martedì 26 settembre 2023

IL PICCOLO MONDO ANTICO DEL GENERALE VANNACCI

 

Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, famiglia, patria, casa, “pianeta” (come lo chiama lui) LGBT e animalismo. Perché questo titolo? “Il Mondo al contrario vuole […] provocatoriamente rappresentare lo stato d’animo di tutti quelli che, come me, percepiscono negli accadimenti di tutti i giorni una dissonante e fastidiosa tendenza generale che si discosta ampiamente da quello che percepiamo come sentire comune, come logica e razionalità” (p. III dell’introduzione). L’autore esprime un pensiero conservatore, molto legato alla necessità del rispetto delle tradizioni e della legge, che non appare perciò perfettamente adattabile a una destra italiana che negli ultimi anni, e in maniera paradossale, ha espresso una certa allergia alle regole: si pensi al caso della vaccinazione obbligatoria sul Covid, osteggiata da molte persone che si dichiaravano di destra.

A proposito del titolo, sorge spontanea una domanda più generale: come mai, con la destra saldamente al governo, molte persone che aderiscono a questo universo politico si sentono ancora minoranza? Perché, pur avendo in mano la RAI (oltre a Mediaset), queste persone protestano contro un preteso “pensiero unico” o una ideologia “mainstream” che li escluderebbe dal dibattito politico o, peggio, li demonizzerebbe? Perché essi pensano che, nonostante il governo Meloni e i tanti anni di berlusconismo, l’establishment di questo paese sia ancora in mano a una cultura che, se non è più definibile di sinistra, veicolerebbe un’ideologia che esclude qualsiasi dissenso a una narrazione della storia e del reale affermata come l’unica verità. Essi pensano che sui temi storici (per esempio sul rapporto tra fascismo e Resistenza) ed etici ci sia un pensiero maggioritario che impedisce qualsiasi diversa interpretazione, non accettandola come legittima, bensì demonizzandola. Questa idea, che Vannacci nel suo libro esprime in modo un po’ raffazzonato, è invece ben definita da Marcello Veneziani che su “La verità” del 23-9-2023 scrive: “Un diverso ascolto, una diversa apertura verso chi ha opinioni contrarie gioverebbe non solo alla società, svelenirebbe il clima ma riuscirebbe anche a sgonfiare il potenziale di rabbia che poi monta davanti al disprezzo altrui e alla richiesta permanente di censura verso chi dissente. Lo dicevo già anni fa: se volete smontare le post-verità mettete da parte le pre-falsità, ovvero i pregiudizi falsi prefabbricati a senso unico che spacciate sui temi storici, civili, culturali e sociali.”

Questa premessa è indispensabile per comprendere il successo del libro di Vannacci, il quale, probabilmente in maniera inconsapevole, intercetta un pensiero di destra che, dopo decenni di anticamera, vorrebbe entrare nelle stanze del potere, ma che pensa di non poterlo fare a causa di un potere che sarebbe al di sopra della lotta politica e risponderebbe a logiche europeiste e transnazionali asservite all’economia e a un’ideologia progressista che vorrebbe mutare consuetudini vecchie di secoli.

Per tornare al libro, ecco alcuni caratteri che mi sembrano tipici delle sue argomentazioni.


Semplificazione e banalizzazione

L’autore analizza con un apparente imparzialità e a volte con blanda acutezza talune questioni (a parte quando parla dei gay); poi, una volta esposto il problema, al momento di proporre le soluzioni e di denunciarne le cause, sbraca totalmente e perde la testa: il vizio di semplificare porta l’autore a banalizzare e talvolta a brutalizzare le questioni affrontate. Il furore ideologico e il fastidio verso tutto ciò che è diverso da lui lo conduce a mandare in vacca qualsiasi argomento, proponendo soluzioni facili che, naturalmente, avrebbero l’unico effetto di non risolvere il problema, anzi di acuirlo. Per esempio, a proposito dei gay, Vannacci afferma di opporsi al DDL Zan perché non ritiene le offese a una persona in virtù del suo orientamento sessuale più gravi di quelle a lei indirizzate per la squadra di calcio di cui la è tifosa o per il lavoro che svolge. Come al solito, semplifica e banalizza: “Gridare ‘gay di merda’ è altrettanto odioso e discriminatorio che gridare “interista di merda”, “operaio di merda”, ‘uomo di merda’, ‘poliziotto di merda’, ‘professore di merda’. Molti sedicenti giuristi sostengono che il delitto d’odio nei confronti di una certa categoria di persone deve essere considerato più grave perché chi lo commette ottiene l’effetto che tutte le persone appartenenti alla minoranza individuata (i neri, le donne, i mussulmani, gli omosessuali o i transessuali) si sentano minacciati e vivano, per questo, in uno stato di perenne paura e sottomissione. Ma proprio secondo lo spirito dei crimini contro l’eguaglianza, anche le categorie degli interisti, degli operai, degli uomini, dei poliziotti o dei professori” (pp. 282-283). Insomma, Vannacci paragona un gay a un tifoso di una squadra di calcio e sostiene che offendere una persona per la sua fede calcistica, che è qualcosa di esteriore e superfluo, equivale a offenderlo per il suo orientamento sessuale, che è invece una pulsione intimamente connessa con la propria interiorità.

Lo stesso meccanismo di esagerazione e falsificazione della realtà e di assolutizzazione di un fatto occasionale, si trova in questa frase: “Basta accendere una TV per vedere una pletora di commentatori, conduttori e opinionisti dichiaratamente queer che si alternano incessantemente sul tubo catodico quasi come se l’appartenenza ad una categoria di persone che esprimono esplicitamente una preferenza sessuale minoritaria dovesse favorire gli ascolti. Ormai sono moltissime le serie televisive, gli spot, i video o i clip dove prolificano baci saffici e che vedono quali protagonisti lesbiche e gay, famiglie omosessuali o coppie dello stesso sesso che conducono vite da bourgeois bohème in una delle nostre metropoli alla moda” (p. 246). Ora, quale TV vede Vannacci? Sulla RAI, normalizzata dalla destra al governo, quali sarebbero i conduttori queer? Per quanto riguarda le serie televisive, si tratta di iniziative di privati che vengono viste da chi sceglie di fare un abbonamento. Se al generale danno fastidio, non faccia l’abbonamento e non le guardi. Vannacci presenta ai suoi lettori un fatto non verificabile spacciandolo per verità assoluta (quanti conduttori queer ci sono e quante e quali sono le trasmissioni che esaltano l’omosessualità? Sono davvero così tante?) per giungere alla conclusione che la società italiana è invasa da sostenitori dell’ideologia gender.

 Ossessione verso la sinistra

Per ogni questione, l’autore individua come colpevole politico la sinistra (suo costante obiettivo polemico), giudicata, secondo il solito luogo comune, popolata da intellettuali verbosi e fighetti. Mentre il colpevole sociale di quasi tutti i problemi è la mescolanza tra i popoli. Per esempio, parlando delle occupazioni abusive, un fenomeno senza dubbio odioso, l’autore se la prende solo con la sinistra e con il sindaco di Roma, Gualtieri, che guarda caso è del PD, e non cita mai, per esempio, le occupazioni di Casa Pound, l’organizzazione politica di destra, né cita sindaci di città governate dalla destra: “Tra questi soggetti, abituati al doppiopesismo caro a molte frange progressiste, sembrerebbe rientrare pienamente il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e la sua giunta che, non solo chiudono gli occhi, ma concedono pacificamente la residenza a chi occupa abusivamente uno stabile o vive senza titolo in un alloggio popolare”, scrive a p. 176.  Altro esempio: nel capitolo sugli omosessuali, l’autore, presentando alcuni rari casi di immigrati che si sono dichiarati “gay” per non essere rimpatriati, riesce ancora a incolpare anche in questo caso i migranti e la sinistra, nella persona del sindaco di Roma Gualtieri che avrebbe concesso dei privilegi agli immigrati LGBT (p. 261). Non c’è niente da fare: per Vannacci, in un modo o nell’altro, tutti i guai della nostra epoca sono sempre e comunque imputabili agli immigrati e alla sinistra. Egli, in questo modo, crea un bersaglio polemico contro cui sfogare il proprio risentimento e la propria frustrazione di vivere in un mondo che non è più quello di Vannacci family, dell’infanzia di Vannacci e degli ideali di Vannacci.

La sinistra è anche colpevole di gettare discredito sul concetto di “patria”, colpendo i suoi simboli, come l’inno di Mameli che qualcuno ha proposto “di sostituir[e] con le zingaresche note della ballata di “Bella Ciao” (p. 224). A parte che Bella ciao celebra la liberazione dal fascismo, cioè da un regime che non avrebbe concesso a Vannacci la libertà di scrivere quel che scrive, definirla “zingaresca” è un atto razzista e anche inquietante, poiché giunge da un generale che ha giurato sulla Costituzione democratica nata anche dalla lotta contro il nazifascismo. Naturalmente, quando parla di patria l’autore va in orgasmo, ma, come dire, lo si può comprendere. Sentiamolo: “L’Europa non sostituirà mai la mia bella Italia che preferisco, nel bene e nel male, a qualsiasi altro paese solo per il fatto di sentirla mia e frutto, anche solo marginalmente, di quanto tutti i miei avi abbiano fatto negli anni passati. Ideale che rimane immutato anche al variare della politica perché a combattere e a rischiare la pelle per i preminenti interessi della mia Nazione mi ci hanno spedito sia governi di destra che di sinistra e non ho mai avuto alcun dubbio che la cosa giusta da fare fosse quella di prendere zaino ed armi e tenere fede, con la massima integrità, al giuramento prestato in nome del mio onore ed in nome della difesa della mia Patria” (p. 219). A proposito di amor di patria e orgoglio nazionale, perché l’autore non ricorda che oggi governa un partito, la Lega, che fino a pochi anni fa lanciava melma sul gran parte degli italiani, sognava la secessione e considerava criminali personalità come Garibaldi o Mazzini? Pertanto, il discorso sull’amor di patria, Vannacci dovrebbe rivolgerlo a uno dei partiti a cui lui sembra più vicino e che, si dice, vorrebbe candidarlo alle prossime elezioni.

