lunedì 8 marzo 2010

Il treno nella tormenta (storia in 5 puntate) - p. 1



Solo quando il treno si fermò all’altezza di Fornovo Val di Taro, in provincia di Parma, mi resi conto di quanto stesse nevicando. Per la verità non ricordavo quando la nevicata fosse cominciata. Ero partito di buonora, la mattina, e già prima di Fidenza avevo guardato distrattamente fuori dal finestrino, scorgendo un biancore uniforme che mi aveva fatto venire sonno. Mi ero poi immerso nella lettura del giornale per spezzare la noia di quel viaggio fino a Pisa, ma avevo avvertito i continui rallentamenti del treno con crescente fastidio. Anzi, due o tre volte avevo avuto l’impressione che il convoglio slittasse sui binari. Qualche sospiro di nervosismo mi era salito persino alla bocca. D’altra parte, sapevo che quel treno era classificato come “interregionale” e che il materiale ferroviario non era di prima scelta. Da Fidenza in avanti il treno aveva proseguito a singhiozzo, inerpicandosi a fatica sull’Appennino. E ora si era fermato con un rauco rumore dei freni. Fuori la neve cadeva fitta ma calma e placida. La stazione di Fornovo appariva bianca, immobile, silenziosa, senza presenza umana.
Davanti a me, sulla carrozza senza scompartimenti, sedeva una ragazza bionda, poco truccata, pallida, che leggeva Ritratto di signora di Henry James. Un capolavoro, a mio parere. Avrei desiderato dirlo alla ragazza, magari per cominciare una conversazione, ma non mi aveva quasi mai guardato durante il tragitto. Aveva gli occhi chiari, verdi, i capelli lunghi fin sotto le spalle. Non aveva detto parola da quando era salita a Brescia. Mi era apparsa subito bella e triste, un po’ come l’eroina del romanzo di James. Avevo notato che tre o quattro volte aveva guardato fuori del finestrino con lo sguardo assente, perduto. Chino sul mio quotidiano, avevo fantasticato un po’ su di lei, come faccio di solito, immaginandola triste, delusa, avvilita, magari a causa di un fidanzato burbero e cattivo.
Dopo dieci minuti di sosta a Fornovo cominciai a preoccuparmi. Perché sapevo che in quella stazione il treno sta fermo al massimo due minuti. Fuori la nevicata proseguiva copiosa, ma pacata, senza vento. Il paesaggio era molto bello, soffice: si scorgevano i piedi dell’Appennino parmense, ma non le cime, nascoste dalla foschia. La stazione di Fornovo era sepolta nel biancore e nulla in lei sembrava vitale. Però scorsi due o tre volte il capotreno andare avanti e indietro, affannato, lungo il convoglio. Parlava al cellulare con una certa concitazione. Di sicuro c’era un problema e stava chiedendo lumi a qualche superiore.
Nell’attesa, sentii sbuffare qualche passeggero, il quale lamentava il solito ritardo di quel treno. Beh, come dargli torto: la “Freccia della Versilia”, a dispetto del nome, “freccia” non lo è quasi mai. Anche perché la linea che si arrampica sull’Appennino Emiliano per sbucare al di là, alla confluenza tra Liguria e Toscana a Santo Stefano di Magra, non consente traversate rapide. Però quella volta la sosta si prolungava eccessivamente, ed eravamo tutti un po’ seccati. A un certo punto, la ragazza seduta di fronte a me chiese, a bassa voce: «Scusa, che ore sono?».
La cosa mi stupì. Non credevo mi avrebbe mai rivolto la parola: fino a quel momento i suoi occhi erano stati per lo più fissi sulle pagine di James, con qualche capatina furtiva verso il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. Aveva una voce esile, che mi parve adatta al suo visino acqua e sapone.
Le risposi prontamente: erano le 10 e mezza. Aggiunsi, per non lasciare cadere quell’opportunità di dialogo: «Chissà con tutta questa neve se il treno ce la farà… ». Sorrisi dopo questa frase, ma la ragazza mi guardò come se avessi detto una cosa grave e importante. E ribatté seria e compita: «Mah, non so, sapevo che non dovevo prenderlo oggi, questo treno». Mi domandai se quella risposta fosse un modo per avviare una conversazione o per troncarla sul nascere... La ragazza riprese subito a leggere. Io non aggiunsi nella perché non desideravo fare la parte di quello che “ci prova” sul treno. Perciò tornai a scorrere il mio giornale.
