venerdì 27 agosto 2010

Cesare Pavese sessant’anni dopo



Lo steddazzu

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossate il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Vai la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

Cesare Pavese si è tolto la vita a Torino il 27 agosto 1950 a quarantadue anni. Sono passati sessant’anni, ma egli è ancora presente nella cultura italiana. Mi piace ricordare la sua figura con questa poesia; forse Pavese è apprezzato più come narratore che come poeta, ma io credo che il suo modo di verseggiare sia raffinato, anche se lontano dagli stilemi ermetici o simbolisti. Il suo interesse per la letteratura americana (celebre è la sua attività di traduttore, nonché l’interesse per la Spoon River Anthology, poi tradotta per Einaudi da Fernanda Pivano con Pavese come mentore) lo ha reso poeta-narratore, dal verso pieno, cadenzato, quasi privo di metafore, simboli o di oscuri riferimenti poetici.
La poesia è stata scritta nel 1936, durante il confino a Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria (il titolo è nel dialetto del luogo). Penso sia un capolavoro come poesia dell’angoscia di esistere e della noia; di certo il confino, costringendo lo scrittore all’inattività, acuiva il senso di incompletezza di se stesso che egli percepiva sempre vivissimo. Ma il poeta qui trasferisce sul pescatore la sua angoscia, quasi a voler dire che l’angoscia esistenziale non abbandona mai l’uomo, sia che egli viva immerso nella brulicante città, sia che viva da intellettuale, sia che viva come povero pescatore.
L’angoscia è resa, nella poesia, creando un’atmosfera di attesa indefinita, vana, e un sentimento del tempo greve, sottolineata dalla esasperante “lentezza dell’ora”, dalla domanda “Vai la pena che il sole si levi dal mare/e la lunga giornata cominci?”, e poi dalla certezza che oggi sarà come ieri, cioè nulla accadrà, come avverte l’incipit della seconda strofa. È l’idea per cui l’attesa vana, l’inerzia dell’esistenza, la vita che non fluisce, l’indifferenza, la mancanza di sentire, è qualcosa di ben peggiore anche del dolore, della sofferenza. Ne Il mestiere di vivere leggiamo, alla data del 30 ottobre 1940: “La forza dell’indifferenza! – è quella che ha permesso alle pietre di durare immutate per milioni di anni”. L’apatia come scelta imposta diventa la vera condanna a morte. Questa poesia è un cammeo, un’altra dimostrazione della sensibilità acuta, forse troppo acuta, di Cesare Pavese.
A proposito della sua poesia, egli afferma il 10 novembre 1935, che “Se una figura c’è nelle mie poesie, è la figura dello scappato di casa, che ritorna con gioia al paesello, dopo averne passate d’ogni colore e tutte pittoresche, pochissima voglia di lavorare, molto godendo di semplicissime cose, sempre largo e bonario e reciso nei suoi giudizi, incapace di soffrire a fondo, contento di seguir la natura e godere una donna, ma anche contento di sentirsi solo e disimpegnato, pronto ogni mattino a ricominciare”.

Pavese si uccide con un colpo di pistola. Forse a causa dell’ultima delusione amorosa? Di certo non solo per quella, ma non lo sapremo mai, né dovrebbe interessarci. Il suicidio è un atto intimo e personale: non conta stabilire se Pavese si sia ucciso per una pena d’amore (l’ennesima) o per altro; è certo che, sia ne Il mestiere di vivere, sia nelle poesie di Lavorare stanca, si colgono riferimenti al suicidio. Soprattutto penso a una poesia del 1940, Il paradiso sui tetti:

Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda
come il sole che nasce o che muore, e il vetro
chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo.

Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre,
nel tepore dell'ultimo sonno: l’ombra
sarà come il tepore. Empirà la stanza
per la grande finestra un cielo più grande.
Dalla scala salita un giorno per sempre
non verranno più voci, né visi morti.

Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
di un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
appiattati così come vecchia brace
nel camino. Il ricordo sarà la vampa
che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.

