giovedì 4 aprile 2013

L’ULTIMO GIORNO DI LAVORO





Giuseppe Barreca

L’ULTIMO GIORNO DI LAVORO
 



ho fatto passi indietro da gigante, in questi mesi;
il mio cervello
trema come marmellata marcia, moglie mia, figli miei:
il mio cuore è nero, pesa 51 chili:
ho messo la mia pelle
sopra i vostri bastoni: e già vi vedo agitarvi come vermi: adesso
vi lascio cinque parole, e addio:
non ho creduto in niente.
                       
(E. Sanguineti, “Postkarten”)

Era l’ultimo giorno di lavoro per l’impiegato. Dal giorno successivo avrebbe lavorato per un altro ente locale. Pioveva. Era d’aprile ma pioveva come Dio o qualche altra divinità la mandava. Un turbine d’acqua dal cielo, incessante. Le strade percorse da piccoli torrenti di melma, polvere bagnata, coriandoli di chissà quale carnevale. Le montagne attorno circondate da spirali di nubi pronte a strozzarle come serpenti. Il cielo cupo, le strade deserte. La signora del ristorante di fronte era la stessa di tutti i giorni: una pelliccia sintetica addosso, le usuali scarpe con tacco a spillo con le quali guadava le strade allagate. Ombrello inutile, acqua ovunque, vento lassù e quaggiù.
La timbratrice quella mattina non funzionò. E che importa? È l’ultimo giorno. Però che strano. Non aveva fatto il solito suono secco. Niente inchiostro bluastro sul cartellino (altro che badge!), né impronta con l’ora di entrata. Per sincerarsi del fatto che la macchina funzionasse, tirò fuori i cartellini dei due operai, i quali entravano mezz’ora prima di lui. Ed erano timbrati! Chissà, forse è uno sgarbo della vecchia timbratrice.
Ripensò alla prima timbrata due anni e mezzo prima. Non sapeva un tubo di niente! Gli dovettero spiegare persino come si timbra sia l’entrata sia l’uscita. Ignorava il lavoro, ignorava tutto, eccetto di ignorare. Un lavoratore socratico. Invece erano passati due anni e mezzo e il cartellino con la prima timbratura giaceva in archivio. Gli avrebbe fatto piacere rivederlo, pensò. Osservare la macchiolina di sudore che aveva umidificato la cartellina quel primo, infinito giorno. Anche allora era un lunedì. Ma poi si disse che non c’era spazio per nessun romanticismo, quell’ultimo giorno. Entrò nel suo ufficio.
La finestra era percorsa da rivoletti d’acqua che creavano sul vetro un effetto surreale, come le porte a vetri dei bagni di una volta. Zigrinate e tristi. La stampante a getto d’inchiostro non funzionava, ma non se la prese perché non era una novità. Le diede il solito pugno sulla testata, alla stampante, ma quella niente, fece solo un piccolo rumore, simile a una pernacchia di un bambino. Stronza, pensò, non ti dirò nemmeno “addio”, le promise minaccioso.
Attraversò il minuscolo atrio per entrare nella stanza di fronte, l’ufficio tecnico che il lunedì mattina era vuoto. La tenda da campeggio dove dormiva il vicesindaco era insolitamente in ordine, il sacco a pelo ripiegato, il fornello da campeggiatore a posto e spento. Da quando gli era sfuggita una pratica edilizia fondamentale (essendo lui vicesindaco e anche imprenditore edile, poteva essere da mano del Berlusca?), aveva deciso di dormire nell’ufficio tecnico dalla domenica al venerdì. Quella mattina l’ufficio era meno caotico del solito; aleggiava nell’aria un leggero odore di frittata di cipolle che si mischiava con eleganza al profumo di carta e inchiostro. Avanzo della cena domenicale consumata lì dentro.
Il sindaco, per restare in tema, dormiva da qualche settimana in archivio, nella brandina che, durante le elezioni, veniva data ai carabinieri che presidiavano il seggio elettorale. Cacciato da casa a causa della sua carica politica, si era rifugiato in comune, nell’archivio umido e freddo: aveva rimediato un termoconvettore per scaldarsi. La mattina presto scendeva al bar a rifocillarsi di brioche e caffè caldo, camminando come chi è reduce da una scalata alpina.