 Idolatria di ciò che è naturale

L’autore afferma di voler combattere un modello sociopolitico in cui tutti i valori in cui egli crede sarebbero messi in discussione, per proporre un modello in cui nessun valore può essere messo in discussione; secondo lui, il fondamento di una norma, di una legge risiede nel loro essere stati validi per lungo tempo, per tradizione o secondo natura. È questo un caso di naturalismo etico; per esempio, l’autore difende (ma da cosa?) la famiglia “tradizionale” con queste parole: “La stessa tipologia di famiglia, bisogna ammetterlo, ha assicurato la sopravvivenza e la prosperità della specie umana per millenni, almeno in occidente ed in tanti altri posti al mondo in cui si sono adottati, con le varianti del caso, modelli familiari molto simili al nostro. Un’istituzione vincente, dunque, sicuramente perfettibile, come tutto, ma indubbiamente e oggettivamente efficace” (p. 186).

Il modello “tradizionale” di famiglia non nasce con la comparsa dell’uomo sulla terra, come sostiene Vannacci; parlando in generale, si può dire che la famiglia ha subito nei secoli diversi mutamenti, perché nell’antichità romana essa era intesa come famiglia allargata e comprendeva anche la servitù, gli schiavi liberati e i figli adottati. Oltre a ciò, il pater familias aveva potere assoluto su moglie, figli e schiavi. Questo modello familiare muta solo in parte tra Medioevo e in età moderna perché, soprattutto in ambito rurale, la famiglia è ancora “allargata” e coinvolge tutti i suoi componenti nei lavori agricoli. Nelle città, invece, la famiglia è più ristretta, ma anche in quel caso non esiste un modello univoco, poiché ci sono differenze tra le famiglie nobili e quelle dei lavoranti o dei mercanti, dove spesso tutti i membri sono coinvolti nelle attività, sebbene esse non riguardino la terra bensì il commercio o l’artigianato. Durante l’800 si afferma un modello di famiglia maggiormente legato all’attività industriale e nelle città, la famiglia operaia, spesso numerosa, vede impiegato nella fabbrica non solo il capofamiglia, ma anche la moglie e poi i figli. Prosegue quasi immutato invece il modello di famiglia contadina, mentre nella famiglia borghese dei ceti sociali più alti in genere lavora solo il padre (magari in ufficio o come imprenditore) e la donna si dedica esclusivamente alla crescita dei figli. Questo modello “borghese” è stato profondamente modificato negli ultimi cento anni, poiché è progressivamente cresciuto il numero delle donne lavoratrici ed è stata soppressa la figura del capo-famiglia, ridistribuendo le responsabilità e i diritti tra i coniugi. Dunque, non esiste un modello di famiglia “tradizionale” e perciò non può essere messo in pericolo proprio perché la famiglia, come ogni costruzione umana, muta profondamente.

Ma sì, l'autore ribatterebbe asserendo che lui intende sostenere che per costruire una famiglia e fare figli, è necessaria da sempre l’unione tra un uomo e una donna. Anche qui sbaglia e deve rassegnarsi perché al giorno d’oggi non è vera nemmeno questa cosa. La possibilità di avere figli prescindendo dall’unione fisica tra sessi diversi è ormai una realtà che va accettata; a Vannacci può non piacere, ma perché lui vuole impedire ad altri di impiegare questa possibilità prevista dalla legge? Perché vuole impedire ad altri di esercitare un diritto che non lede i suoi, di diritti, e che non riguarda la sua sfera personale di individuo eterosessuale che ha avuto figli in modo tradizionale? Cosa cambia per lui se una donna usa la fecondazione in vitro o l’eterologa? Cosa cambia per lui se due gay si sposano? Perché vuole imporre agli altri un modello etico proprio quando lui è il primo a protestare contro chi vorrebbe imporre a lui e ad altri l’accettazione di determinati comportamenti? Si potrebbe infine osservare con malizia che i leader politici di quei partiti cui Vannacci appare vicino vivono tutti, legittimamente, in famiglie non tradizionali. 

Accettare ciò che è naturale come criterio per attestate la giustezza di un valore o di un atto, è un atteggiamento ingenuo, perché anche le malattie, le alluvioni e le catastrofi sono cose naturali, eppure noi le combattiamo. Dunque, ciò che è naturale non va sempre bene, dipende dalle conseguenze esso produce e perciò la naturalità di un comportamento non può essere assunta come un valore.

Vannacci non ne è consapevole di sicuro, ma proprio la dottrina nazionalsocialista si opponeva alle dottrine considerate rivali e alle religioni accusandole di aver allontanato l’uomo tedesco dalla natura e dalle sue leggi, obbligandolo a vivere un’esistenza non adeguata a lui e che spegneva tutte le sue più autentiche pulsioni: “Tutto questo era naturale. L'ordine, un tempo, era appropriato e degno. Rispettava le leggi della natura. Non come oggi, quando tutto avviene contro le leggi della natura” (parole del capo delle SS Heinrich Himmler, citate nel celebre libro di J. Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Einaudi, Torino 2016, p. 193).

L’autore nondimeno non sente ragioni e inanella una serie di errori storici che farebbero sorridere uno studente delle medie: “Sono convinto che nulla nasca per caso e se la famiglia esiste da millenni sotto la forma tradizionale un motivo ci sarà. Il nucleo familiare esiste da quando l’uomo esiste [falso, ovviamente]. Senza scomodare gli antropologi sappiamo che l’unione di un uomo e una donna ha garantito il prosperare della specie umana, la sua evoluzione e il suo benessere. All’origine non vi è stato alcun inventore del nucleo familiare, non esiste alcun copyright o, almeno, non ve ne è traccia all’ufficio brevetti. È stata semplicemente l’espressione della Natura che, attraverso i severi processi di selezione e adattamento ha individuato l’organizzazione più efficace per garantire la sopravvivenza della specie” (p. 188). Partendo da questi presupposti, ogni comportamento che non segue la sua idea è per l’autore “contro natura”: “[i gay] si inventano il ‘diritto alla genitorialità’ e giustificano pratiche come l’utero in affitto per soddisfare i desideri biologicamente contronatura delle coppie arcobaleno” (p. 191). A chi gli fa notare che in natura esistono esempi, seppure meno diffusi, di unioni non tradizionali, l’autore risponde derubricandole a eccezioni che confermano la regola, dimenticandosi che anche questi sono comportamento “naturali”, voluti da quella “madre natura” che lui nomina quasi fosse un vero e proprio essere vivente. Peccato che, parlando del rapporto tra uomo e ambiente, l’autore riconosca che nessuna etichetta morale è applicabile ai fatti naturali: “la Natura non ha pulsioni umane né sentimenti. Il leone non è cattivo perché sbrana la gazzella. La Terra non ci vuole male perché ci inghiottisce nella lava di un’eruzione vulcanica” (p. 13).

A parte il fatto che oggi la famiglia “tradizionale” non è messa in discussione da nessuno e che, anzi, è difesa da forze politiche che hanno governato quasi ininterrottamente questo Paese dal 1994, l’autore dimostra di essere un uomo che pretende di obbligare gli altri a vivere secondo le sue idee. È bello sapere che lui ha avuto una famiglia perfetta, ma non tutte le famiglie sono tali: non è necessario citare Tolstoj sulle famiglie infelici, però è necessario ribadire che l’autore esprime una posizione pericolosa, perché pretende di imporre agli altri come amare, come vivere, come costruire la propria famiglia e la propria vita. Per difendere il suo modello di famiglia, egli, come detto, si appella alla legge di natura, attribuendo all'aggettivo "tradizionale" un significato etico forte per attribuire valore assoluto a comportamenti che si richiamano alla consuetudine: “Dalla transizione sessuale alla propaganda anti-famiglia tradizionale, tramite le proposizioni di improbabili modelli di famiglie allargate multietniche, multigenitoriali, multiorientate e inclusive per antonomasia gli attacchi rivolti soprattutto al pubblico giovane ed inesperto sono a dir poco continui. D’altra parte, i tentativi fatti negli anni Settanta dalla generazione dei figli dei fiori caratterizzati dal libertinismo assoluto non sembrano aver conseguito ragguardevoli risultati. Ancora una volta è la Natura a prevalere. Ancora una volta quel concetto di famiglia definito 'vecchio stampo' oggetto di tante critiche e disapprovazioni si è rivelato un modello efficace” (p. 209).

Poste queste argomentazioni, l’autore nega che esista un “diritto alle genitorialità” basato su motivazioni affettive. E come argomenta questa negazione di tale diritto? Ancora una volta appellandosi a ciò che secondo lui sarebbe naturale e dunque giusto; nell’intento di negare la valenza etica della genitorialità e di ridurla a un puro fatto di natura, Vannacci giunge addirittura ad animalizzare l’uomo, rendendolo di fatto una bestia, tacendo tutto il complesso di relazioni affettive e sentimentali che l’umanità ha sviluppato a partire da un impulso naturale: “L’opzione di procreare, quindi, più che un diritto verrebbe definita un privilegio riservato ai pochi che, più di altri, danno dimostrazione di quelle caratteristiche irrinunciabili a fare progredire la specie. Una vera e propria élite che si guadagna spesso a suon di cornate, lotte, morsi, calci e lunghe azzuffate il privilegio di mettere al mondo un altro esemplare della propria varietà. La Natura, quindi, ragiona proprio con una logica opposta a quella che vorrebbe imporre il concetto di “diritto alla genitorialità” che, in quanto tale, dovrebbe essere invece esteso senza alcuna discriminazione ad ogni elemento della società umana” (p. 195).

Da queste posizioni alla messa in discussione di aborto e divorzio il passo è breve; ma quello che traspare dalle sue idee è un rimpianto, nemmeno troppo nascosto, per il bel tempo felice in cui i papà lavoravano e le donne stavano a casa a crescere i figli: “Se c’è una cosa che non mi convince né da un punto di vista sociale né sotto il profilo economico è il modello ritenuto quasi obbligatorio dei servizi per l’infanzia. In essenza, non capisco perché una donna o un uomo dovrebbe andare necessariamente a lavorare per poi essere obbligati a spendere buona parte di quanto guadagnano per il pagamento di questi servizi” (p. 200) aggiungendo che “è chi si realizza nel lavoro, chi solo nella famiglia, chi ha bisogno di entrambe le cose ma in proporzioni diverse e, per fortuna, sono ancora in molte le donne che non considerano l’autorealizzazione incompatibile con la gravidanza e con la nascita di un figlio. Quello che fa la differenza oggi è la retribuzione. I genitori lavorano per necessità e non per scelta, almeno in Italia. La drastica diminuzione della natalità è anche dovuta a questo perverso meccanismo” (p. 203).