Chissà se, scrivendo queste righe il 24 aprile 1936, Pavese fosse del tutto sincero: “Bisogna avere la smania dell’autodistruzione. Non parlo del suicidio: gente come noi innamorata della vita, dell’imprevisto, del piacere di ‘raccontarla’, non può arrivare al suicidio se non per imprudenza. E poi, il suicidio appare ormai come uno di quegli eroismo mitici, di quelle favolose affermazioni di una dignità dell’uomo davanti al destino, che interessano statutariamente, ma ci lasciano a noi”.
Rimane la sua fama, la sua grande capacità di raccontare con uno stile rapido ma meditato, allergico ai verbalismi, alla logorrea oratoria; diretto, incisivo, chiaro, all’americana. E rimane l’immagina di un uomo tormentato, inquieto, deciso a non sopportare il peso della vita. Pavese sapeva di aver dato molto agli uomini, ma non era felice, aveva ricevuto poco oppure non aveva voluto ricevere nulla. Scrive il 16 agosto 1950, undici giorni prima di uccidersi: “La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”. E il 18 agosto, le ultime righe scritte nel suo diario recitano: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”

lunedì 23 agosto 2010

Jean-Paul Sartre, “Nascita di un pensiero totalitario”



Questo frammento scritto da Sartre per un romanzo mai portato a termine, che si sarebbe dovuto intitolare "Una strana amicizia", è assai significativo; con lucidità l’autore mostra come, nella mente di un uomo, possa emergere e radicarsi un pensiero totalitario. Siamo nel 1941 all’incirca. Il personaggio principale, Brunet, è prigioniero con altri francesi in un lager tedesco durante la seconda guerra mondiale. È riuscito a organizzare alcune cellule di dissenso che fanno politica, propaganda antitedesca con estrema attenzione. Alle cellule partecipano individui di diverse idee: socialisti, radicali, democratici, comunisti. Essi sembrano accomunati dalla convinzione che, vista la situazione del paese (la Francia è occupata per metà dai tedeschi e per metà è in mano al governo collaborazionista di Vichy), è bene unire le forze democratiche per combattere il nemico, in attesa della fine della guerra. 
Ma poi nel campo arriva un capo comunista, Chalais, che, con apparente bonomia e delicatezza, mette in discussione il lavoro di Brunet; poi lo sconfessa del tutto, sottraendogli pian piano l’appoggio degli altri prigionieri. Perché il PCF è il partito più forte, l’unico organizzato in clandestinità e non può accettare di fare politica con democratici, socialisti e seguaci di De Gaulle. Per Chalais i gollisti francesi sono peggiori dei nazisti i quali hanno il “merito”, secondo lui, di chiudere un occhio e di lasciare uscire L’Humanité in clandestinità a Parigi. Il pezzo è illuminante non solo storicamente (nel 1939 il patto di non belligeranza tra nazisti e URSS influenza evidentemente le considerazioni di Chalais), ma anche psicologicamente, perché illumina quale sia la genesi della mentalità totalitaria, quella che porta un individuo ad annullare se stesso e a sposare un’idea altrui fino alle estreme conseguenze.
Brunet, infatti, cede a Chalais e quasi si convince che ha ragione; ma il partito lo vuole fare fuori, perché lo considera un traditore e, alla fine, lo “vende” ai tedeschi, solo perché non ha seguito le direttive del PCF e ha avuto rapporti con un uomo che era stato espulso dal partito.
Nella sua follia, che però esprime la linea dei comunisti francesi, Chalais dice che l’URSS non fa la guerra alla Germania perché non vuole far trionfare i porci capitalisti inglesi e americani. E, secondo lui, l’URSS non entrerà mai in guerra. Chi non la pensa così, come Brunet, non è un uomo che ha una legittima opinione, ma un traditore da eliminare.


