sabato 17 aprile 2021

 LA "COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI- PARAFRASI E COMMENTO DELL'INFERNO

CANTO III



AVVERTENZA

Il testo della Commedia che ho seguito è quello dell’edizione commentata da Giorgio Inglese nel 2016  e pubblicata dall’editore Carocci.

Ecco le edizioni della Commedia che consultate:

La Divina Commedia, introduzione di Bianca Garavelli, Rizzoli, Milano 1949, edizione digitale 2013.

La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1991

La Divina Commedia, a cura di Sirio A. Chimenz, UTET, Torino 2000, edizione digitale 2013

Commedia, a cura di Giorgio Inglese, Carocci, Roma 2016

La Divina Commedia, a cura di E. Malato, Salerno Editrice, Roma 2018


CANTO III

Luogo: la porta dell’inferno. L’antinferno. Le rive del fiume Acheronte

Momenti:

a)      La porta dell’inferno.

b)     Gli ignavi o pusillanimi.

c)      Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte.

Personaggi: “colui che per viltade fece il gran rifiuto”. Caronte.

Peccatori: ignavi.

Pena: Gli ignavi sono condannati a inseguire uno stendardo che corre veloce davanti a loro e al contempo sono tormentati da insetti che rigano di sangue le loro carni. Il loro sangue, caduto a terra, viene raccolto dai vermi: “Io, che riguardai, vidi una insegna / che girando correva, tanto ratta / che d’ogni posa mi parea indegna. / E dietro le venia sì lunga tratta / di gente, ch’i’ non avrei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta […]. / Questi sciaurati, che mai fur vivi, / erano gnudi e stimolati molto / da mosconi e vespe ch’eran ivi. / Elle rigavan lor di sangue il volto, / che mischiato di lacrime ai lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto” (vv. 52-69).

 

SOMMARIO

Dante e Virgilio oltrepassano una porta che ha sul frontespizio parole minacciose e oscure, poi incontrano i primi dannati, i quali non vivono ancora nell’inferno: si tratta dei pusillanimi, di coloro che nella vita non presero mai posizione. Questi peccatori (tra i quali Dante forse vede l’ombra di papa Celestino V) sono disprezzati sia da Dio che dai diavoli. Dopo gli ignavi, i due pellegrini giungono alle rive del fiume Acheronte, inizio del vero inferno, dove si assiepa sempre un gran numero di anime. Esse sono trasportate sulla sponda opposta da un nocchiero demoniaco, Caronte. Costui, appena s’accorge che Dante è vivo, lo aggredisce verbalmente, ma viene subito messo a tacere da Virgilio. 

 

PARAFRASI

La porta dell’inferno e i pusillanimi

Attraverso di me si va nella città della sofferenza; attraverso di me si va nell’eterno dolore; attraverso di me si va verso chi è perduto per sempre. La Giustizia ha mosso l’essere divino che mi creò; mi hanno costituito la Potestà divina, la somma Sapienza e il primo Amore. Prima di me non sono esistite cose se non eterne e io stessa sono eterna. Abbandonate ogni speranza voi che entrate”.

Appena vidi queste parole oscure scritte sulla sommità di una porta, dissi a Virgilio: “Maestro, il loro senso mi fa tremare di paura”. E lui mi rispose da persona saggia: “Da questo momento conviene abbandonare ogni timore ed è bene seppellire ogni viltà. Noi siamo giunti in quel luogo di cui ti ho parlato, nel quale vedrai le persone dannate perché hanno mancato di seguire Dio”. Poi, come per darmi conforto, mi porse la mano mostrandomi il suo volto lieto e infine mi fece entrare in quel mondo inaccessibile ai vivi.

In quel luogo oscuro risuonavano pianti e grida di dolore così acuti da provocarmi le lacrime. Lamenti alti e fiochi, parole strane pronunciate in diverse lingue, terribili urla di rabbia, fragore di mani battute contro i corpi, creavano, in quell’aria eternamente buia, un tumulto simile a quello che avviene quando una tempesta infuria sulla sabbia. E io, che avevo la testa piena di orrore, chiesi: “Maestro, cosa è ciò che sento? E chi sono queste persone che paiono tanto sopraffatte dal dolore?”.

