutto col partito guelfo al potere. Gli Ordinamenti esclusero di fatto dal governo della città i magnati, poiché stabilivano che per ottenere una carica pubblica bisognasse essere iscritti a un’Arte di mestieri ed esercitare effettivamente quel mestiere (Dante, che proveniva da una famiglia benestante ma non nobile, si iscrisse alla corporazione dei Medici e degli Speziali). L’approvazione di questi provvedimenti creò tensioni a Firenze: i magnati reagirono, arrivando nel 1295 a imporre il bando e la condanna a morte di Giano della Bella. In quello stesso anno le prescrizioni contenute negli Ordinamenti furono attenuate: rimase l’obbligo di iscrizione a un’Arte di mestieri, non quello di svolgere un mestiere. Dante, che proprio in quel periodo aveva cominciato a occuparsi di politica, si dichiarò favorevole a questa modifica, come è attestato dal verbale di un suo intervento al consiglio generale del Comune del luglio 1295.

Come detto, attorno al 1295, Dante, dopo essersi fatto conoscere in città grazie alle sue rime e soprattutto all’opera Vita Nova (scritta tra il 1292 e il 1295 e dedicata al suo amore per Beatrice, una donna di nome Bice, figlia di Folco Portinari), cominciò a partecipare alla vita politica di Firenze. In quel periodo i guelfi fiorentini non erano più uniti in un’unica fazione, ma s’erano divisi in due schieramenti che più tardi assunsero le denominazioni di guelfi Neri e guelfi Bianchi, denominazioni derivate da quelle in auge nella città di Pistoia.

I Neri di Firenze erano capeggiati da Corso Donati, uomo impulsivo e rissoso, che aveva combattuto valorosamente nella battaglia di Campaldino del 1289. Essi potevano contare sull’appoggio di papa Bonifacio VIII (pontefice dal 1294 al 1303), legato alla potente famiglia dei banchieri Spini, appartenente anch’essa alla parte nera. I guelfi Bianchi avevano invece come loro capo Vieri de’ Cerchi, la cui famiglia, benché molto ricca, era giunta in città da non molto tempo. Dante non apparteneva né all’una né all’altra fazione in modo ufficiale anche perché sua moglie, Gemma Donati, era imparentata con Corso Donati, il capo dei Neri, mentre un suo carissimo amico, Forese Donati, era addirittura il fratello di Corso.

Nel 1299 Corso Donati, che di fatto in quel momento aveva in mano la città, fu allontanato da Firenze a causa di uno scandalo giudiziario. Da allora, stante la lontananza del capo di parte nera, i guelfi Bianchi presero in mano il potere cittadino. La tensione tra i Bianchi e i Neri era destinata a crescere, fino all’incidente avvenuto nel maggio 1300, allorché, durante la festa di Calendimaggio, sodali della famiglia Donati assalirono alcuni uomini dei Cerchi. Questo fatto fece esplodere i conflitti latenti in città.

Proprio in quel frangente temporale, Dante fu eletto fra i sei Priori per il bimestre 15 giugno-15 agosto 1300. Il poeta, pur essendo contrario alla politica di Bonifacio VIII in favore dei Neri, sembra abbia mantenuto un atteggiamento alquanto imparziale nelle lotte fra i due schieramenti; per questo, dopo la rissa del maggio 1300, fu fautore del confino per gli esponenti più facinorosi di entrambi i partiti (Corso Donati non venne esiliato perché si trovava già fuori Firenze, mentre Vieri de’ Cerchi poté rimanere in città). Venne esiliato pure Guido Cavalcanti, già amico di Dante e suo maestro di poesia (appartenente a una delle più ricche e potenti di Firenze), il quale morì di malaria a Sarzana nell’estate 1300 (oppure si ammalò a Sarzana in estate e morì qualche mese dopo a Firenze). Dopo questi bandi, i priori consentirono tuttavia ai Bianchi di tornare in città, consegnando loro di fatto il governo cittadino, dato che i capi dei Neri rimasero lontani da Firenze più a lungo, almeno stando a quanto riferisce il cronista dell’epoca Giovanni Villani, mentre un altro cronista, Dino Compagni, sostiene che gli esponenti dei Bianchi e dei Neri tornarono assieme in città.

Durante il governo dei Bianchi, Dante portò a termini alcuni incarichi pubblici, come quello di ambasciatore a San Gimignano per rafforzare i rapporti con la parte guelfa della Toscana. Saranno queste missioni svolte per i Bianchi a farlo bollare dai Neri, una volta giunti al potere, come nemico. È quasi certo che Dante avesse a cuore soprattutto l’autonomia del comune fiorentino più che il destino dell’una o dell’altra fazione; nondimeno, di fatto la sua attività politica fra il 1300 e il 1301 fu affine alla parte bianca, che forse lui riteneva più adatta a preservare gli interessi del comune fiorentino.

Il dominio dei Bianchi era destinato a durare poco. Bonifacio VIII, infatti, riuscì a inviare a Firenze Carlo di Valois (1270-1325), fratello del re di Francia Filippo il Bello, con lo scopo ufficiale di pacificare la città. In realtà, Carlo di Valois e il suo esercito favorirono la riscossa armata dei Neri, i quali, tra il 4 e il 9 novembre 1301, presero il potere a Firenze. I capi dei Neri vollero vendicarsi dei loro nemici: ci furono espulsioni, processi, condanne, esecuzioni, vendette private e danni alle case dei Bianchi.