Chalais sorride, Brunet lo guarda con curiosità: come farà incastrarmi? Di colpo Chalais si alza, afferra con un braccio suo pastrano ed esce senza dire una parola. Brunet esce subito dopo di lui e si tuffa nel sole. Sarà sconfitta [per lui]. Demoralizzeranno i compagni e sarà sconfitta lo stesso. Guarda in fondo a sé quel pensiero ostinato che ritorna cento volte al giorno, quella palla vitrea e molle, appiccicata al pavimento, senza difesa: la potrebbe schiacciare col tacco, è così tenero un pensiero, così trasparente, così sfumato, così privato, così complice, che non sembra proprio che esista per davvero: e io mi perdo per una cosa del genere! Ma penso davvero che l’Urss sarà sconfitta? O forse ho solo paura di pensarlo? E se anche lo pensassi, che importanza ha? Un pensiero in una testa è uno zero, un’emorragia interna, niente a che vedere con una verità. Una verità è pratica, si dimostra con l’azione; se avesse ragione, si saprebbe, potrebbe cambiare il corso delle cose, influenzare il Partito. Io non posso fare niente, quindi ho torto. Affretta il passo, si rassicura: non è niente di grave. Idee ne ha sempre avute, come tutti, erano la muffa, le scorie della sua attività cerebrale; solo che non ne occupava, le lasciava ammuffire in cantina. Ebbene, adesso le rimetterà al loro posto e tutto si sistemerà: resterà nella linea, si atterrà alla disciplina e si terrà le sue idee dentro senza farne parola con nessuno, come una malattia vergognosa. Non andrà più in là, non può andare più in là: non si pensa contro il Partito, i pensieri sono parole, le parole appartengono al Partito, è il Partito che le definisce, è il Partito che le presta; la Verità e il Partito sono la stessa cosa. Cammina, è contento, si distrae: baracche, facce, cielo. Il cielo gli irrompe negli occhi. Dietro a lui, dimenticate, le parole si radunano e chiacchierano sole: visto che non conta, visto che è inefficace, perché non vai fino in fondo al tuo pensiero? Si ferma di scatto, si sente strano. Deve essere così per quei tipi che credono di essere Napoleone: si sforzano di ragionare, dimostrano a se stessi che non sono, che non possono essere l’imperatore. Poi, appena hanno finito, sentono una voce dietro la schiena: «Buongiorno, Napoleone». Si volta verso il suo pensiero, lo vuoi guardare in faccia: se l’Urss fosse sconfitta...
Spacca il tetto, fila nel buio, esplode, il Partito è sotto di lui, una gelatina vivente che copre il globo, non l’avevo mai vista, ci stavo dentro; gira attorno a quella gelatina peritura: il Partito può morire. Ha freddo, gira: se il Partito ha ragione, sono più solo di un folle; se ha torto, tutti gli uomini sono soli e il mondo è fregato. Spunta la paura, lui gira in tondo, si ferma ansimante e si appoggia a una baracca: cosa mi è successo?

tratto da: La mia guerra, Einaudi, Torino 1994, pp. 110-111

martedì 10 agosto 2010

Mario Rigoni Stern "Ritorno sul Don"



«Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un'infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita».