Bene, dopo aver detto che lui ha avuto una famiglia tradizionale bella e felice, con il papà che lavorava ed era poco presente e con la mamma casalinga, ma capace di crescere quasi da sola, tre figli e dopo aver assicurato che anche i suoi amici hanno avuto famiglie felici e hanno vissuto nel Mulino Bianco, l’autore spara a zero contro chi vorrebbe mettere in discussione questo modello di famiglia tradizionale. Chi sono costoro? Nell’ordine,

a)    il socialismo reale (!!!) che “brama di “comunizzare” la società e di assegnare alle sole istituzioni statali l’educazione dei giovani che devono essere, sin dai primi anni d’età, sottratti alle grinfie familiari che ne potrebbero alterare i valori di riferimento”. Perché non c’è nessun riferimento all’eugenetica e al razzismo di Hitler?

b)    il femminismo: “Oltre a promuovere istituzioni come il divorzio e l’aborto al suon dello slogan “tremate, tremate, le streghe son tornate” si oppone alla figura femminile intesa come madre. Le moderne fattucchiere sostengono che solo il lavoro ed il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile vita domestica”.

c)       gli omosessuali, che “introducono il concetto di fluidità sessuale, di percezione del sesso e di transgender e che classificano come famiglia l’unione tra due persone di sesso uguale o, non importa quale sesso, anzi, il sesso non esiste è solo una percezione!”

d)      gli animalisti (!!!!!): “che sostengono che l’amore, che assolutamente non può definirsi affetto, è possibile anche nei confronti di una tenera bestiolina e che, quindi, pretendono esteso il concetto di famiglia a chi vive con un gatto, un cane, un porcellino d’India o, addirittura, un maiale. Non si spiegano il perché, dunque, alla scomparsa del padroncino l’adorato essere peloso non debba avere il diritto di percepire la pensione di reversibilità come invece l’avrebbe un coniuge o un figlio minorenne” (pp. 186-187).

E non ci si può perdere il vergognoso paragone tra le politiche familiari di alcuni stati democratici occidentali odierni e la sanguinaria Cambogia. L’autore infatti ha il coraggio (o l’impudenza) di scrivere: “Nel tragico esperimento della Cambogia di Pol Pot i genitori perdevano da subito ogni autorità sui bambini che venivano affidati a comunità controllate dai rappresentanti del terrificante regime. Ora, la fluida società moderna degli Stati che si professano liberi e progressisti sta conseguendo i medesimi risultati con metodi che solo apparentemente appaiono meno coercitivi” (p. 205). Più condivisibili sono le osservazioni sulla necessità di non ridurre la vita delle persone al solo orizzonte lavorativo, a scapito di altre sfere della personalità che meriterebbero di essere sviluppate; interessante anche la possibilità di remunerare il genitore che si occupa in prevalenza dei figli.

Esaltazione della “normalità”

Corollario del principio della fedeltà alla natura è l’appello alla “normalità” e la suddivisione delle persone o delle cose in “normali” e “anormali”. A p. 193 l’autore dichiara: “La normalità c’è. Esiste. Non per questo è buona o cattiva, migliore o peggiore, ma non la si può negare in nome di una artificiale e pretestuosa inclusività” (p. 193). Più avanti la normalità è definita: “condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o fuori dall’ordinario e dalla consuetudine” (p. 240). Immagino che la definizione sia tratta da un vocabolario; ma dal punto di vista etico, le parole hanno un significato più pieno, che si stacca da quello semplicemente oggettivo della loro definizione per assumerne un altro, molto più caldo e vivo. La definizione del vocabolario è un punto di partenza, non di arrivo. Per la riflessione morale, la definizione citata da Vannacci non regge, perché contiene la parola stessa che vuole definire: non si può affermare che la normalità è ciò che si ritiene normale! Sarebbe come voler definire una spiaggia scrivendo: “la spiaggia è ciò che si ritiene essere una spiaggia”. L’autore insiste: “La domanda che ci viene da porci è se esista una normalità nei gusti e nelle preferenze. Certamente! Dipende da molti fattori, fra cui la cultura e la civiltà giocano un ruolo molto importante ma una ‘normalità’ nei gusti esiste eccome!” (p. 240). 

Fa quasi tenerezza questo appello alla normalità, perché l’autore è il primo a riconoscere che nei secoli cambiano i gusti e le mode e cambia l’idea di ciò che si ritiene come “normale”. Difatti, l’autore afferma che coreani e cinesi ritengono normale “mangiare i cani”, cosa inammissibile per noi, oppure parla del masochismo, per dimostrare che ci sono pratiche che, per quanto esistenti nel mondo, non possono essere definite “normali” (p. 241). Ma un cinese direbbe che loro mangiano i cani da secoli e che dunque per loro è “normale” nonché naturale farlo, mentre un masochista direbbe che le pratiche che lui ama sono vecchie come il mondo e dunque, a suo modo, “normali”. Insomma, il generale si contraddice da solo e in questo capitolo tocca il fondo, perché dimostra di avere le idee confuse. L’autore, dunque, costruisce una definizione di normalità che lui stesso, nella sua esposizione, deve negare: nei fatti, egli riconosce che anche in questo caso non esiste una normali in senso oggettivo, ma una diversa prospettiva dei vari popoli nel giudicare “normale” ciò che essi ritengono consuetudinario.

 Egocentrismo e mancanza di empatia

L’autore sembra un uomo che, avendo finora avuto una vita ricca di soddisfazioni, una felice famiglia di origine e un altrettanto felice famiglia costruita, sia terrorizzato dal fatto che qualche cosa possa cambiare, che il suo mondo perfetto e la sua vita colma di gioie possano essere incrinati da scelte politiche o sociali. Appare incapace di empatia, di mettersi al posto dell’altro, e giudica le questioni dall’alto delle sue granitiche certezze, affermando che ciò che lui ha visto e ha vissuto va bene mentre che tutto il resto no. Non è empatico forse perché crede, ingenuamente, che molte questioni sociali nascano non da bisogni reali, bensì o da bisogni indotti da una parte politico-ideologica oppure da una modernità che vuole cancellare i valori tradizionali, quelli di un tempo antico e felice, quando tutto andava bene e non c’erano per strada poveri o immigrati e gli omosessuali non facevamo mai outing ma si nascondevano.

Ma dove ha vissuto finora il generale? Il tempo che lui rimpiange, ovviamente non è mai esistito, e l’autore, di fronte a un presente che gli appare disordinato e multiforme (e che non capisce), non reagisce con curiosità o con spirito critico, bensì con fastidio, inventandosi un passato mitico in un cui tutto andava bene ed esisteva un modello unico di famiglia, di vita, di pensiero. Di fronte a un mondo che secondo lui sta andando a rotoli, solo la famiglia, ovviamente la famiglia secondo il modello Vannacci, anzi, direi, solo la famiglia Vannacci, può salvare: “Proprio oggi, invece, che anche quelle che consideravamo le più solide evidenze si stanno sgretolando, che siamo pervasi da incertezze e dubbi riguardo al presente e soprattutto nei confronti del futuro, che siamo soggetti ad una comunicazione incessante caratterizzata da fake news e strumentalizzazioni dovremmo cercare di salvare quello che ancora rappresenta una roccaforte ed un punto fermo della società e la famiglia naturale, che incarna ancora un’affidabile rete di solidi affetti e un comprovato e resiliente spazio di sicurezza, è certamente uno di quei capisaldi a cui non si può rinunciare” (p. 210). L’egocentrismo traspare spesso tra le pagine del libro, giacché l’autore tende a giudicare il mondo a partire dalle sue esperienze; atteggiamento che può risultare comprensibile, ma che non può essere univoco, perché il mondo moderno, si rassegni Vannacci, è vario. D’altra parte, come non citare il filosofo che disse che al mondo non esistono fatti, bensì solo interpretazioni di questi fatti? Oppure questa frase da Padri e figli di Turgenev: “In assoluto non esistono principi – tu ancora non l’hai capito! – esistono solo sensazioni. Tutto dipende dalle sensazioni.» «Ma come?» «Ecco come. Prendi me, per esempio: io seguo un orientamento negativo… per via di una sensazione. Mi piace negare, il mio cervello è fatto così e basta! Perché mi piace la chimica? Perché ti piacciono le mele? Sempre per via di sensazioni. Senza eccezioni. Gli uomini non sono capaci d’andare oltre. Non tutti te lo direbbero, e un’altra volta magari nemmeno io te lo direi.»”. Spiace ricordarlo all'autore, ma l'uomo decide quasi sempre decide in base alle sensazioni più che alla ragione. Un po’ come fa l’autore di questo libro che, sebbene in apparenza sia ragionevole, poi si lascia guidare dai suoi sentimenti. E, si può aggiungere, la realtà è la costruzione operata da miliardi di punti di vista su di essa, poiché ogni essere vivente tende a vedere il reale con i suoi occhi. 

Tuttavia, è importante che ogni tanto l’individuo provi quantomeno a mettersi al posto dell’altro; Vannacci questa cosa non lo fa e il suo egocentrismo risulta talvolta infantile. Per esempio, lui racconta così il suo primo impatto con i neri: Fu nel 1975, quando con tutta la famiglia ci trasferimmo a Parigi che, per la prima volta, cominciai a venire a contatto quotidianamente con persone di colore. Mi ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mia mano sopra la loro, mentre si reggevano al tientibene dei vagoni, per capire se la loro pelle fosse al tatto più o meno dura e rugosa della nostra. Li guardavo continuamente, con quella scarsa discrezione che caratterizza l’atteggiamento di molti bambini curiosi, e mi colpiva sia la tonalità molto più chiara del palmo delle loro mani sia il netto contrasto che si percepisce nei loro occhi dove la sclera – la parte bianca del bulbo oculare – si staglia con i colori estremamente scuri delle loro pupille” (p. 89). Frase che fa sorridere d’amarezza perché nasce da un’idea di totale diversità delle persone nere. Non è razzista, ma potrebbe essere il prodromo del razzismo: essa sottende l’idea che i neri siano qualcosa di diverso dai bianchi. Si dirà che nel 1975 Vannacci aveva otto anni, ma l’obiezione non pare pertinente, perché oggi, adulto e vaccinato, l’autore scrive cose simili, dimostrando di essere ancora carico di pregiudizi: “Anche se abbiamo seconde generazioni di Italiani dagli occhi a mandorla, il riso alla cantonese e gli involtini primavera non fanno parte della cucina e della tradizione nazionale; anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri; anche se vi sono portatori di passaporto italiano che pregano nelle moschee, ciò non cancella 2000 anni di cristianità” (p. 110). Si è italiani non per il colore della pelle o per i “tratti somatici”, ma per la cittadinanza: e l’essere italiano si evolve, le popolazioni non sono entità fisse, pure e intoccabili.