E lui a me: “In questa miserevole condizione stanno le anime sciagurate di coloro che vissero senza meritare né lode né infamia. Tra di esse sono presenti quegli angeli che non furono né fedeli e né ribelli a Dio, ma vissero solo per sé stessi. I cieli li hanno cacciati affinché la loro presenza non ne contaminasse la bellezza; l’inferno non li vuole perché i diavoli proverebbero orgoglio a causa loro”. E io: “Maestro, cosa induce queste anime a lamentarsi tanto dolorosamente?”. Lui rispose: “Te lo dirò brevemente. Costoro non possono sperare di morire, e la loro condizione è tanto miserabile da indurli a invidiare qualunque altra sorte. Il mondo non conserva alcun ricordo di essi. La misericordia e la giustizia divina li sdegnano. Non meritano che si parli di loro: guardali appena e passa oltre”.

E io, che guardai lo stesso, vidi uno stendardo che girava rapido in tondo senza fermarsi mai. Dietro di esso correva una fila talmente numerosa di gente che non avrei mai creduto che la morte ne avesse potuto mietere tanta. Dopo aver riconosciuto qualcuno in quella folla, vidi e distinsi l’ombra di colui che fece per viltà il gran rifiuto. Subito compresi e fui certo che di questa folla facevano parte i peccatori che erano disprezzati sia da Dio sia dai diavoli. Questi miserabili, che vissero senza usare la loro facoltà di giudizio, correvano nudi ed erano di continuo punti da mosconi e vespe. Il sangue, mischiato alle lacrime, rigava i loro volti e cadeva ai loro piedi, dov’era raccolto da vermi schifosi.

 

Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte

Quando mi decisi a guardare oltre, vidi in lontananza molta gente assiepata lungo la riva di un grande fiume. Perciò dissi: “Maestro, dammi la possibilità di sapere chi sono costoro e quale legge li fa sembrare tanto impazienti di passare dall’altra parte del fiume, per quel che riesco a vedere, stante la scarsa luce che c’è”. Lui mi rispose: “Tutte queste cose ti saranno svelate quando ci fermeremo sulla desolata riva del fiume Acheronte”. Io allora, tenendo gli occhi bassi, vergognandomi per quel che avevo detto, temendo di aver proferito qualcosa di sbagliato, decisi di tacere finché non fossimo giunti presso il fiume.

Ma ecco venire verso di noi, su una piccola imbarcazione, un uomo assai vecchio, con barba e capelli Bianchi, che grida: “Guai a voi, anime malvage! Non abbiate alcuna speranza di vedere il cielo: io vengo per trasportarvi sull’altra riva, nel caldo e nel gelo. E tu che sei lì, anima di uomo vivo, allontanati da questi che sono tutti morti”. Vedendo che non mi spostavo, aggiunse: “Arriverai al luogo a te destinato seguendo un’altra via e sarai trasportato da un vascello più leggero”. Ma Virgilio gli disse: “Caronte, non darti pena: è deciso che costui passi da qui lassù in cielo, dove si può tutto quello che si vuole, e non chiedere altro”. Da questo momento si quietarono le guance ispide del nocchiero della palude nera, i cui occhi avevano ai lati cerchi rossi fiammeggianti.

Tuttavia, le anime desolate e nude lì raccolte, dopo aver udito le sue terribili parole, impallidirono e iniziarono a battere i denti per il terrore. Ingiuriavano Dio, i loro genitori, la specie umana, il tempo, il luogo in cui erano nati e i loro antenati. Poi, lamentandosi con gran strepito, si raccolsero lungo la riva che attende tutti coloro che non hanno timore di Dio. Il demonio Caronte, con gli occhi di fuoco, facendo loro segni, li raggruppò tutte, picchiando col remo chiunque rallentasse.

Come in autunno le foglie, una dopo l’altra, cadono dall’albero fino a che il ramo non vede a terra le fronde che prima lo adornavano, allo stesso modo quelle anime malvagie si allontanarono dalla riva una dopo l’altra, come uccelli che rispondono a un richiamo. In questo modo esse venivano traghettate su quelle acque oscure e, ancor prima che approdassero sull’altra riva, una nuova folla di anime da trasportare si presentava sulla triste riva del fiume Acheronte.