Questo è l’epilogo dell’ultimo racconto di un libro di Mario Rigoni Stern (1921-2008), Ritorno sul Don. Molti di noi hanno letto Il Sergente nella neve, o magari avranno visto nel 2007 lo spettacolo di Marco Paolini. Rileggendo le pagine di Rigoni Stern, ho avuto l’impressione di leggere le parole di uno scrittore vero, di un autentico letterato. E lo dico perché nel 1953, presentando Il Sergente appena uscito per Einaudi, Elio Vittorini scriveva che probabilmente Rigoni Stern poteva scrivere solo di cose che gli erano realmente accadute, lasciando intendere che non fosse un vero scrittore.
Giudizio autorevole, sì, ma forse riduttivo; d’altra parte, sfogliando le storie di Ritorno sul Don, si ha l’impressione, è vero, di leggere le parole di un uomo che parla di cose che conosce bene perché accadute a lui o perché a lui note. Ma c’è anche molta letteratura; Rigoni Stern non è stato solo un alpino, un amante della natura, ma uno scrittore autentico.
Ritorno sul Don, libro uscito nel 1973, è un viaggio nella memoria dell’autore, ma non solo. È un viaggio nello spazio. In quelle pagine torna il racconto drammatico (ma talvolta timidamente epico) della ritirata dalla Russia, ma vi sono anche le vicende di altre persone, che hanno combattuto in guerra, sia in Italia che in Russia. C’è la storia di quel caporale di un gruppo di alpini italiani che, trovato rifugio presso un’isba in Russia, incontra un uomo, un compaesano, che scopre essere suo padre. Questi aveva combattuto per gli austriaci nel 1914 (essendo nato in Trentino), poi era scappato in Russia, e in Italia nessuno aveva saputo più nulla di lui. E quest’uomo aiuta gli italiani guidati dal figlio ritrovato, li fa fuggire, affinché non cadano in mano ai partigiani.
C’è la storia degli ebrei mandati al confino ad Asiago che, tra il 1942 e il 1943, stringono amicizia con gli asiaghesi, che li ospitano nelle loro case. Poi, dopo l’8 settembre ’43, questi ebrei fuggono tutti, e di loro si sapranno notizie frammentarie: qualcuno è morto, qualcuno disperso, qualcuno trucidato alle Ardeatine, qualcuno è sopravvissuto. E poi c’è la storia del “Moretto”, un ragazzo, un conoscente dell’autore, che ha fatto la Resistenza tra Veneto e Trentino e che nel 1944 scompare. L’autore e altri suoi compagni di lotta, però, non si rassegnano a questa scomparsa e lo cercano, finché nel 1946 ritrovano il suo corpo in un vallone della Valsugana: «Lo portammo giù tra la pioggia gelida e la grandine; alla chiesetta degli alpini del Bassano ci fermammo per ripararci dal temporale. Sul camion lo coprimmo di fiori gocciolanti e due giorni dopo ebbe un funerale che nemmeno un re avrà mai».
Le pagine dei racconti di Ritorno sul Don scorrono via delicate ma intense: la guerra in Russia è sempre sullo sfondo delle vicende narrate; la morte aleggia continuamente, ma vi è anche la vaga idea di poter un giorno ritrovare tutti gli amici scomparsi. La coscienza di essere uno dei pochi sopravvissuti, una specie di intruso, è poi sempre viva nello scrittore, che mai si compiace di questa sua “fortuna”. Rigoni Stern scrive con un tono dimesso, schietto, come se si sentisse in colpa per avercela fatta, mentre il ricordo dei suoi commilitoni e compagni morti è assai pungente, indelebile dalla sua anima.
Chi non ha vissuto esperienze al limite tra vita e morte non può capire certi sentimenti; può solo intuirli. E immaginare che il ritorno a casa, il ritorno alla normalità, non dia alcuna vera gioia. Perché il trauma è stato enorme, il terrore per il pericolo scampato è vivido, come il dolore per quelli che non ce l’hanno fatta. E poi, sembra suggerire l’autore, si torna alla “normalità” (questa parola così deprimente) in modo banale. Nel Ritorno sul Don, l’autore ricorda che, dopo la guerra, un giorno sente un rumore forte provenire da un bosco; sussulta, ma poi s’accorge che si tratta del rumore causato da una scure, e capisce che la guerra è davvero finita, che non è il rumore di una mitragliatrice. E così torna alla vita: «Una mattina sentii battere una scure sul fianco del monte: un rumore nuovo. La scure di un legnaiolo, non la mitragliatrice, e lo avevo percepito».
E poi, malgrado tutto, il tempo scorre. La vita va avanti. Dopo tanti anni, il freddo non è più un’ossessione e la neve di Asiago è tornata a essere un’amica, sulla quale Rigoni Stern ama andare a sciare; ma lui sa che deve fare i conti con il proprio passato, con se stesso, perché tante cose sono rimaste in sospeso. E allora, dopo quasi trent’anni, decide di tornare dove ha combattuto, in quella zona della Russia (allora era l’URSS) tra la città di Charkov e il fiume Don, dove Rigoni Stern combatté con i suoi compagni alpini e da cui ebbe poi inizio la tremenda ritirata del gennaio 1943. L’ultimo racconto del libro, eponimo dell’intera raccolta, descrive proprio questo viaggio nel tempo dell’autore, questa immersione nei suoi ricordi e nel suo spirito.
