lunedì 23 agosto 2010
Jean-Paul Sartre, “Nascita di un pensiero totalitario”
Questo frammento scritto da Sartre per un romanzo mai portato a termine, che si sarebbe dovuto intitolare "Una strana amicizia", è assai significativo; con lucidità l’autore mostra come, nella mente di un uomo, possa emergere e radicarsi un pensiero totalitario. Siamo nel 1941 all’incirca. Il personaggio principale, Brunet, è prigioniero con altri francesi in un lager tedesco durante la seconda guerra mondiale. È riuscito a organizzare alcune cellule di dissenso che fanno politica, propaganda antitedesca con estrema attenzione. Alle cellule partecipano individui di diverse idee: socialisti, radicali, democratici, comunisti. Essi sembrano accomunati dalla convinzione che, vista la situazione del paese (la Francia è occupata per metà dai tedeschi e per metà è in mano al governo collaborazionista di Vichy), è bene unire le forze democratiche per combattere il nemico, in attesa della fine della guerra.
Ma poi nel campo arriva un capo comunista, Chalais, che, con apparente bonomia e delicatezza, mette in discussione il lavoro di Brunet; poi lo sconfessa del tutto, sottraendogli pian piano l’appoggio degli altri prigionieri. Perché il PCF è il partito più forte, l’unico organizzato in clandestinità e non può accettare di fare politica con democratici, socialisti e seguaci di De Gaulle. Per Chalais i gollisti francesi sono peggiori dei nazisti i quali hanno il “merito”, secondo lui, di chiudere un occhio e di lasciare uscire L’Humanité in clandestinità a Parigi. Il pezzo è illuminante non solo storicamente (nel 1939 il patto di non belligeranza tra nazisti e URSS influenza evidentemente le considerazioni di Chalais), ma anche psicologicamente, perché illumina quale sia la genesi della mentalità totalitaria, quella che porta un individuo ad annullare se stesso e a sposare un’idea altrui fino alle estreme conseguenze.
Brunet, infatti, cede a Chalais e quasi si convince che ha ragione; ma il partito lo vuole fare fuori, perché lo considera un traditore e, alla fine, lo “vende” ai tedeschi, solo perché non ha seguito le direttive del PCF e ha avuto rapporti con un uomo che era stato espulso dal partito.
Nella sua follia, che però esprime la linea dei comunisti francesi, Chalais dice che l’URSS non fa la guerra alla Germania perché non vuole far trionfare i porci capitalisti inglesi e americani. E, secondo lui, l’URSS non entrerà mai in guerra. Chi non la pensa così, come Brunet, non è un uomo che ha una legittima opinione, ma un traditore da eliminare.
Chalais sorride, Brunet lo guarda con curiosità: come farà incastrarmi? Di colpo Chalais si alza, afferra con un braccio suo pastrano ed esce senza dire una parola. Brunet esce subito dopo di lui e si tuffa nel sole. Sarà sconfitta [per lui]. Demoralizzeranno i compagni e sarà sconfitta lo stesso. Guarda in fondo a sé quel pensiero ostinato che ritorna cento volte al giorno, quella palla vitrea e molle, appiccicata al pavimento, senza difesa: la potrebbe schiacciare col tacco, è così tenero un pensiero, così trasparente, così sfumato, così privato, così complice, che non sembra proprio che esista per davvero: e io mi perdo per una cosa del genere! Ma penso davvero che l’Urss sarà sconfitta? O forse ho solo paura di pensarlo? E se anche lo pensassi, che importanza ha? Un pensiero in una testa è uno zero, un’emorragia interna, niente a che vedere con una verità. Una verità è pratica, si dimostra con l’azione; se avesse ragione, si saprebbe, potrebbe cambiare il corso delle cose, influenzare il Partito. Io non posso fare niente, quindi ho torto. Affretta il passo, si rassicura: non è niente di grave. Idee ne ha sempre avute, come tutti, erano la muffa, le scorie della sua attività cerebrale; solo che non ne occupava, le lasciava ammuffire in cantina. Ebbene, adesso le rimetterà al loro posto e tutto si sistemerà: resterà nella linea, si atterrà alla disciplina e si terrà le sue idee dentro senza farne parola con nessuno, come una malattia vergognosa. Non andrà più in là, non può andare più in là: non si pensa contro il Partito, i pensieri sono parole, le parole appartengono al Partito, è il Partito che le definisce, è il Partito che le presta; la Verità e il Partito sono la stessa cosa. Cammina, è contento, si distrae: baracche, facce, cielo. Il cielo gli irrompe negli occhi. Dietro a lui, dimenticate, le parole si radunano e chiacchierano sole: visto che non conta, visto che è inefficace, perché non vai fino in fondo al tuo pensiero? Si ferma di scatto, si sente strano. Deve essere così per quei tipi che credono di essere Napoleone: si sforzano di ragionare, dimostrano a se stessi che non sono, che non possono essere l’imperatore. Poi, appena hanno finito, sentono una voce dietro la schiena: «Buongiorno, Napoleone». Si volta verso il suo pensiero, lo vuoi guardare in faccia: se l’Urss fosse sconfitta...
Spacca il tetto, fila nel buio, esplode, il Partito è sotto di lui, una gelatina vivente che copre il globo, non l’avevo mai vista, ci stavo dentro; gira attorno a quella gelatina peritura: il Partito può morire. Ha freddo, gira: se il Partito ha ragione, sono più solo di un folle; se ha torto, tutti gli uomini sono soli e il mondo è fregato. Spunta la paura, lui gira in tondo, si ferma ansimante e si appoggia a una baracca: cosa mi è successo?
tratto da: La mia guerra, Einaudi, Torino 1994, pp. 110-111
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