“Figlio mio”, mi disse il mio gentile maestro, “tutti coloro che muoiono privi della grazia di Dio si radunano qui da ogni nazione. E sono tutti pronti ad attraversare il fiume, perché è la stessa giustizia divina a spronarli a farlo, tanto che il loro timore diventa desiderio. Da qui non passa nessuna anima destinata alla salvezza; pertanto, se Caronte si lamenta di te, sai bene ormai qual è il significato delle sue parole”.

Dopo questo discorso, quella regione oscura tremò così forte che il ricordo dello spavento che provai allora mi riempie ancora oggi la fronte di sudore. La terra, intrisa di lacrime, fece sorgere un tale vapore che suscitò un lampo rosso che mi fece perdere i sensi: e caddi a terra come se fossi morto.

 

COMMENTO

La porta dell’inferno e i pusillanimi

Sulla soglia dell’inferno c’è una porta aperta sul cui frontespizio campeggia questa scritta: Per me si va nela città dolente; / per me si va nel’etterno dolore; / per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore: / fecemi la divina potestate, / la somma sapïenza e ‘l primo amore. / Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate” (vv. 1-9). La “divina Potestate” è Dio, la “somma Sapienza” il Figlio di Dio e il “primo Amore” lo Spirito Santo. La porta dell’inferno, nonché l’inferno stesso, sono stati creati da Dio e fanno parte del suo piano provvidenziale, poiché tramite essi la giustizia divina punisce i peccatori che non seguirono il sommo bene e non seppero pentirsi.

Varcata la soglia infernale, i due pellegrini avvertono lamenti terribili, urla di dolore, fracasso di mani che percuotono corpi. In questa zona, che non appartiene ancora all’inferno vero e proprio, sono puniti gli ignavi, i quali in vita, per viltà, non scelsero mai un’opinione o una fazione politica. Essi sono condannati a inseguire senza sosta un’insegna e sono al contempo tormentati da insetti che rigano di sangue le loro carni. Il loro sangue, caduto a terra frammisto alle lacrime, diventa cibo per i vermi. Una scena estremamente ributtante.

La pena è modulata sul meccanismo del contrappasso: poiché da vivi i pusillanimi non risposero agli stimoli della vita sociale e politica, nell’inferno devono inseguire in eterno un’insegna e sono continuamente punti da insetti. La loro pigrizia e inerzia terrena si trasforma in un movimento continuo e doloroso. Per Dante il peccato di “ignavia”, non contemplato peraltro dalla teologia tradizionale, è particolarmente odioso, tanto che questi peccatori non fanno nemmeno parte dell’inferno, perché anche Lucifero li disprezza. Non è difficile scorgere in questo spregio per chi non sceglie il riflesso del clima politico dei tempi: in un’epoca di forti contrapposizioni e di laceranti divisioni qual era quella vissuta da Dante, era praticamente impossibile non schierarsi mai né con una parte né con un’altra, dato che in genere ogni fazione politica giudicava coloro che non militavano dalla sua parte come dei nemici da abbattere.

Tra gli ignavi sono puniti pure quegli angeli che non scelsero né Dio né Satana e che, come gli altri pusillanimi, sono qui castigati perché Dio non vuole che i diavoli, vedendoli, si sentano superiori a loro. È bene spiegare: se questi angeli pusillanimi fossero stati precipitati nell’inferno, i diavoli che, a differenza loro, fecero comunque una scelta di campo (sebbene sbagliata), proverebbero orgoglio, ossia un sentimento positivo che attenuerebbe la pena che scontano per il fatto di essersi ribellati a Dio. In altre parole, per Dante una scelta di vita sbagliata è sempre preferibile a una vita spesa a non scegliere nulla. Per questo gli ignavi vanno ignorati, come suggerisce Virgilio: “Non ragioniam di lor, / ma guarda e passa” (v. 51).