L’egocentrismo, come anticipato, porta l’autore ad assolutizzare le sue esperienze di vita, traendo da esse giudizi universali; non solo, egli fa delle dichiarazioni nette senza prendersi la briga di dimostrarle, spacciandole per verità. Ancora una volta, sempre a proposito degli stranieri, il generale parla di sé stesso, partendo da un’esperienza infantile, raccontando che lui da piccolo viveva a Ravenna, allorché “A parte le orde di tedeschi e di biondi turisti del Nord Europa che, a partire dalla primavera, cominciavano a invadere le piazze, i lidi e le bellissime chiese bizantine, di stranieri non se ne vedevano tanti per le strade della città” (p. 88). L’assenza di stranieri di quel periodo sembra essere per lui un fatto positivo, perché egli sottintende che allora la società era più ordinata e meno vessata dalla criminalità: la cosa però è falsa, perché al tempo c’era il terrorismo, c’erano le bombe fasciste, la mafia faceva il bello e il cattivo tempo in Sicilia. Va be’, andiamo avanti. Da quel che scrive, la situazione oggi per lui è peggiorata proprio perché ci sono i migranti. E come giustifica questa idea? Ovviamente partendo dalla sua esperienza personale. Egli scrive che un giorno, mentre con un amico si stava “gustando” un caffè a Viareggio, è “stato preso d’assalto da una schiera di persone di colore che, in rapida successione, mi hanno abbordato senza tanti convenevoli chi per cercare di vendermi un libro sulla cultura africana, chi proponendomi fazzoletti di carta e accendini a un euro e chi, molto più semplicemente, chiedendomi qualche spicciolo per comprarsi da mangiare” (p. 89). E poco dopo, “passeggiando sul bellissimo lungomare, ho incrociato un paio di Cingalesi che uscivano da un cantiere, ho salutato un Filippino che conosco e che lavora presso uno stabilimento balneare e sono incappato sui teli pieni di ciarpame stesi dai Senegalesi vicino al molo” (Ivi).

Può essere che il generale “un giorno” abbia avuto la sfortuna di essere avvicinato da queste persone che si permettono di infastidire lui, uomo benestante e tranquillo, per chiedergli qualche spicciolo per mangiare o per vendere qualche cianfrusaglia per sbarcare il lunario. Ma quante volte capita realmente una cosa del genere nelle nostre città? E inoltre, chi ci assicura che Vannacci dica il vero? Si noti che l’autore non manca di far notare di aver salutato un “Filippino” che conosce, come a dire che lui ha amici migranti, dunque non è razzista. L’autore, insomma, partendo da un’esperienza personale casuale (perché non dice “tutti i giorni” bensì “un giorno”) che, per quanto fastidiosa, non è certamente grave, conclude addirittura che la società multietnica non è ineluttabile, bensì un’esigenza che creatasi solo di recente a causa di fattori storici (il colonialismo) e della morbidezza delle società occidentali, che fanno sapere di voler accogliere tutti. Ma quando mai? Secondo l’autore, si tratta di un inganno, perché la società multietnica non è “quell’Eden che alcuni dissimulatori vorrebbero farci apparire” (p. 93).

Cadendo nel solito difetti di enunciare presunte verità senza dimostrarle, Vannacci scrive che la mescolanza delle culture non è solo pericolosa dal punto di vista sociale, ma è antistorica perché le società nascono attorno a valori comuni e condivisi: “Chi me lo farebbe fare di congregarmi con chi non la pensa come me, con chi ha abitudini e costumi diversi, con chi ama ciò che io detesto e che, per giunta, non ha alcuna intenzione di trovare un punto d’incontro al fine di rendere serena e pacifica la convivenza?” (p. 92). Chi l’ha detto che è sempre così? È vero che molto spesso i popoli si sono formati attorno a valori comuni, ma è altrettanto vero che ci sono state popolazioni che sono nate grazie all’immigrazione e al contatto tra le loro genti diverse. Come è vero che la mescolanza di culture ed etnie nel passato ha provocato guerre e conflitti, è altrettanto vero che tale mescolanza ha promosso lo sviluppo dei popoli e la contaminazione benefica tra culture, si pensi al confronto-scontro con l’Islam durante il medioevo, foriero di guerre ma anche di conquiste culturali essenziali per i due contendenti. Chi l’ha detto che l’incontro tra culture porta sempre problemi? A volte è vero, altre volte non lo è. Vannacci, invece, prende come verità assoluta un aspetto parziale di una questione assai complessa e, ovviamente, propone una soluzione drastica, come se fosse facile affrontare il tema della migrazione: “Ovunque si sia cercato di applicare l’ideologia del multiculturalismo si è andati incontro a esacerbati attriti sociali, crescente violenza e protratti tentativi di prevaricazione. L’immigrazione non è un fenomeno ineludibile ma è governato da leggi di convenienza. La stabilità, la prosperità, lo sviluppo e la pacifica convivenza della società occidentale può essere seriamente messi in pericolo dai continui ed incontrollati flussi migratori” (p. 128). Pertanto, se la convivenza è impossibile, è necessario che un gruppo domini e l’altro obbedisca: “La società multiculturale e multietnica rispetto di norme comuni. In Somalia tutto andava bene fintanto che Siad Barre, forte di un esercito tutto sommato ben armato e fondatore del primo servizio segreto somalo, riusciva a conglomerare con metodi non proprio da gentiluomo le varie tribù. Così, il braccio pesante di Tito nei confronti delle varie anime della ex Jugoslavia ha consentito una convivenza pacifica per più di mezzo secolo in tutta la penisola balcanica occidentale. Si entra poi nella contemporaneità quando andiamo ad esaminare il ruolo determinante che figure come Saddam Hussein e Gheddafi hanno giocato per garantire con la forza la coesione di stati in cui gli elementi culturali fondanti della società erano estremamente labili” (p. 101). E poco oltre: “Altra verità che quindi mi preme sottolineare è che nel mondo reale la convivenza di più civiltà è tanto più pacifica quanto più vi è il dominio di una civiltà sulle altre oppure, tanto più esista una forte organizzazione statuale che faccia rispettare rigorosamente a tutte le civiltà che coabitano un solo, univoco e irremovibile codice di condotta. Questa ruvida e amara verità, che io ho semplicemente sperimentato sulla mia pelle in regioni dove ci si è scannati atrocemente fra diverse etnie, l’antropologa Ida Magli l’ha chiaramente evidenziata dopo anni di studi e di approfondite ricerche scientifiche nelle sue opere. La scienziata è lapidaria: “nella nostra storia umana, le culture non si integrano pacificamente fra loro ma una vince e domina e l’altra perde, e viene dominata” (p. 102).

A parte l’idea pericolosa di aumentare i conflitti tra i gruppi sociali e di parlare di dominio di un gruppo sull’altro, è scandalosa la sua ammirazione per dittatori come Saddam e Gheddafi e Tito (dittatori che si rifacevano tutti, in modo assai diverso, a un’idea socialista) i quali governavano i loro popolo con il famigerato pugno di ferro, spargendo il sangue dei loro dissidenti.

 

Ammirazione per la Russia di Putin

Il generale ammira uno stato dittatoriale che ha invaso un paese libero come l’Ucraina. Ma perché lui venera la Russia di oggi? Principalmente, perché gestisce bene l’immigrazione: “in Russia, nonostante l’incredibile estensione del territorio e l’impossibilità di gestirne e controllarne le frontiere, l’immigrazione clandestina non esiste o è un fenomeno relegato alle popolazioni nomadi delle steppe asiatiche. Il clandestino in Russia non lo vai a fare perché sai che non avrai vita facile” (p. 117). Naturalmente, poiché in Russia non c’è immigrazione incontrollata, la criminalità è minima: “Per non parlare della Russia, ed in particolare di Mosca, dove incontravo, ben dopo l’imbrunire nei grandissimi e bellissimi parchi cittadini, donne sole e mamme con bambini che assaporavano il fresco delle sere estive senza il benché minimo timore di essere molestate”. E poi questa perla: “In Russia c’è lavoro, e ce n’è anche tanto. Rispetto a molti posti del mondo, vi si vive anche abbastanza bene” (p. 116). Chissà cosa pensano i poveri ucraini bombardati dai missili russi, delle lodi di un generale italiano al paese che li sta aggredendo!

 Connessione tra immigrazione e criminalità.

In una Italia dove i reati negli ultimi anni sono in costante calo, si continua a parlare dell’emergenza sicurezza. Lo si fa perché una parte politica, il centro-destra, ha basato su questa emergenza il suo successo elettorale ed è in ciò spalleggiata dalle televisioni amiche (prima soprattutto Mediaset, ora anche la RAI). La questione sicurezza viene dunque ingigantita, facendo percepire ai cittadini un’emergenza che nei fatti non esiste. È ovvio che i piccoli reati, per chi li subisce, sono odiosi, ma il meccanismo psicologico innestato è il solito. Si dà notizia della presenza delle borseggiatrici, si mettono assieme dieci-venti testimonianze, e si batte la grancassa, si martella ogni giorno sullo stesso tema e si crea l’idea che esista un’emergenza su un pubblico già predisposto a farsi allarmare. Vannacci ammette che i reati calano e che l’insicurezza una condizione più percepita che reale, ma poi, con una demagogia che fa cadere le braccia, scrive: “Fa ribrezzo quell’Italia ormai schierata dalla parte dei delinquenti! Uscendo dalla logica del Mondo al Contrario mettere in carcere i delinquenti non è indice di autoritarismo e disumanità, non viola alcun diritto fondamentale, non ci fa tornare indietro a tempi medioevali ma è il modo meno violento per rendere inoffensiva una persona pericolosa, per controllarla e per recuperarla alla convivenza sociale” (p. 142). Ancora una volta, dopo un’analisi vagamente pacata della situazione (benché, secondo me, non condivisibile), l’autore manda in vacca scrivendo frasi di tenore demagogico.