Assorto in questi pensieri, l’impiegato guardò un’altra volta fuori dalla finestra: la pioggia si stava calmando, il mondo stava rinascendo. La pianura non si vedeva ancora. La chiesa sì, e il parroco faceva i soliti esercizi muscolari sul piccolo sagrato. Oppure stava minacciando qualcuno? Non si capiva bene. L’impiegato s’avvicinò al vetro bagnato e rise: il parroco stava brandendo un crocefisso contro il sindaco, scacciandolo dalla chiesa. Ma che ci faceva il sindaco, nel suo pastrano occhialuto, a quell’ora, in chiesa? Il parroco continuava a brandire il piccolo crocefisso e il sindaco, come un Dracula impaurito, se la dava a gambe. Che strano, pensò l’impiegato, forse il sindaco voleva recitate le lodi mattutine ma il parroco aveva altri programmi e se l’era presa. Oppure il sindaco voleva fare pace con il parroco, con cui non correva buon sangue da quella volta in cui, durante una messa, il sindaco, o chi per lui, aveva smadonnato perché qualcuno gli aveva pestato un piede. Il sindaco sosteneva che era stato il barista, quello che si ubriaca puntualmente ogni sabato sera, ma il parroco non gli aveva creduto e lo aveva cacciato dalla chiesa. Il sindaco aveva accusato il parroco di averlo scacciato per questioni politiche e se l’era legata al dito, anche perché giurava e spergiurava di non aver proferito sillaba in chiesa, se non quelle necessarie a mostrare a tutti che stava pregando senza sbagliare una preghiera del Pater Noster o dell'Ave Maria. Il parroco aveva invece confermato la propria versione. Ovviamente la cosa non era finita lì.
Qualche giorno dopo il sindaco e un assessore avevano cercato di vendicarsi dello sgarbo, scaricando sul minuscolo sagrato della chiesa qualche chiletto di letame, fornito da un allevatore compiacente. La mattina successiva il parroco, uscendo di corsa per fare la sua usuale oretta di jogging, immerso nella nebbia che spesso avvolgeva il luogo da novembre ad aprile, aveva “sciato” su quella bella striscia di letame, finendo bocconi contro la base del monumento ai caduti. Inzaccherato da capo a piedi, si era alzato brandendo i pugni non si sa se per bestemmiare o invocare la punizione dell’altissimo contro qualcuno. Perciò, tra Stato e Chiesa non poteva correre buon sangue in quel paese. Ci volle poco perché il parroco scoprisse i colpevoli. L’allevatore amico del sindaco, infatti, aveva rivelato in confessionale di aver fornito la materia escrementizia; si era tradito perché era stato raggirato: credeva di parlare con un altro sacerdote della parrocchia e non con il titolare. Il parroco invece, astuto, si era travestito da prete di colore: in quei giorni, infatti, ospitava un prete congolese; assumendone le sembianze in confessionale, e approfittando della penombra del giorno invernale, il parroco era venuto a sapere la verità.
Rievocando quei fatti, l’impiegato tornò a osservare il proprio ufficio con mestizia. Gli parve immenso. Desolato. Gli armadi erano chiusi, bianchi e inutili. Il tavolo era ingombro di carte sparse alla rinfusa. La luce sonnolenta del mattino sbadigliante oscurava la stanza come una cortina di tenda annerita dal fumo. Serviva la luce artificiale. Il neon tentennò con timidezza poi s’accese. L’impiegato allora si diresse verso l’ufficio della collega. Il lunedì mattina non c’era mai lei, faceva solo il pomeriggio. Certo, che strano che l’ultimo giorno di lavoro sia di lunedì, pensò. Dovrebbe essere per legge il sabato, anzi, il venerdì. Ma insomma.
L’ufficio della bella collega era in ordine, lustro come la camera di una brava bambina. Le cartelle erano impilate con precisione geometrica, e le scritte sul davanti (“chiedere chiarimenti”, “da visionare con …”, “bilancio”, “pratiche in itinere”) erano vergate con calligrafia dolce. Soprattutto quell’in itinere lo commosse. La lingua latina lo affascinava. Anche in quel comune sperduto tra montagne alte. Ma non si trattenne oltre nell’ufficio della collega. Gli pareva un santuario e pensò di compiere un sacrilegio. D’altra parte, ogni luogo di lavoro ha una collega di cui tutti si innamorano al terzo o quarto sguardo e di cui si disamorano al centesimo sguardo non corrisposto. È matematico. L’impiegato gettò un’ultima occhiata colma di malinconia alla macchinetta del caffè, chissà, pensò di bere un’altra cioccolata a sbafo. Ma si fermò.