Dante in realtà dà un’occhiata e tra i pusillanimi gli pare di scorgere una figura conosciuta, “l’ombra” di colui che fece il “gran rifiuto”. Questi versi hanno dato vita a varie interpretazioni, poiché il poeta non fa nomi. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che Dante abbia visto l’ombra di Ponzio Pilato, ma secondo la maggioranza degli interpreti l’ombra apparterrebbe a papa Celestino V, che nel 1300 lasciò la carica pontificia, assunta poi da quel Benedetto Caetani (divenuto papa col nome di Bonifacio VIII) che Dante detestava perché gli imputava l’essere causa della sconfitta dei guelfi Bianchi , evento che determinò il suo allontanamento da Firenze. Quasi certamente Dante pensava che Celestino V fosse stato spinto ad abdicare dal soglio pontificio proprio dal futuro Bonifacio VIII, anche se, secondo la EP (voce: Bonifacio VIII), “La cosa va esclusa, essendo invece assai probabile che l’idea del ‘gran rifiuto’ sia sorta e cresciuta nell’animo stesso di Celestino V, e può darsi benissimo che Caetani, ormai noto e stimato come una vera autorità nel campo del diritto canonico, sia stato interpellato dal papa circa l'ammissibilità e validità della rinuncia; ed è da credere che il suo parere, dato però in piena scienza e coscienza, sia stato determinante”.

Alcuni studiosi invece non concordano con questa opinione, osservano che Celestino V (al secolo Pietro del Morrone) fu canonizzato già nel 1313 ed ebbe fama di santità, venendo spesso contrapposto proprio a Bonifacio VIII. Tuttavia, nel 1313 l’inferno era quasi sicuramente già stato scritto e Chimenz precisa che “Non si oppone all’identificazione con Celestino la sua fama di santo. Dante prestò fede (cfr. Inferno, canto XIX, vv. 56-57), come i suoi contemporanei, alle voci – sembra non infondate -, di aver egli ceduto alle pressioni esercitate su di lui, perché abdicasse, dal cardinal Caetani, il futuro Bonifacio VIII”. Inoltre, la canonizzazione di Celestino V avvenne nel 1313 ad Avignone (dove dal 1309 un altro papa non amato da Dante, Clemente V, aveva di fatto portato la sede papale) e probabilmente fu ignota per lungo tempo in Italia. Può essere perciò che Dante non ne ebbe notizia, oppure “avrà saputo anche che a canonizzarlo, e per motivi non illibatissimi, era stato papa Clemente V de Got, dietro pressione di re Filippo il Bello di Francia: due tipi […] che il nostro […] magnanimo fazioso detestava” (Sermonti, p. 54). Estraniandosi da questo dibattito vivace, che vede prevalere la tesi secondo cui l’ombra vista da Dante sia quella di Celestino V, il Sapegno chiosa saggiamente: “La figura dell’innominato non ha nel contesto un risalto specifico; è piuttosto un personaggio emblema, termine allusivo di una disposizione polemica, che investe non un uomo singolo, ma tutta la schiera innumerevole degli ignavi”.

 

Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte

Il fiume Acheronte, a cui Virgilio e Dante giungono dopo aver visto gli ignavi, è uno dei fiumi sotterranei dell’aldilà. Attraversando questo corso d’acqua, i peccatori entrano nell’inferno vero e proprio. Nella mitologia greca e poi nell’Eneide, l’Acheronte era affluente dello Stige, il fiume dell’Ade, il regno dei morti (più avanti in effetti i due pellegrini incontreranno proprio lo Stige). Il significato del termine “Acheronte” dovrebbe essere “fiume (o stagno) di dolore”, tanto che Dante definisce la riva su cui approdano lui e Virgilio come “triste riviera”. Nella Commedia, a differenza dell’Eneide, attraverso l’Acheronte non passano tutti i defunti, bensì solo quelli destinati alla dannazione.

Dante descrive la disperazione dei dannati e l’odio che essi manifestano verso chi li ha messi al mondo. Nondimeno, poiché questa loro condanna fa parte di un piano voluto da Dio, Virgilio rivela a Dante che queste anime, alla fine, sono tutte pronte ad attraversare il fiume, quasi desiderando che la pena assegnata arrivi il prima possibile e finisca il tormento dell’attesa. Contrasta con l’atmosfera tetra del canto, il paragone tra le foglie che cadono dall’albero e le anime che abbandonano la riva per salire sulla navicella di Caronte che le condurrà nell’inferno. La similitudine è tratta dall’Eneide (VI, vv. 309-310), poiché la poesia di Virgilio sarà un riferimento costante per l’opera di Dante, soprattutto nell’Inferno.