«Arriveremo mai a Pisa?».
Quella domanda mi colse quando stavo per leggere un articolo di politica estera. Chi aveva parlato? Ancora lei, la ragazza dal volto bianco… Pensai che, per spezzare la noia di quella sosta forzata, volesse dialogare con me. Alcuni passeggeri, sfidando il freddo, erano scesi sul marciapiede a fumare. La ragazza mi guardava con un sorriso delicato, timido, come volesse scusarsi per il disturbo. Risposi con una frase fatta:
«Con le ferrovie si sa quando si parte, non quando si arriva… ».
La ragazza mi guardò sorridendo ancora di più. Le guance avevano preso un po’ di colore. Mi disse: «Certo… Ehm, scusa, piacere, io mi chiamo Francesca», e allungò la sua mano verso di me… Poi aggiunse: «Quando parlo mi piace sempre sapere il nome dell’altro».
Io, sorpreso, le diedi la mano senza dire nulla. Toccai una mano dalla pelle morbida, asciutta. Temo che la mia fosse invece un po’ sudata, ma Francesca non parve accorgersene. La sua stretta fu salda, franca. Alla fine io dissi: «Piacere mio, Andrea».
Con quel colorito sulle guance e l’aria un po’ meno abbattuta, mi piaceva ancora di più. Soprattutto, quando sorrideva lo faceva con garbo, ma spontaneamente, non perché cercasse di controllarsi, ma perché, dedussi, la sua indole era fatta a quel modo. Compita, timida, dolce.
Ricominciammo a parlare ma fummo interrotti quasi subito. Arrivò il controllore. L’uomo, chiuso nel suo cappotto blu orlato di neve, era entrato nella carrozza con una certa precipitazione, arrestandosi sul limitare della porta di comunicazione tra le carrozze e assumendo un atteggiamento guardingo, come se temesse la reazione dei passeggeri. Disse: «Avvertiamo i signori viaggiatori che, a causa dell’intensa nevicata in atto, si sono spezzati alcuni cavi dell’alimentazione sulla linea. Al momento non sappiamo quando potremo riprendere il viaggio. Vi consigliamo di recarvi presso il bar della stazione per avere un po’ di caldo. Ci scusiamo per il disagio».
Se ne andò quasi subito, mentre qualche passeggero scattò verso di lui, anelante ulteriori informazioni. A me e a Francesca quell’intervento fece solo ridere, perché il capotreno aveva parlato come un libro stampato e ci era parso buffo. Evidentemente le ferrovie avevano ancora molta strada da fare per curare bene le pubbliche relazioni e l’assistenza alla clientela. Ma che importava alle ferrovie dello stato della clientela di un misero treno interregionale, bloccato dalla neve nella sperduta stazione di Fornovo Val di Taro?
Il bar della stazione era il classico bar della stazione: un po’ tabaccheria, un po’ tavola calda, un po’ circolo ricreativo. Deprimente e affumicato. Francesca e io riuscimmo a sederci in un tavolino logoro, del genere “i favolosi anni ’60 non passano mai”. Gran parte dei passeggeri si erano riuniti nel bar per sfuggire alla tormenta. Lì dentro era caldo, si stava bene, anche perché fuori la nevicata era aumentata di intensità e aveva preso a spirare un vento gelido da nord. Io avevo fame e mi mangiai un panino, mentre Francesca prese un cappuccino con brioche.
Fino a quel momento avevamo conversato amabilmente. Devo ammettere che quella sosta non si stava rivelando per niente seccante. Anche Francesca non appariva contrariata. Molti viaggiatori, invece, imprecavano, sbuffavano, parlavano in modo concitato al cellulare, chiedendo notizie a casa a chi poteva guardare la TV o consultare internet. Io non avvertii la mia fidanzata che mi aspettava a Pisa per le 18.20, perché ritenevo che il ritardo non fosse ancora eccessivo. O forse perché volevo chiacchierare con Francesca e non rivelarle il mio status di uomo “impegnato”?
Nemmeno Francesca scrisse, né telefonò a qualcuno. Discorreva con me, ma senza guardarmi quasi mai negli occhi, e senza dirmi nulla di lei, ma solo frasi fatue, banali. Così, approfittando di un momento di calma nel bar, le chiesi con affettata noncuranza:
«Tu hai avvertito a casa? Io aspetto, perché non so come andrà».