Questa tesi può essere vera in astratto, ma si scontra con un’epoca che è molto più frazionata di quella di un tempo. D’altra parte, anche nel passato, nonostante conflitti assai acuti, le civiltà di sono incontrate, mischiate: non ci sono soluzioni facili alla questione immigrazione. Vannacci deve rassegnarsi: se una parte del mondo vive nel benessere e nella libertà, è ovvio che attragga chi scappa da guerre e fame. Lui teme che la mescolanza possa inficiare i valori che tengono uniti un popolo, come quello di patria affermando che chi vive in Italia deve adeguarsi agli usi, ai costumi e alle leggi. Tutte cose comprensibili e che mi sembra che la gran parte degli stranieri accetti tranquillamente, tanto è vero che l’emergenza sicurezza viene usata solo a scopi politici, facendo un gran caos quando uno straniero commette un reato e invece sottacendo o dando meno spazio (parlo della destra) quando un italiano commette un reato contro uno straniero.

Conclusione

Si potrebbero scrivere molte cose su uno scritto che si estende per più di trecento pagine. La sua paura della diversità, della multiformità, del policentrismo dei tempi d’oggi, lo conduce sul terreno di un anacronistico atteggiamento antimoderno. Questo non significa negare i problemi, enormi peraltro, che l’età contemporanea pone all’umanità; la società multietnica, se è inevitabile, non è qualcosa che si può imporre da sé. Tuttavia, se la soluzione verso certi problemi è quella suggerita dall’autore, cioè il fatto che ogni cultura si arrocchi e si chiuda in sé stessa, non avremo nessuna società, né multietnica né monoetnica. E il mondo, sembra, va proprio in nella direzione auspicata da Vannacci: la direzione della chiusura, dell’aggressività verso il diverso, del respingimento indiscriminato verso tutti i migranti.

Per questo, non si comprende il senso del libro di Vannacci, il suo risentimento, quando il mondo sta seguendo proprio la direzione che lui e i sovranisti desiderano e sperano che esso segua; certo, di fronte alla logica inesorabile di una cultura occidentale che, sentendosi alla fine, reagisce arroccandosi perché è debole, non ci sono argomenti validi da opporre. Non serve spiegare che l’umanità, da quando è sulla terra, si è sempre mischiata; che i flussi migratori hanno garantito nei millenni la circolazione delle merci e delle idee; che il contatto tra i popoli può provocare certamente tensioni, ma che senza certi contatti forse la modernità non sarebbe mai cominciata. Né serve spiegare che l’Europa e l’Occidente non hanno radici cristiane, bensì greco-romane, perché il cristianesimo è nato in Oriente e si è diffuso per primo per molti secoli in Oriente e solo molto più tardi in Occidente. Il libro mi sembra il termometro di una civiltà terrorizzata, che si sente in declino demografico ed economico ed è incapace di ascoltare le ragioni, ma è attratta solo dai sentimenti negativi. Scrive l’autore: “Nei secoli l’Occidente si è guadagnato una posizione predominante basata sullo sviluppo e sulla tecnologia che ci consente di vivere in condizioni di benessere estremamente più vantaggiose dei sette miliardi di persone che vivono altrove. Se vogliamo mantenerlo, questo benessere, se lo vogliamo tramandare ai nostri figli allora tocca continuare a lottare duramente per esso altrimenti sì che il tanto vaticinato inevitabile ed ineludibile si trasformerà in realtà” (p. 126). E il diritto all’odio appare il degno corollario di questo libro a tratti delirante: “Per quanto esecrabile, l’odio è un sentimento, un’emozione che non può essere represso nell’aula di un tribunale. Se questa è l’era dei diritti allora, come lo fece Oriana Fallaci, rivendico a gran voce anche il diritto all’odio e al disprezzo e a poterli manifestare liberamente nei toni e nelle maniere dovute” (p. 281).

lunedì 4 aprile 2022

Finalmente è uscita la parafrasi commentata de l'Inferno di Dante Alighieri


"INFERNO - LA DIVINA COMMEDIA

La prima e la più affascinante e ricca delle tre cantiche di Dante Alighieri.

PARAFRASI e COMMENTO approfonditi e spiegati in maniera chiara, rapida ed esaustiva.

Ecco la guida completa che ti consente di:

1) conoscere i personaggi letterari e storici legati all’Inferno

2) avere a disposizione una parafrasi letterale di tutti e 34 i Canti

3) ritrovare il significato delle situazioni, dei luoghi e dei personaggi storici citati nel testo

All’inizio di ogni Canto, potrai trovare i MOMENTI, PERSONAGGI e i LUOGHI insieme ad un

SOMMARIO che ti permetterà di districarti in maniera rapida all’interno del viaggio dantesco."

Disponibile su youcanprint e su Amazon e su IBS

sabato 9 ottobre 2021

Viola Ardone, "Oliva Denaro", Einaudi 2021 - recensione

 

Leggere un libro appena uscito, scritto da un’autrice il cui precedente volume, Il treno dei bambini, ha avuto un gran successo, è rischioso. Si ha paura di leggere qualcosa che si immagina essere stato imposto dall’editore all’autrice per sfruttare l’onda del successo della precedente pubblicazione. Con questo spirito, scettico e timoroso, mi sono avvicinato al libro di Viola Ardone, Oliva Denaro, appena edito da Einaudi. Per fortuna già dopo poche pagine ogni dubbio è stato spazzato via da una storia intensa, malinconica, desolante ma arricchita da un certo pathos speranzoso.

È un libro al femminile, non solo perché racconta l’amara vicenda di una ragazzina che vive in un paesino siciliano nel 1960, ma perché in questo libro i maschi sono dei comprimari, sia quando sono cattivi, sia quando, come il padre della protagonista, sono buoni. Ed è un libro storico, che racconta l’inizio della presa di coscienza delle donne su sui propri diritti, ma è anche un libro politico, perché sta dalla parte delle donne, di tutte le donne, quelle picchiate, violentate, un tempo costrette a sposarsi e oggi, in apparenza integrate in società, eppure sempre in pericolo, spesso uccise perché vogliono essere libere di scegliere. Rispetto al 1960 sono cambiate le leggi, le convinzioni morali, la mentalità comune… e tuttavia, come allora, quando una donna intende essere libera, sovente la violenza è dietro l’angolo.

Ecco allora l’idea centrale del libro, almeno per me: la convinzione che le donne possono vincere le loro battaglie solo se sono unite, perché da sempre, per la società maschilista, non esiste “la” donna, ma esistono solo “le” donne, al plurale, come una massa indistinta non di individui definiti, ma di esseri che esistono esclusivamente in relazione a un uomo: “perché [le donne] devono essere sempre declinate al plurale per ricevere considerazione? Agli uomini basta essere uno per valere qualcosa, con nome e cognome. Noi invece dobbiamo metterci in riga a formare una schiera, come fossimo una specie a parte”. E ancora: “La donna singolare non esiste. Se è in casa, sta con i figli, se esce va in chiesa o al mercato o ai funerali, e anche lì si trova assieme alle altre. E se non ci sono femmine che la guardano, ci deve stare un maschio che la accompagna”. Quello che per Oliva era uno svantaggio delle donne, il loro essere sempre considerate una massa, diviene nel tempo una forza, perché conduce molte di loro a prendere consapevolezza di sé, dei propri diritti, come collettività di donne, facendo loro capire il vero significato della solidarietà femminile. Certo, la strada è lunga, faticosa e per nulla lineare.

La cosa bella di questo libro, tra le tante, è l’assenza di ogni retorica, di ogni ingenua fede nel progresso dei tempi, nell’evoluzione della morale. Le leggi e la morale cambiano solo se gli uomini e le donne si muovono affinché ciò accada. La protagonista, Oliva, vive tutte le difficoltà di una “femmina” siciliana degli anni ’60: l’ossessione dell’onore, la violenza, il senso di superiorità del maschio, la legge che prevede il delitto d’onore, l’idea che una donna non possa fare nulla da sola; il marchio di infamia su chi viene “disonorata” perché si sa che poi non la vuole nessuno; la spietata commiserazione verso la zitella, la pratica della “fuitina” e il matrimonio riparatore che, secondo la legge di allora, estingueva il reato di rapimento da parte dell’uomo. Per questo la protagonista si domanda a un certo punto quale sia la colpa di chi è nata femmina. Perché questo sembra suggerire la mentalità del paese: l’essere femmina è una specie di fardello, un peso che viene passato dal padre al marito. Non ci sono sentimenti, né amore, o almeno, non l’amore come lo si intende oggi. E la legge sì, in teoria esiste la legge, esiste la giustizia ma… dice il maresciallo dei Carabinieri a un certo punto al padre di Oliva: “Giustizia è parola scivolosa, – dice. [...] – Ci sta la giustizia della legge e la giustizia degli uomini, che non sono propriamente l’identica cosa”.

Tuttavia, il libro non è il racconto di una sconfitta, di un’umiliazione. È anche la storia di una presa di coscienza, per quanto faticosa e lacerante; per questo il libro mi sembra sia altresì un romanzo di formazione, grazie alla quale la protagonista acquisisce la consapevolezza di sé, sia incontrando le persone giuste, le poche donne diverse da lei, sia studiando. Ma attenzione, la cultura non è una fonte di riscatto immediato per Oliva: detto così sarebbe sola retorica, e s’è detto che uno dei pregi del libro è l’assenza di retorica. L’autrice non costruisce un discorso moralistico sulla cultura come modo per salvarsi. La cultura e l’istruzione, di per sé, non salvano, ma lo fanno solo una certa cultura e una certa istruzione.

Infatti, la protagonista non sopporta le cose che le insegnano a scuola o le cose che le dice la madre per educarla. Si tratta di un’educazione maschilista, che insegna alle femmine solo a stare buone, brave, che chiede loro di non provocare (perché poi, si sa, l’uomo è uomo), di tenere gli occhi bassi mentre camminano in strada, la gonna lunga, il vestito non attillato. E insegna alla donna che lei appartiene sempre di qualcuno: al padre o al marito. E se una donna non è di nessuno, è una zitella. Oliva invece vuole una cultura nuova, che insegni alle donne a sviluppare la coscienza di sé: “Al posto delle tabelline e dei verbi irregolari avrebbero dovuto insegnarci a dire di no, tanto il sì le femmine lo imparano alla nascita”.