In questo luogo i due pellegrini incontrano il primo demonio: a guardia del fiume che apre ai dannati la strada verso i cerchi infernali, è difatti posto un vegliardo, con barba e capelli Bianchi. Si tratta di Caronte, incaricato di traghettare le anime sulla riva opposta dell’Acheronte. Nella mitologia classica, Caronte è figlio dell’Erebo e della Notte. Anche nell’Eneide, Caronte trasporta i dannati oltre il fiume Acheronte verso gli inferi. Lo stesso Enea, scendendo nel Tartaro, dopo aver superato il vestibolo del regno dei morti e la porta dell’Orco, giunge all’Acheronte in compagnia della Sibilla. E qui c’è Caronte, così descritto da Virgilio: “Traghettatore di queste acque, orrendo, il fiume sorveglia, terribilmente luttuoso, Caronte; folta sul suo mento la canuta barba, incolta giace, stanno fisse le orbite di fuoco, mentre sordido alle spalle annodato pende un mantello. Lui stesso la sua zattera con una pertica spinge e con le vele dirige, e rugginosa trasporta i corpi la sua barca; è ormai vecchio, ma vegeta, come in un dio, e verde la sua vecchiaia” (Eneide, VI, vv. 298-304). Dante conserva alcuni tratti del personaggio virgiliano (la barba canuta, le orbite di fuoco), ma ne accentua il carattere demoniaco, conservandone la funzione di “psicopompo”, incaricato di traghettare solo le anime dannate.

Quando s’accorge che Dante è un uomo vivo, Caronte si adira (anche nei confronti di Enea, cfr. Eneide, VI, vv. 388-391, Caronte pronuncia parole irate, ma prive dell’astio demoniaco di quelle del Caronte dantesco). Le parole di Caronte sono un’ulteriore conferma del fatto che il viaggio di Dante è permesso dalla provvidenza divina: come altri demoni, Caronte conosce il futuro ed è lui stesso a confermare che Dante, dopo morto, non sarà dannato poiché otterrà la salvezza: egli rivela al poeta che lui giungerà nell’oltretomba sbarcando su un’altra riva. Infatti, Dante viaggerà dalla foce del Tevere, dove si imbarcano le anime dei defunti, alla spiaggia del purgatorio. La risposta brusca di Virgilio, che ribatte al vegliardo in modo da metterlo a tacere all’istante, verrà ripetuta in forma quasi identica contro altri demoni.


Altre fonti utilizzate per questo canto

Enciclopedia dei Papi (citata come EP), Istituto dell’Enciclopedia Italiana: https://www.treccani.it/enciclopedia/elenco-opere/Enciclopedia_dei_Papi

Sermonti Vittorio (con la supervisione di Gianfranco Contini), L’Inferno di Dante, Garzanti, (edizione elettronica 2021).

Virgilio, Eneide, a cura di C. Carena, in Publio Virgilio Marone, Opere, UTET, Torino 2005 (edizione elettronica 2013).

domenica 11 aprile 2021

LA "COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI- PARAFRASI E COMMENTO DELL'INFERNO

CANTO II

AVVERTENZA

Il testo della Commedia che ho seguito è quello dell’edizione commentata da Giorgio Inglese nel 2016  e pubblicata dall’editore Carocci.

Ecco le edizioni della Commedia che ho consultato:

La Divina Commedia, introduzione di Bianca Garavelli, edizione digitale 2013.

La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1991

La Divina Commedia, a cura di Sirio A. Chimenz, UTET, Torino 2000. Edizione digitale 2013

Commedia, a cura di Giorgio Inglese, Carocci, Roma 2016

La Divina Commedia, a cura di E. Malato, Salerno Editrice, Roma 2018


CANTO II

Luogo: Antinferno.

Momenti:

a)      Invocazione alle Muse.

b)     Perplessità di Dante sul viaggio ultraterreno.

c)      Virgilio rassicura Dante, rivelandogli che Beatrice gli ha raccomandato di correre in suo soccorso.

d)     Sollievo di Dante.

SOMMARIO

Dante è in preda all’angoscia perché non si sente in grado di compiere il viaggio nell’aldilà né di descriverlo con i suoi versi. Per questo chiede soccorso alle Muse. Virgilio chiarisce a Dante che il suo viaggio ha l’avallo della Provvidenza, ma il poeta teme di non meritare di visitare il regno dei morti, come fecero Enea e San Paolo, il cui viaggio era voluto da Dio. In realtà, dice Virgilio, è il Cielo che vuole il viaggio di Dante, anzi, è Beatrice (con l’intervento della Vergine Maria e di Lucia), la donna amata in gioventù da Dante, a pregare Virgilio affinché andasse in soccorso di Dante, sollevandolo dalla condizione di prostrazione e peccato in cui si trova.