È un viaggio diverso da quello di trent’anni prima: ora si viaggia su un treno comodo, si attraversa l’Ucraina con agio, al caldo, si arriva a Kiev in autunno; ma l’autore non vuole fare i percorsi turistici, bensì tornare dove sono sepolti i suoi compagni, dopo Charkov, verso il Don, per ritrovare i luoghi, e riassaporare quei tempi, pieni di drammi, è vero, ma anche di amicizia, di condivisione di un’avventura, tragica e infinita. Le autorità sovietiche gli offrono una macchina, un’interprete, un autista. Mario Rigoni Stern e la moglie si dirigono verso quei posti; sono zone spesso ancora isolate, dove immense praterie si alternano a piccole città. Ma i ricordi della guerra ci sono ancora, nei luoghi e nei abitanti. Per l’autore quasi nulla è mutato: riconosce i luoghi, vede i segni degli scavi delle loro trincee, rievoca con nostalgia e dolore quei giorni, il rumore degli spari, la concitazione della battaglia, le disavventure che sono capitate a lui, ai suoi compagni. Rievoca la morte, ricorda che era una possibilità sempre viva, sempre sul punto di realizzarsi, eppure raramente avvertita dai soldati. La morte era sugli alberi, dietro un cespuglio, sul torrente gelato, nella neve. Ovunque e in nessun luogo. La morte come presenza costante, quasi discreta e talvolta, per qualcuno, come porto di pace. Forse era inevitabile non temerla e diventare fatalisti. Nel Sergente, durante un combattimento, l’autore ricorda di essere rimasto un po’ distaccato dagli altri suoi compagni; le pallottole fischiano attorno a lui. E lui pensa ogni volta che sente uno sparo “Adesso muoio…”, e trattiene il fiato. È questa l’esperienza della morte: un attimo con il respiro sospeso e il cuore fermo? Ma l’autore non morirà; tanti altri, invece, abbandoneranno la vita. Rigoni Stern, in Ritorno sul Don, ricorda, con leggerezza, senza odio, né risentimento, i tanti compagni sfiniti dal freddo e dalla fame, che a un certo punto si adagiavano nella neve per riposare, e non si svegliavano più.
È interessante notare che sono spesso le voci che l’autore rievoca, i rumori, gli odori. E si capisce quanto sia difficile essere dei sopravvissuti: si avverte in sé un senso di colpa, irrazionale eppure vivido, che non dà quasi mai tregua. Chissà allora se è davvero un privilegio essere sopravvissuti a quelle tragedie. Primo Levi sapeva che la sopravvivenza era frutto di casualità, di fortuna, non di merito e che dai lager erano tornati spesso i meno onesti, quelli che erano riusciti a fare di più i “furbi”, a sgomitare per andare avanti. In Primo Levi questo senso di colpa non si è mai calmato e l’ha indotto a uccidersi nel 1987. Anche Jean Améry si è suicidato tanti anni dopo essere tornato dal lager, nel 1978.
Rigoni Stern ha combattuto e lottato per salvarsi; dopo la ritirata di Russia, è stato prigioniero in un campo di concentramento tedesco per un anno: per questo anche lui è un sopravvissuto che, dopo quasi trent’anni, cerca di tributare ai suoi compagni gli onori che meritano: «Ecco, da qui, a ogni gruppo di isbe è legata la nostra storia; una storia di alpini della Julia, della Cuneense, della Tridentina, del Cervino. Siamo passati per ogni pista e i nostri nomi gridati nella tormenta di queste steppe. Morte, speranza, disperazione, fatalismo. Chi potrebbe dire tutto? Nessuno. Nessuno saprà tutto. E per tutti e per ognuno una storia diversa. Ed eravamo in tanti».
E quando si trova da solo, in un tramonto autunnale freddo, dai coloro sgargianti, l’autore, a un certo punto, nomina uno a uno i suoi compagni, nella solitudine silenziosa della steppa russa. Loro non gli rispondono a voce, ma lui ne avverte la presenza, li sente dormire, riposare sotto quella terra. Ed è come se finalmente trovasse un attimo di pace, come se avesse saldato un debito, come se, per un momento, si fosse unito nuovamente a loro, per bere vino, mangiare polenta, dire battutacce nei vari dialetti italiani, come se alla fine tutti, tranquillamente, sani e salvi, fossero tornati a baita.
Ma non è così; e poi è notte, l’interprete, l’autista e sua moglie sono stanchi, vogliono ritornare in albergo. Rigoni Stern risale in automobile, però forse si sente meno solo e meno incompreso. E può salutare i suoi compagni, quelli che non sono arrivati a baita: “Dormite in pace amici valtellinesi, in questo silenzio, in questa terra nera, in questo autunno dolcissimo. Chino la testa e poi faccio un cenno con la mano: - Ci ritroveremo un giorno. Arrivederci”.