Oliva si è opposta un sistema di valori secolare. E alla fine è cambiata: cresciuta in un ambiente conservatore, ha saputo essere rivoluzionaria in maniera morbida. Anche il padre (che è l’unico maschio che si comporta con amore verso di lei, almeno per buona parte del romanzo), il fratello, la madre e la sorella, hanno avuto un riscatto grazie a lei. E il fatto che, anni dopo, lei sia tornata nel paese natale e abbia rivisto il suo carnefice, l’uomo che l’aveva rapita e violentata per disonorarla e per averla tutta per sé, non è per lei una vittoria, ma la consapevolezza che la brutalità e l’ignoranza di quell’uomo sono state una condanna anche per chi, da maschio, non sa ribellarsi a un sistema sociale retrogrado e intriso di ignoranza: “Anche lui ha perso, anche lui è una vittima: dell’ignoranza, di una mentalità antiquata, di una mascolinità da dimostrare a tutti e a ogni costo, di leggi superate dal tempo e dalla storia”.

In fondo un libro come questo ha il merito di commuovere, divertire, fare incavolare e insegnare qualcosa. Il coraggio di Oliva è un coraggio femminile collettivo che forse, oggi, sarebbe necessario, perché un conto sono le leggi dello Stato, che sono per fortuna cambiate, un altro è la “natura” o la mentalità, soprattutto maschile. Oliva ha lottato contro una società barbara e ignorante, e ha avuto ragione, come dice nel finale, rammentando quando a imparato a dire “no”: “ci sono dei «no» che non costano niente e altri che hanno un prezzo molto alto. Il mio l’ho pagato tutto, e con me la mia famiglia. Per molto tempo mi sono sentita sola, giudicata, sbagliata, ma oggi so che avevo ragione e che è stato giusto così”.

Il romanzo si conclude nel 1981, il giorno in cui viene abolito l’articolo del Codice penale che prevedeva il delitto d’onore. È un simbolo, una bella idea dell’autrice, per concludere un libro che si legge d’un fiato e che lascia tanta ricchezza in chi lo legge.


mercoledì 2 giugno 2021

KLARA E IL SOLE di KAZUO ISHIGURO


Raccontare il futuro è come lanciare i dadi: un’impresa molto difficile. Raccontare il futuro senza scadere nella fantascienza da quattro soldi è un’impresa ancora più ardua. Il premio Nobel Kazuo Ishiguro invece riesce a immaginare il futuro senza scadere in assurdità. Nel suo recente Klara e il sole, Einaudi, l’autore racconta sì una società automatizzata, tecnologizzata, ma non lo fa con tono profetico né apocalittico. Non vuole né esortare a gettarsi nel futuro né ammonire sui pericoli della tecnologia: egli intende solo raccontare una storia. Non si erge a profeta e di questo il lettore non può che essergliene grato. Sarà poi il compito di chi legge, eventualmente, trarre insegnamenti o impressioni.

La protagonista del romanzo è un robot, anzi, qualcosa di più affinato, una androide (nel libro si chiama AA), nemmeno delle più sofisticate (esistono infatti i B3, molto più tecnologici). E già questo fatto rivela una capacità di scrittura notevole: immergersi nella mente di una androide e raccontare la storia dal suo punto di vista, è stata un’idea geniale. Anche perché l’androide in questione, Klara, è stato progettato per essere molto umana. Non fa niente di speciale, non compie imprese mirabolanti, non è un fenomeno nei calcoli più astrusi. È stata programmata per fare compagnia ai bambini e ragazzi. La cosa che questo AA ama è il Sole: ne ha bisogno e lo cerca non solo, si può ipotizzare, perché funziona grazie a dei pannelli solari, ma anche perché esso le dona una sorta di energia supplementare, quasi emotiva. E il fatto che il sole faccia così bene a lei, convince Klara che esso possa fare del bene a tutti, persino agli esseri umani.

Sin dalle prime pagine, quando si vede Klara esposta nel negozio in attesa di qualcuno che la possa acquistare, l’androide è attratto dai volti dei passanti, come se cercasse di carpire loro qualche segreto. Certo, è stata programmata a comportarsi in questo modo, ma lei sembra metterci qualcosa di suo, una specie di empatia, qualcosa che nessun robot può possedere di natura. È questa la prima grande idea dell’autore: creare un androide assetato di umanità, capace non solo di comprenderla ma anche di sentirla dentro di sé: “Io, però, più guardavo e più volevo sapere e … mi sentii prima confusa e poi sempre più affascinata dalle misteriosissime emozioni che i passanti mostravano di fronte a noi. Mi rendevo conto che se non fossi riuscita a decifrare almeno alcuni di quei misteri, quando fosse arrivato il momento non avrei saputo rendermi utile al mio bambino come dovevo. Perciò, mi misi a caccia – sui marciapiedi, dentro i taxi, tra la folla in attesa sulle strisce pedonali – di quei comportamenti che avevo bisogno di imparare.” Per questo Klara osserva i volti delle persone che vede attraverso la vetrina, immaginando le varie emozioni oppure domandandosi, come le ha detto la direttrice del negozio: “Chissà se avrei sentito, come aveva detto Direttrice, dolore insieme alla mia felicità.”

Il romanzo ha uno scatto in avanti quando Klara viene acquistata da Josie, una ragazzina che si fa vedere più volte davanti alla vetrina prima di convincere la madre a comprare l’androide. Una volta a casa di Josie, Klara entra in relazione con diversi personaggi (la Madre, la domestica, l’amico della sua padrona, Ricky, la mamma di lui e, più tardi, il padre di Josie e un enigmatico Mr. Capaldi) dai quali ricevere sempre un trattamento curioso: nessuno si scandalizza del fatto che lei sia un androide (anche se poi si viene a sapere che nel paese molti odiano gli AA perché rubano loro il lavoro) e tutti tendono a trattarla come un umano, come qualcosa che fa parte della loro famiglia. Non c’è uno stacco tra umano e androide, come se avere un AA in casa fosse un fatto consueto, a volte necessario, in un’epoca in cui i ragazzi non sono più abituati ai rapporti umani, tanto è vero che svolgono periodicamente degli incontri di interazione.

La cosa che va rimarcata è che il mondo in cui questo AA vive non è molto diverso dal nostro: le macchine hanno le ruote di gomma (non ci sono auto svolazzanti), la gente legge libri di carta, Ricky e Josie disegnano fumetti su fogli di carta e così via. Ma Ishiguro, come detto, non scrive un’opera di fantascienza: è interessato ai rapporti tra i personaggi, a come essi si evolvono, nella convinzione che le emozioni abbiano, come dire, alcuni codici e forme attraverso i quali si manifestano, siano esse provate da un’AA o da un umano. E l’amore che sembra esserci tra Ricky e Josie è un esempio di integrazione tra tecnologia e umanità: i due ragazzini avvertono questo sentimento acerbo e lo vivono a volte con sofferenza, altre volte con gioia. Quando per esempio, durante un periodo in cui Josie non sta bene, lei e Ricky cominciano a fare disegni e fumetti, il clima tra di loro, all’inizio allegro, a un certo punto sembra deteriorarsi: non c’è un motivo chiaro, ci sono solo indizi, discorsi sulla madre di Ricky, sul suo futuro. Klara assiste a questi scambi con attenzione, anche se rispettando la riservatezza dei due ragazzini. I quali si “lasciano” quasi senza motivo, come accade quando non si riesce a dare forma in parole a un sentimento, a un’emozione.

Ma Josie è malata, tanto che deve trascorrere lunghi periodi a letto. Non si sa quale sia la sua malattia: la madre accenna a un senso di colpa che prova. E, seppure in modo faticoso, il lettore viene a sapere, ascoltando altresì quello che Ricky racconta alla propria madre, che in quella società esiste una “procedura” per potenziare i bambini. L’autore non dice nulla di più, ma fa capire che, in conseguenza di ciò, esiste una sorta di discriminante tra i bambini potenziati e quelli “normali”, tanto è vero che ci sono alcuni college che accettano solo bambini potenziati. Non si saprà mai in cosa consiste questo potenziamento, né come esso venga concretamente attuato. Tuttavia, né Josie e né Ricky sono stati potenziati: se nel caso del ragazzo questo fatto provoca delle difficoltà (lui vorrebbe accedere a un’università prestigiosa che accetta un numero limitato di ragazzi non potenziati), nel caso di Josie questo fatto sembra abbia provocato conseguenze più gravi. Si intuisce infatti, benché non lo si comprenda in modo chiaro, che il male della ragazza derivi in qualche modo da una procedura di potenziamento forse andata male.

Altro non viene detto: non ci sono, nel romanzo, né medicine, né ospedali né visite mediche. Ogni tanto appare un dottore a casa di Josie, ma il suo ruolo è marginale. Gli adulti, la madre di Josie, il padre che appare a un certo punto e Mr. Capaldi sembrano girare a vuoto, cercando una soluzione che non esiste. Questo Mr. Capaldi sta facendo un ritratto di Josie, ma Klara scopre che non si tratta di una pittura, bensì di una specie di statua, anzi, di un androide che dovrebbe sostituire Josie se e quando ella morirà. E Klara dovrebbe essere reclutata per addestrare l’androide a comportarsi esattamente come Josie, in modo che i suoi cari non ne sentano alcuna mancanza. Per questo Klara decide di osservare sempre più attentamente la sua padroncina, anche perché la madre di Josie glielo chiede in modo accorato, perché ha già perso una figlia, Sal: “A conti fatti. Ti sto chiedendo di farlo funzionare. Perché se succede, se capita di nuovo, per me non ci sarà un altro modo di sopravvivere. Ne sono venuta fuori con Sal, ma non posso farcela di nuovo. Quindi lo chiedo a te, Klara. Fa’ del tuo meglio per me. Al negozio mi hanno detto che sei straordinaria. Ti ho osservata abbastanza per sapere che potrebbe essere vero. Se ti ci metti d’impegno, chissà? Potrebbe funzionare. E sarò in grado di volerti bene”.