Il sindaco era entrato in ufficio. Lo chiamò. Trafelato, paonazzo, con gli occhiali appannati e un po’ di balbuzie da attacco di panico appena passato, disse:
“Il parroco dice che mi scomunica. Anzi, in realtà ha detto che mi spacca il c…. Ma lo sistemo io. Ho conoscenze lassù”, aggiunse, alzando il dito a salsicciotto verso il soffitto. Aveva conoscenze dove, in archivio? O in curia? O in Vaticano? O direttamente in paradiso? Boh. Il sindaco soggiunse: “Oggi ci penso io. Mi prepari un’ordinanza di demolizione?”.
Cosa? L’impiegato si sedette al computer obbediente, ma un po’ perplesso. Ricordava che è diritto del dipendente rifiutare di compiere un’azione ritenuta illegale. Ma non aveva voglia di storie quella mattina. Il sindaco dettò il testo dell’ordinanza di demolizione del portico della chiesa. La volle pubblicare subito. Poi dichiarò che era solo un pesce d’aprile (ma il primo del mese era passato da un pezzo), ma chiese all’impiegato di tacere. Disse infine che avrebbe chiamato i due operai e che li avrebbe fatti avvicinare con la ruspetta alla chiesa. E se non lo fanno, sentenziò, li avrebbe costretti a farlo a calci nel sedere. Sembrava più tranquillo. Gli occhiali non erano più appannati. Se ne andò fischiettando.
La mattina continuò indolente. Pioveva meno, ma il cielo era ancora pitturato di grigio, come un quadro impressionista visto alla TV in bianco e nero. L’impiegato osservò la piazza (che in realtà era una semplice strada lastricata) e vide il matto senior e il matto junior passeggiare sotto un ombrello viola. Il matto padre arrancava come sempre, stringendo tra le labbra il solito sigaro vecchio di anni; indossava un abito dell’anteguerra (la seconda) e scatarrava con destrezza, mischiando il catarro tabaccoso e giallo alle gocce di pioggia che si posavano sul selciato. In fondo, pensò l’impiegato, esiste un’eleganza anche nell’essere grezzo. Il matto figlio camminava dinoccolato, come se stesse in allarme, come se qualcuno avesse sempre pronta per lui una camicia di forza. Ma nessuno se lo filava, i servizi sociali, appena lo vedevano, chiudevano a saracinesca la porta.
La visione dei due matti gli diede una fitta di tristezza. La desolazione del luogo era davvero assoluta, quasi mistica. Per fortuna il proprietario dell’albergo, il marito di quella che ha sempre i tacchi a spillo anche quando nevica, fece entrare i due matti nel bar, rimpinzandoli di pizzette avanzate del matrimonio di una settimana prima, e facendo loro tracannare ettolitri di vino stantio. Non si fa niente per niente, lassù.
L’impiegato rise e non rise. Sbuffò. La giornata proseguì lieve e malinconica. I due operai, quando arrivarono in comune alle dodici per timbrare (loro riuscivano a timbrare!!), lo salutarono mesti. Poi dissero che piuttosto che demolire la chiesa, avrebbero demolito la casa del sindaco. L’impiegato non ribatté nulla, a lui sarebbe andato bene lo stesso, sempre qualcosa si demoliva. L’operaio anziano, burbero nella sua tuta arancione, promise battaglia; infine si commosse fino alle lacrime quando pensò che quello fosse l’ultimo giorno. Vagamente umorale, era una brava persona. L’operaio giovane, invece, covava un sorriso dolce sotto la zazzera nera arruffata. Parlarono di calcio e di donne. Di donne e calcio. Poi del futuro, infine del passato. Il presente non esisteva, conclusero filosoficamente. Alla fine i due operai se ne andarono a mangiare.
L’impiegato tornò nell’ufficio della collega. Gli serviva una delibera preistorica. La cartellina rossa della bellissima segretaria comunale (anche se al femminile “segretaria” suona male, sa di donna disponibile a tutto per il capoufficio, fatto oltremodo singolare dal momento che, in un comune piccolo, la segretaria è al tempo stesso anche il capoufficio …) lo commosse. Si sentì inetto a intenerirsi davanti a una cartellina rossa, peraltro orrenda. Ma pensò che nei giorni successivi lo avrebbero distratto altre cartelline, altri fascicoli, altri caffè, altri occhi, altri colleghi. E un segretario uomo. Senza ambiguità lessicali.