mercoledì 4 agosto 2010

Estati calabresi d’un tempo (questi posti davanti al mare...)



Per anni ho passato le estati con i nonni; perché il papà lavorava qui al nord fino a luglio (e soprattutto, si prendeva un mese di libertà da me e mia sorella) e perché i nostri nonni abitavano a Reggio Calabria, dunque vicino al mare... ai tempi non sempre me ne accorgevo, ma era una fortuna. Anche perché eravamo circondati da zii e cugini affettuosi. Dopo almeno 20 anni dalla fine di quelle estati, ogni tanto cero di recuperare i ricordi. I nonni non ci sono più, nemmeno il papà, e dunque il vuoto è abbastanza grande... Una serata tra amici, qualche settimana fa, ha avuto come argomento di discussione, tra gli altri, la forza dei ricordi olfattivi. E ci siamo trovati d'accordo sulla loro importanza. Qualche giorno più tardi, casualmente, ho sentito un odore particolarissimo, che avevo dimenticato, ma che mi ha ricordato, come una vampata nella mente, quelle estati calabresi. E così mi è venuta in mente questa poesia..

Il legno verde, avvelenato, della “spiraletta”,
non smetteva di bruciare:
la zanzare però ballavano ugualmente, non morivano
nella notte carica d’umidità e di calore.
Le automobili passavano rade, i locomotori fischiavano,
la stazione era lontana, i binari infiniti,
gli autobus troppo sporchi e pericolosi,
per scappare, da soli, lontano.
Ma poi la mattina tornava l’estate dei bambini:
il vociare degli ambulanti al mercato, la frutta fresca:
u’ muluni, ‘na persica, a cricopa, i purtualli troppu cari…
La festa delle borse della spesa, il pranzo al sole,
il sudore che non finiva mai, e poi
quella malinconia pomeridiana
che il nonno non sapeva capire.
E più tardi la panna, la brioche, la granita,
sul corso gremito di gambe abbronzate:
senza nessuna tristezza né decenza,
il bar era aperto alle scarpe e alle ciabatte dei turisti.
Tutti toccavano tutto e tutti:
le paste, le vetrine, i tovaglioli,
il culo dell’emigrante tedesca,
le borse e gli occhiali degli altri.
Poi viene tardi, è sera senza essere ancora buio, ma il nonno ha fame:
alla finestra brontola in dialetto, poi sorride.
Ecco il pomodoro, il pane, il vento del tramonto,
il profumo del mare che gareggia, in bellezza,
col fischio delle locomotive,
ma il telegiornale non aspetta nessuno.
D’estate i pensieri foschi morivano presto:
distraeva il profumo dei pomodori che si seccavano in terrazza,
e da lì il profilo della Sicilia colorato d’azzurro,
qualche volta l’Etna fumante…
E l’allegria agostana non finiva quasi mai:
le melanzane ballavano, tagliate nella salamoia,
la conserva di pomodoro per l’inverno nel pentolone,
il latte di mandorla alla menta,
la provola mangiata per forza.
Poi settembre arrivava a falciare l’estate:
alla fine, l’Italia rimaneva sempre troppo lunga,
il treno del ritorno una specie di prigione,
estranei gli amici lombardi ritrovati, al ritorno…

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

  Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, fam...