Mi fissò solo un istante quasi stupita. Ebbi l’impressione che i suoi occhi si fossero arrossati. Stava per piangere? E perché? Avevo ragione allora a vederla triste e preoccupata… Non rispose alla domanda, ma mi fece questa proposta:
«Ti va se usciamo un attimo da qui? Fumo una sigaretta».
Uscimmo. Ci accomodammo su una banchina di cemento sul binario uno. C’era una calma irreale là fuori. Riparati dalla tettoia, contemplavamo la neve cadere e depositari sui binari davanti a noi e sulla tettoia che sovrastava gli altri binari. Il nostro treno, al binario 4, appariva spettrale, perso nel biancore gelido di quella giornata. Sentivo freddo, ma non potei pensarci troppo perché Francesca divenne all’improvviso ciarliera.
«Sai, io non do molte confidenze agli estranei di solito. Però tu mi sai ascoltare, e non mi accade spesso ultimamente. Intendo, non succede di incontrare persone che mi sappiano ascoltare veramente. Forse la situazione facilita i contatti, non so. Tu dove stai andando? A Pisa dalla tua ragazza? Ah, ho capito. Io invece scendo a Sarzana, c’è una mia zia che abita lì. E come mai la tua ragazza sta a Pisa? È di lì, vive lì? Ah, ho capito, frequenta la Normale. In cosa si laurea? Ah, capisco, sta facendo il dottorato. Bello. Io sono un’impiegata amministrativa. Naturalmente è un mestiere che odio, però mi dà da campare a sufficienza. Perché vado a Sarzana? Perché avevo bisogno di un po’ di vacanza. So che manca una settimana a Natale, ma ho voluto anticipare il tutto per starmene tranquilla».
Francesca aveva parlato velocemente, senza quasi attendere le mie risposte alle domande che mi aveva posto. Quando tacque io non replicai nulla, perché sentivo bisogno di silenzio. Mi piaceva molto quella ragazza dal viso limpido e pulito, ma presentivo che nascondeva in sé un grumo di dolore, una sofferenza. Cercavo nella mia testa la domanda giusta da porle: desideravo sapere altre cose di lei, ma temevo di apparire indiscreto. Intanto guardai nervosamente l’orologio: erano le dodici e mezza. Eravamo fermi da due ore in quella stazione, ma non me ne ero quasi accorto. Non le feci nessuna domanda, perché fu lei che riprese a parlare:
«Sai, non vorrei apparirti una sprovveduta se ti concedo tutta questa confidenza. Non voglio annoiarti… Sì, grazie, mi ascolti volentieri, grazie che lo dici. Voglio crederti».
Un’altra pausa. Mi parve sempre più abbattuta e triste, lì al mio fianco, sulla panchina. Il ritratto della solitudine. Che fosse pazza? Che volesse farla finita? Ebbi un brivido di freddo e di paura. La voce di Francesca nel frattempo era divenuta più salda, mentre i suoi occhi rimanevano fissi a terra, come se non stesse dialogando con me, bensì con se stessa. Aveva le mani rosse per il freddo. Ebbi l’impulso di prenderle nelle mie. Mi trattenni. Poi lei disse, sempre senza guardarmi:
«Io sto scappando, lo sai? Dal mio futuro, dal mio fidanzato, dalla mia vita. Anzi, da un pezzo della ma vita».
Questa volta aveva parlato a scatti, con un tono di voce asciutto, come se dovesse confidarmi una cosa scomoda e avesse fretta di farlo. Come per sgravarsi da un peso. Rimasi di sasso, sconcertato. Mi aspettavo altre parole da lei, a mo’ di spiegazione dopo quella frase così enigmatica, ma Francesca si appoggiò allo schienale e sospirò, tacendo. Poi si strinse la sciarpa al collo e cominciò a piangere piano. Io ero esterrefatto e imbarazzato. Non sapevo che fare. In fondo lei per me rimaneva un’estranea. All’improvviso Francesca mi disse: «Scusa un attimo, vado in bagno. No grazie, non accompagnarmi. Anzi, torna al bar, vedo che hai freddo». E si alzò dirigendosi verso la toilette.


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