Era l’ultimo giorno, ma non avrebbe voluto salutare nessuno.  Era l’epilogo. Perché fare il romantico vanamente? In fondo non finiva niente e niente cominciava. Cercò allora, per distrarsi, di ubriacarsi di sensazioni materiali. Il computer crepitava come al solito, la stampante nuova funzionava e il fax pure.
Sì, non avrebbe voluto salutare nessuno. Non amava la banale solennità dei piccoli passi della vita. Non amava nemmeno le parole retoriche che quei passi, tristemente, suscitavano negli animi umani. Non amava gli addii, che poi magari diventavano arrivederci ancora più penosi. Non amava niente di niente. Si sarebbe voluto dileguare come un’ombra che evapora al sole. Ma non poteva. C’era il pomeriggio. L’apertura al pubblico pettegolo di quel posto. L’ultima timbratura, se la macchinetta avesse funzionato. Insomma troppe Forche Caudine. E poi c’erano quei gesti banali ma assidui che donavano una parvenza di normalità alla sua vita. La routine come un’occasione per sentirsi vivo, per non perdersi. La noia come salvezza, un gesto ripetuto mille volte che dà la conferma del proprio essere (o giocare a essere) “qualcosa”.
La sera, poco prima dell’uscita, la bellona del paese si presentò per un certificato. Era affascinante ma triste. Due anni prima il marito era scappato con un ballerino cubano; ora pare vivesse a l’Avana e facesse il lavapiatti, perché il suo ballerino lo aveva lasciato per sposare una donna italiana conosciuta un’estate. Della storia avevano parlato tutti in paese, naturalmente attraverso sussurri e dicerie, mai in modo aperto. La bellona comunque aveva un ottimo davanzale e i capelli fini e dolci, come quelli di una suora che ha perso la vocazione.
La giornata terminò. Non sembrava vero. Spesso le ultime giornate hanno il sapore usurato di un vino andato a male e l’odore bello e angosciante della novità. Al bar il sindaco e il parroco stavano bevendo ubriachi, abbracciandosi come vecchi amici, inneggiando alla vita e a una cosa che non si può rivelare. Non li divideva più alcun crocefisso, ma li univa un bicchiere di vino nero. Gli operai avevano salutato l’impiegato con effusioni da uomini, cioè senza commozione né abbracci, solo con dolorose pacche sulle spalle e con promesse di vedersi ancora. Promesse da marinaio, anzi, da impiegato di un ente pubblico.
Quando la sera l’impiegato timbrò (la macchina, clemente, aveva ripreso a funzionare), salutando gli uffici vuoti e le finestre sporche, il sole colorava di arancione la casa comunale. Il tramonto anneriva la pianura là in basso e macchiava di giallo la corona di montagne ancora innevate. Era proprio l’ultima sera. Il cielo finalmente sgombro appariva tuttavia smorto, quasi mesto, come se facesse fatica a riprendersi dalla sferzata di vento e pioggia del giorno appena trascorso.
L’impiegato se ne andò senza salutare né i baristi della mutua del posto, né l’improvvisato pizzaiolo, né il farmacista di una farmacia che non c’era. Non c’era quasi niente in quel paese. Ogni tanto qualche cane randagio. Altre volte a essere randagi erano uomini e donne sconfitti dalla propria miseria. Come in tutti in paesi del mondo, forse.
La bella collega, salutandolo, parve commossa, ma forse aveva solo delle briciole di cracker negli occhi. Si ripromisero di vedersi di nuovo. Senza briciole negli occhi, quella volta.

2 commenti:

  1. Una bellissima lettura Giuseppe. Grazie.

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  2. Ciao Giuseppe,
    bello questo racconto, non mi spiacerebbe pubblicarlo.

    Cercavo 'Parole dimenticate sul tram numero 23' Una tua poesia che mi è stata segnalata ma non sono riuscito a trovarla.
    Se passi dalle mie parti fammi sapere ciao
    franco

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