La madre sarà davvero in grado di volere bene a un androide che imita in tutto e per tutto la figlia? È possibile disumanizzare a tal punto i rapporti umani, rendendoli riproducibili? È possibile che tali rapporti siano replicabili da un robot? L’identità umana non è troppo colma di sfaccettature da essere qualcosa di irriducibile a un sistema, per quanto avanzato, composto da circuiti e cose simili? Un software può forse imitare le espressioni umane, ma può davvero sentirle nel profondo, renderle autentiche? È possibile imparare ad amare, odiare e soffrire? Sono queste le domande che forse vengono in mente al lettore, soprattutto quando il padre di Josie chiede a Klara se conosce il cuore umano e se sarà mai in grado di penetrare nel fondo del cuore di Josie: “Il che potrebbe essere difficile, o sbaglio? Una cosa che supera perfino le tue strepitose capacità. Perché un’imitazione non funzionerebbe mai, per quanto sapiente. Dovresti imparare anche il suo cuore, e impararlo appieno, o non diventerai mai Josie a nessun livello che conti”. Il romanzo proseguirà, ma non è giusto svelare il finale. Si può dire che Klara, l’androide, mostra una capacità empatica enorme, perché si prodigherà in tutti i modi per provare a far guarire Josie. Perché Josie vuole continuare ad avere un avvenire, come vuole averlo Ricky, il suo amico, anche se i due pian piano si allontanano, inevitabilmente perché stanno crescendo.

Klara rimarrà la vera protagonista del romanzo, mostrando un carattere molto più marcato dei personaggi umani che la circondano. La sua fiducia nella forza salvifica del sole, che all’inizio appare un po’ ingenua, poco adatta a un androide, si dimostrerà ben riposta. Ma lo sarà perché è appunto una fiducia, una vera e propria “fede”, qualcosa in cui lei crede fermamente pur non avendo evidenze o prove chiare e inconfutabili sulla sua verità. E in ciò Klara si mostrerà assai umana, come anche nel destino che l’attende.

sabato 17 aprile 2021

 LA "COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI- PARAFRASI E COMMENTO DELL'INFERNO

CANTO III



AVVERTENZA

Il testo della Commedia che ho seguito è quello dell’edizione commentata da Giorgio Inglese nel 2016  e pubblicata dall’editore Carocci.

Ecco le edizioni della Commedia che consultate:

La Divina Commedia, introduzione di Bianca Garavelli, Rizzoli, Milano 1949, edizione digitale 2013.

La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1991

La Divina Commedia, a cura di Sirio A. Chimenz, UTET, Torino 2000, edizione digitale 2013

Commedia, a cura di Giorgio Inglese, Carocci, Roma 2016

La Divina Commedia, a cura di E. Malato, Salerno Editrice, Roma 2018


CANTO III

Luogo: la porta dell’inferno. L’antinferno. Le rive del fiume Acheronte

Momenti:

a)      La porta dell’inferno.

b)     Gli ignavi o pusillanimi.

c)      Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte.

Personaggi: “colui che per viltade fece il gran rifiuto”. Caronte.

Peccatori: ignavi.

Pena: Gli ignavi sono condannati a inseguire uno stendardo che corre veloce davanti a loro e al contempo sono tormentati da insetti che rigano di sangue le loro carni. Il loro sangue, caduto a terra, viene raccolto dai vermi: “Io, che riguardai, vidi una insegna / che girando correva, tanto ratta / che d’ogni posa mi parea indegna. / E dietro le venia sì lunga tratta / di gente, ch’i’ non avrei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta […]. / Questi sciaurati, che mai fur vivi, / erano gnudi e stimolati molto / da mosconi e vespe ch’eran ivi. / Elle rigavan lor di sangue il volto, / che mischiato di lacrime ai lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto” (vv. 52-69).

 

SOMMARIO

Dante e Virgilio oltrepassano una porta che ha sul frontespizio parole minacciose e oscure, poi incontrano i primi dannati, i quali non vivono ancora nell’inferno: si tratta dei pusillanimi, di coloro che nella vita non presero mai posizione. Questi peccatori (tra i quali Dante forse vede l’ombra di papa Celestino V) sono disprezzati sia da Dio che dai diavoli. Dopo gli ignavi, i due pellegrini giungono alle rive del fiume Acheronte, inizio del vero inferno, dove si assiepa sempre un gran numero di anime. Esse sono trasportate sulla sponda opposta da un nocchiero demoniaco, Caronte. Costui, appena s’accorge che Dante è vivo, lo aggredisce verbalmente, ma viene subito messo a tacere da Virgilio. 

 

PARAFRASI

La porta dell’inferno e i pusillanimi

Attraverso di me si va nella città della sofferenza; attraverso di me si va nell’eterno dolore; attraverso di me si va verso chi è perduto per sempre. La Giustizia ha mosso l’essere divino che mi creò; mi hanno costituito la Potestà divina, la somma Sapienza e il primo Amore. Prima di me non sono esistite cose se non eterne e io stessa sono eterna. Abbandonate ogni speranza voi che entrate”.

Appena vidi queste parole oscure scritte sulla sommità di una porta, dissi a Virgilio: “Maestro, il loro senso mi fa tremare di paura”. E lui mi rispose da persona saggia: “Da questo momento conviene abbandonare ogni timore ed è bene seppellire ogni viltà. Noi siamo giunti in quel luogo di cui ti ho parlato, nel quale vedrai le persone dannate perché hanno mancato di seguire Dio”. Poi, come per darmi conforto, mi porse la mano mostrandomi il suo volto lieto e infine mi fece entrare in quel mondo inaccessibile ai vivi.

In quel luogo oscuro risuonavano pianti e grida di dolore così acuti da provocarmi le lacrime. Lamenti alti e fiochi, parole strane pronunciate in diverse lingue, terribili urla di rabbia, fragore di mani battute contro i corpi, creavano, in quell’aria eternamente buia, un tumulto simile a quello che avviene quando una tempesta infuria sulla sabbia. E io, che avevo la testa piena di orrore, chiesi: “Maestro, cosa è ciò che sento? E chi sono queste persone che paiono tanto sopraffatte dal dolore?”.

E lui a me: “In questa miserevole condizione stanno le anime sciagurate di coloro che vissero senza meritare né lode né infamia. Tra di esse sono presenti quegli angeli che non furono né fedeli e né ribelli a Dio, ma vissero solo per sé stessi. I cieli li hanno cacciati affinché la loro presenza non ne contaminasse la bellezza; l’inferno non li vuole perché i diavoli proverebbero orgoglio a causa loro”. E io: “Maestro, cosa induce queste anime a lamentarsi tanto dolorosamente?”. Lui rispose: “Te lo dirò brevemente. Costoro non possono sperare di morire, e la loro condizione è tanto miserabile da indurli a invidiare qualunque altra sorte. Il mondo non conserva alcun ricordo di essi. La misericordia e la giustizia divina li sdegnano. Non meritano che si parli di loro: guardali appena e passa oltre”.

E io, che guardai lo stesso, vidi uno stendardo che girava rapido in tondo senza fermarsi mai. Dietro di esso correva una fila talmente numerosa di gente che non avrei mai creduto che la morte ne avesse potuto mietere tanta. Dopo aver riconosciuto qualcuno in quella folla, vidi e distinsi l’ombra di colui che fece per viltà il gran rifiuto. Subito compresi e fui certo che di questa folla facevano parte i peccatori che erano disprezzati sia da Dio sia dai diavoli. Questi miserabili, che vissero senza usare la loro facoltà di giudizio, correvano nudi ed erano di continuo punti da mosconi e vespe. Il sangue, mischiato alle lacrime, rigava i loro volti e cadeva ai loro piedi, dov’era raccolto da vermi schifosi.

 

Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte

Quando mi decisi a guardare oltre, vidi in lontananza molta gente assiepata lungo la riva di un grande fiume. Perciò dissi: “Maestro, dammi la possibilità di sapere chi sono costoro e quale legge li fa sembrare tanto impazienti di passare dall’altra parte del fiume, per quel che riesco a vedere, stante la scarsa luce che c’è”. Lui mi rispose: “Tutte queste cose ti saranno svelate quando ci fermeremo sulla desolata riva del fiume Acheronte”. Io allora, tenendo gli occhi bassi, vergognandomi per quel che avevo detto, temendo di aver proferito qualcosa di sbagliato, decisi di tacere finché non fossimo giunti presso il fiume.

Ma ecco venire verso di noi, su una piccola imbarcazione, un uomo assai vecchio, con barba e capelli Bianchi, che grida: “Guai a voi, anime malvage! Non abbiate alcuna speranza di vedere il cielo: io vengo per trasportarvi sull’altra riva, nel caldo e nel gelo. E tu che sei lì, anima di uomo vivo, allontanati da questi che sono tutti morti”. Vedendo che non mi spostavo, aggiunse: “Arriverai al luogo a te destinato seguendo un’altra via e sarai trasportato da un vascello più leggero”. Ma Virgilio gli disse: “Caronte, non darti pena: è deciso che costui passi da qui lassù in cielo, dove si può tutto quello che si vuole, e non chiedere altro”. Da questo momento si quietarono le guance ispide del nocchiero della palude nera, i cui occhi avevano ai lati cerchi rossi fiammeggianti.

Tuttavia, le anime desolate e nude lì raccolte, dopo aver udito le sue terribili parole, impallidirono e iniziarono a battere i denti per il terrore. Ingiuriavano Dio, i loro genitori, la specie umana, il tempo, il luogo in cui erano nati e i loro antenati. Poi, lamentandosi con gran strepito, si raccolsero lungo la riva che attende tutti coloro che non hanno timore di Dio. Il demonio Caronte, con gli occhi di fuoco, facendo loro segni, li raggruppò tutte, picchiando col remo chiunque rallentasse.

Come in autunno le foglie, una dopo l’altra, cadono dall’albero fino a che il ramo non vede a terra le fronde che prima lo adornavano, allo stesso modo quelle anime malvagie si allontanarono dalla riva una dopo l’altra, come uccelli che rispondono a un richiamo. In questo modo esse venivano traghettate su quelle acque oscure e, ancor prima che approdassero sull’altra riva, una nuova folla di anime da trasportare si presentava sulla triste riva del fiume Acheronte.

“Figlio mio”, mi disse il mio gentile maestro, “tutti coloro che muoiono privi della grazia di Dio si radunano qui da ogni nazione. E sono tutti pronti ad attraversare il fiume, perché è la stessa giustizia divina a spronarli a farlo, tanto che il loro timore diventa desiderio. Da qui non passa nessuna anima destinata alla salvezza; pertanto, se Caronte si lamenta di te, sai bene ormai qual è il significato delle sue parole”.

Dopo questo discorso, quella regione oscura tremò così forte che il ricordo dello spavento che provai allora mi riempie ancora oggi la fronte di sudore. La terra, intrisa di lacrime, fece sorgere un tale vapore che suscitò un lampo rosso che mi fece perdere i sensi: e caddi a terra come se fossi morto.