Dante in quei giorni si trovava a Roma, in attesa di essere ricevuto da Bonifacio VIII, con il compito di trattare con il pontefice affinché pacificasse Firenze. Intenzionato a difendere la libertà del comune fiorentino, Dante non sapeva che, mentre lui aspettava di parlare col papa, i Neri stavano sconfiggendo i Bianchi. Il poeta non ritornò più a Firenze: convocato in città dal podestà scelto dai Neri, Cante de’ Gabrielli da Gubbio, per essere processato (sembra per baratteria, cioè appropriazione di beni pubblici e per essersi opposto sia a Carlo di Valois che al papa), Dante si rifiutò di tornare. Venne perciò condannato nel gennaio 1302, mentre a marzo fu condannato a morte in contumacia, con la minaccia che se fosse tornato a Firenze sarebbe stato arso sul rogo. Da allora e per quasi vent’anni, Dante visse lontano da Firenze, soprattutto dopo il fallimento definitivo del tentativo, esperito dai Bianchi tra il 1302 e il 1304, di rientrare a Firenze.

Dopo il 1302 Dante seguì le vicende della parte bianca, divenendone consigliere e risiedendo prima ad Arezzo, poi forse a Forlì presso colui che venne nominato capo dei Bianchi, ossia Scarpetta Ordelaffi (che era succeduto in questo incarico ad Alessandro Guidi di Romena, deceduto forse nel 1302). Tra il 1302 e il 1303, Dante forse fu inviato a Verona presso Bartolomeo della Scala per siglare un’alleanza tra i guelfi Bianchi e il signore veronese. La missione, se realmente ci fu, sembra comunque non aver avuto esito felice, dato che Bartolomeo morì nel marzo 1304. 

Nel frattempo, scomparso Bonifacio VIII nel 1303, il nuovo papa Benedetto XI aveva incaricato nel marzo 1304 il cardinale Niccolò da Prato di adoperarsi per mettere pace tra Bianchi fiorentini esiliati e Neri. Questa nomina aveva ridato entusiasmo alla parte bianca e anche ai fiorentini che erano stanchi di vivere in una città in preda a scontri e vendette. Probabilmente lo stesso Dante pensò che la nomina del cardinale gli avrebbe consentito un ritorno in patria e dunque sembra che, proprio per questo motivo, abbia abbandonato Verona per tornare in Toscana, ad Arezzo, da dove redasse una lettera al cardinale su delega della parte bianca.

Ma l’anno 1304 sarà foriero di delusioni per Dante e i Bianchi: il tentativo pacificatore di Niccolò da Prato fallirà per l’opposizione della parte più radicale dei Neri, che vedeva nel solito Corso Donati il protagonista negativo della situazione. Esausto, il cardinale abbandonerà Firenze lanciando l’interdetto contro la città (forse Dante accenna a questo fatto nel canto 26 dell’inferno). Inoltre, dopo aver subito una prima sconfitta nel 1303, la parte bianca, assieme ai ghibellini e a soldati aretini e bolognesi, venne battuta nell’estate 1304 nella battaglia della Lastra, alle porte di Firenze. Ma in quel momento Dante aveva già rotto con i Bianchi, forse per divergenze sulla strategia militare. La sconfitta dei Bianchi segnò la fine delle loro speranze di rientrare in città.

Nell’anno 1304 cominciò l’esilio vero e proprio. Sull’esilio di Dante ci sono molte meno notizie rispetto a quelle, comunque non abbondanti, sulla sua vita a Firenze: i documenti scarseggiano, le fonti non sono sempre attendibili e gli studiosi moderni spesso presentano idee diverse. Di certo egli vagò per molti anni risiedendo presso diversi signori e principi in Italia (forse si recò anche in Provenza), spesso prestando alla corte la sua opera di uomo di studi, altre volte intervenendo con alcune Epistole sulla situazione politica italiana. Quel che certo è che Dante non ritornò mai più a Firenze.

 

Uno dei primi biografi di Dante è stato Giovanni Boccaccio, le cui notizie sono ritenute dagli storici in genere attendibili. Boccaccio, nella opera Trattatello in laude di Dante, fornisce questo ritratto del poeta:

Fu il nostro poeta di mediocre [=media] statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona (essendo già divulgata per tutto la fama delle sue opere, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne) che, passando egli davanti ad una porta, dove più donne sedevano, una di quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse all'altre donne: - Vedete colui che va in Inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù sono! - Alla quale semplicemente una dell’altre rispose: - In verità egli dee così essere: non vedi tu come egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo [=fumo] che è là giù? - Di che Dante, perché da pura credenza venir lo sentia, sorridendo passò avanti.

Li suoi vestimenti sempre onestissimi furono, e l’abito conveniente alla maturità, e il suo andare grave e mansueto, e ne’ domestici costumi e ne’ publici mirabilmente fu composto e civile. Nel cibo e nel poto fu modestissimo. Né fu alcuno più vigilante [=assiduo] di lui e negli studi e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse [=si impegnasse]. Rade volte, se non domandato, parlava, quantunque eloquentissimo fosse.

Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e, per vaghezza [=desiderio] di quegli, quasi di tutti i cantatori e sonatori famosi suoi contemporanei fu dimestico [=amico]. Quanto ferventemente esso fosse da amor passionato, assai è dimostrato di sopra. Solitario fu molto e di pochi dimestico. E negli studi, quel tempo che lor poteva concedere, fu assiduo molto.

Fu ancora Dante di maravigliosa capacità e di memoria fermissima, come più volte nelle disputazioni in Parigi e altrove mostrò. Fu similmente d’intelletto perspicacissimo e di sublime ingegno e, secondo che le sue opere dimostrano, furono le sue invenzioni mirabili e pellegrine assai. Vaghissimo [=desideroso] fu e d’onore e di pompa, per avventura più che non si appartiene a savio uomo.





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