 

COMMENTO

La porta dell’inferno e i pusillanimi

Sulla soglia dell’inferno c’è una porta aperta sul cui frontespizio campeggia questa scritta: Per me si va nela città dolente; / per me si va nel’etterno dolore; / per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore: / fecemi la divina potestate, / la somma sapïenza e ‘l primo amore. / Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate” (vv. 1-9). La “divina Potestate” è Dio, la “somma Sapienza” il Figlio di Dio e il “primo Amore” lo Spirito Santo. La porta dell’inferno, nonché l’inferno stesso, sono stati creati da Dio e fanno parte del suo piano provvidenziale, poiché tramite essi la giustizia divina punisce i peccatori che non seguirono il sommo bene e non seppero pentirsi.

Varcata la soglia infernale, i due pellegrini avvertono lamenti terribili, urla di dolore, fracasso di mani che percuotono corpi. In questa zona, che non appartiene ancora all’inferno vero e proprio, sono puniti gli ignavi, i quali in vita, per viltà, non scelsero mai un’opinione o una fazione politica. Essi sono condannati a inseguire senza sosta un’insegna e sono al contempo tormentati da insetti che rigano di sangue le loro carni. Il loro sangue, caduto a terra frammisto alle lacrime, diventa cibo per i vermi. Una scena estremamente ributtante.

La pena è modulata sul meccanismo del contrappasso: poiché da vivi i pusillanimi non risposero agli stimoli della vita sociale e politica, nell’inferno devono inseguire in eterno un’insegna e sono continuamente punti da insetti. La loro pigrizia e inerzia terrena si trasforma in un movimento continuo e doloroso. Per Dante il peccato di “ignavia”, non contemplato peraltro dalla teologia tradizionale, è particolarmente odioso, tanto che questi peccatori non fanno nemmeno parte dell’inferno, perché anche Lucifero li disprezza. Non è difficile scorgere in questo spregio per chi non sceglie il riflesso del clima politico dei tempi: in un’epoca di forti contrapposizioni e di laceranti divisioni qual era quella vissuta da Dante, era praticamente impossibile non schierarsi mai né con una parte né con un’altra, dato che in genere ogni fazione politica giudicava coloro che non militavano dalla sua parte come dei nemici da abbattere.

Tra gli ignavi sono puniti pure quegli angeli che non scelsero né Dio né Satana e che, come gli altri pusillanimi, sono qui castigati perché Dio non vuole che i diavoli, vedendoli, si sentano superiori a loro. È bene spiegare: se questi angeli pusillanimi fossero stati precipitati nell’inferno, i diavoli che, a differenza loro, fecero comunque una scelta di campo (sebbene sbagliata), proverebbero orgoglio, ossia un sentimento positivo che attenuerebbe la pena che scontano per il fatto di essersi ribellati a Dio. In altre parole, per Dante una scelta di vita sbagliata è sempre preferibile a una vita spesa a non scegliere nulla. Per questo gli ignavi vanno ignorati, come suggerisce Virgilio: “Non ragioniam di lor, / ma guarda e passa” (v. 51).

Dante in realtà dà un’occhiata e tra i pusillanimi gli pare di scorgere una figura conosciuta, “l’ombra” di colui che fece il “gran rifiuto”. Questi versi hanno dato vita a varie interpretazioni, poiché il poeta non fa nomi. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che Dante abbia visto l’ombra di Ponzio Pilato, ma secondo la maggioranza degli interpreti l’ombra apparterrebbe a papa Celestino V, che nel 1300 lasciò la carica pontificia, assunta poi da quel Benedetto Caetani (divenuto papa col nome di Bonifacio VIII) che Dante detestava perché gli imputava l’essere causa della sconfitta dei guelfi Bianchi , evento che determinò il suo allontanamento da Firenze. Quasi certamente Dante pensava che Celestino V fosse stato spinto ad abdicare dal soglio pontificio proprio dal futuro Bonifacio VIII, anche se, secondo la EP (voce: Bonifacio VIII), “La cosa va esclusa, essendo invece assai probabile che l’idea del ‘gran rifiuto’ sia sorta e cresciuta nell’animo stesso di Celestino V, e può darsi benissimo che Caetani, ormai noto e stimato come una vera autorità nel campo del diritto canonico, sia stato interpellato dal papa circa l'ammissibilità e validità della rinuncia; ed è da credere che il suo parere, dato però in piena scienza e coscienza, sia stato determinante”.

Alcuni studiosi invece non concordano con questa opinione, osservano che Celestino V (al secolo Pietro del Morrone) fu canonizzato già nel 1313 ed ebbe fama di santità, venendo spesso contrapposto proprio a Bonifacio VIII. Tuttavia, nel 1313 l’inferno era quasi sicuramente già stato scritto e Chimenz precisa che “Non si oppone all’identificazione con Celestino la sua fama di santo. Dante prestò fede (cfr. Inferno, canto XIX, vv. 56-57), come i suoi contemporanei, alle voci – sembra non infondate -, di aver egli ceduto alle pressioni esercitate su di lui, perché abdicasse, dal cardinal Caetani, il futuro Bonifacio VIII”. Inoltre, la canonizzazione di Celestino V avvenne nel 1313 ad Avignone (dove dal 1309 un altro papa non amato da Dante, Clemente V, aveva di fatto portato la sede papale) e probabilmente fu ignota per lungo tempo in Italia. Può essere perciò che Dante non ne ebbe notizia, oppure “avrà saputo anche che a canonizzarlo, e per motivi non illibatissimi, era stato papa Clemente V de Got, dietro pressione di re Filippo il Bello di Francia: due tipi […] che il nostro […] magnanimo fazioso detestava” (Sermonti, p. 54). Estraniandosi da questo dibattito vivace, che vede prevalere la tesi secondo cui l’ombra vista da Dante sia quella di Celestino V, il Sapegno chiosa saggiamente: “La figura dell’innominato non ha nel contesto un risalto specifico; è piuttosto un personaggio emblema, termine allusivo di una disposizione polemica, che investe non un uomo singolo, ma tutta la schiera innumerevole degli ignavi”.

 

Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte

Il fiume Acheronte, a cui Virgilio e Dante giungono dopo aver visto gli ignavi, è uno dei fiumi sotterranei dell’aldilà. Attraversando questo corso d’acqua, i peccatori entrano nell’inferno vero e proprio. Nella mitologia greca e poi nell’Eneide, l’Acheronte era affluente dello Stige, il fiume dell’Ade, il regno dei morti (più avanti in effetti i due pellegrini incontreranno proprio lo Stige). Il significato del termine “Acheronte” dovrebbe essere “fiume (o stagno) di dolore”, tanto che Dante definisce la riva su cui approdano lui e Virgilio come “triste riviera”. Nella Commedia, a differenza dell’Eneide, attraverso l’Acheronte non passano tutti i defunti, bensì solo quelli destinati alla dannazione.

Dante descrive la disperazione dei dannati e l’odio che essi manifestano verso chi li ha messi al mondo. Nondimeno, poiché questa loro condanna fa parte di un piano voluto da Dio, Virgilio rivela a Dante che queste anime, alla fine, sono tutte pronte ad attraversare il fiume, quasi desiderando che la pena assegnata arrivi il prima possibile e finisca il tormento dell’attesa. Contrasta con l’atmosfera tetra del canto, il paragone tra le foglie che cadono dall’albero e le anime che abbandonano la riva per salire sulla navicella di Caronte che le condurrà nell’inferno. La similitudine è tratta dall’Eneide (VI, vv. 309-310), poiché la poesia di Virgilio sarà un riferimento costante per l’opera di Dante, soprattutto nell’Inferno.

In questo luogo i due pellegrini incontrano il primo demonio: a guardia del fiume che apre ai dannati la strada verso i cerchi infernali, è difatti posto un vegliardo, con barba e capelli Bianchi. Si tratta di Caronte, incaricato di traghettare le anime sulla riva opposta dell’Acheronte. Nella mitologia classica, Caronte è figlio dell’Erebo e della Notte. Anche nell’Eneide, Caronte trasporta i dannati oltre il fiume Acheronte verso gli inferi. Lo stesso Enea, scendendo nel Tartaro, dopo aver superato il vestibolo del regno dei morti e la porta dell’Orco, giunge all’Acheronte in compagnia della Sibilla. E qui c’è Caronte, così descritto da Virgilio: “Traghettatore di queste acque, orrendo, il fiume sorveglia, terribilmente luttuoso, Caronte; folta sul suo mento la canuta barba, incolta giace, stanno fisse le orbite di fuoco, mentre sordido alle spalle annodato pende un mantello. Lui stesso la sua zattera con una pertica spinge e con le vele dirige, e rugginosa trasporta i corpi la sua barca; è ormai vecchio, ma vegeta, come in un dio, e verde la sua vecchiaia” (Eneide, VI, vv. 298-304). Dante conserva alcuni tratti del personaggio virgiliano (la barba canuta, le orbite di fuoco), ma ne accentua il carattere demoniaco, conservandone la funzione di “psicopompo”, incaricato di traghettare solo le anime dannate.

Quando s’accorge che Dante è un uomo vivo, Caronte si adira (anche nei confronti di Enea, cfr. Eneide, VI, vv. 388-391, Caronte pronuncia parole irate, ma prive dell’astio demoniaco di quelle del Caronte dantesco). Le parole di Caronte sono un’ulteriore conferma del fatto che il viaggio di Dante è permesso dalla provvidenza divina: come altri demoni, Caronte conosce il futuro ed è lui stesso a confermare che Dante, dopo morto, non sarà dannato poiché otterrà la salvezza: egli rivela al poeta che lui giungerà nell’oltretomba sbarcando su un’altra riva. Infatti, Dante viaggerà dalla foce del Tevere, dove si imbarcano le anime dei defunti, alla spiaggia del purgatorio. La risposta brusca di Virgilio, che ribatte al vegliardo in modo da metterlo a tacere all’istante, verrà ripetuta in forma quasi identica contro altri demoni.


Altre fonti utilizzate per questo canto

Enciclopedia dei Papi (citata come EP), Istituto dell’Enciclopedia Italiana: https://www.treccani.it/enciclopedia/elenco-opere/Enciclopedia_dei_Papi

Sermonti Vittorio (con la supervisione di Gianfranco Contini), L’Inferno di Dante, Garzanti, (edizione elettronica 2021).

Virgilio, Eneide, a cura di C. Carena, in Publio Virgilio Marone, Opere, UTET, Torino 2005 (edizione elettronica 2013).

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