 

 

PARAFRASI

Invocazione alle Muse

Il giorno tramontava e l’aria scura prometteva agli esseri sulla terra il riposo dalle loro fatiche; solo io invece mi apprestavo ad affrontare sia l’asprezza del cammino, sia l’angoscia che quel viaggio mi avrebbe causato e che la mia memoria riferirà con esattezza. Voi Muse, o alto ingegno poetico, aiutatemi; e tu mente mia in cui s’impresse ciò che vidi, in quel che scriverò si mostrerà la tua perfezione.

Dissi a Virgilio: “Poeta, tu che sei la mia guida, dimmi se la mia virtù poetica è sufficiente, prima di affidarmi il compito di passare attraverso i regni dell’oltretomba. Tu hai raccontato di Enea che, da vivo, visitò il mondo eterno dei morti: il fatto che Dio fu favorevole al suo viaggio non appare strano a un uomo di intelligenza, pensando alle conseguenze che dovevano scaturire da tale viaggio e alla nobile natura di Enea: egli fu destinato dal Padre eterno a essere il fondatore di Roma e del suo impero, entrambi, per dire la verità, scelti da Dio quale luogo santo dove siede il papa, successore di Pietro, il maggiore degli apostoli. È per questo viaggio che tu celebri Enea: costui, andando nel regno dei morti, ebbe la rivelazione della sua vittoria e dell’avvento della sede papale. Più tardi nel mondo eterno si recò anche San Paolo, per trarre stimolo verso quella fede senza la quale non è possibile alcuna salvezza.

Ma io per quali meriti devo compiere questo viaggio? Chi mi concede questa possibilità? Io non sono Enea, io non sono Paolo: né io né qualcun altro può credere che io sia degno di compiere tale impresa: se mi lascio convincere a fare questo viaggio, temo che esso possa apparire un atto temerario: da uomo saggio quale sei, tu puoi intendere ciò che io non sono forse riuscito a spiegare bene”.

Come chi non vuole più compiere quel che un tempo intendeva fare e, in virtù di nuovi pensieri, cambia idea, abbandonando l’impresa appena cominciata, allo stesso modo io feci su quella piana oscura, dato che, pensando alle difficoltà che avrei incontrato, persi ogni intenzione di affrontare il viaggio nell’aldilà, benché l’avessi iniziato con baldanza.

 

Virgilio rivela di essere stato inviato da Beatrice

“Se ho ben compreso le tue parole”, rispose l’ombra di quell’uomo magnanimo, “la tua anima è indebolita dalla viltà; questa sensazione spesso impedisce all’uomo di compiere grandi gesta, facendo sì che egli vi rinunci, come quando una semplice ombra fa scappare un animale. Affinché tu ti possa liberare da questa paura, ti rivelerò per quale motivo io venni qui e ciò che io compresi nel primo momento in cui sentii pietà verso di te.

Io stavo tra coloro che vivono sospesi nel limbo, quando mi chiamò una donna così bella e soffusa di beatitudine, che non potei evitare di obbedirle. I suoi occhi brillavano più delle stelle: ella cominciò a parlarmi soave e pacata, con voce angelica, dicendo: - Gentile anima mantovana, la cui fama ancora è alta nel mondo e durerà finché il mondo esisterà, quell’uomo amato da me, ma non dalla fortuna, si trova in luogo deserto, impossibilitato a proseguire il suo cammino, e sta tornando indietro per la paura. Da quel che ho sentito in Cielo, temo che egli sia talmente terrorizzato che il mio soccorso possa essere tardivo. Ti chiedo perciò di andargli in aiuto e, impiegando le tue parole poetiche, di fare tutto ciò che serve per salvarlo, in modo da farmi sentire sollevata. Chi ti chiede di andare sono io, Beatrice; vengo dal Cielo, dove desidero tornare. È l’amore che mi ha fatto muovere e mi ha spinto a parlarti. Quando tornerò davanti a Dio ti loderò spesso per questa tua impresa -.

Ella tacque. Allora parlai io: - Oh Donna per la cui virtù solamente la specie umana supera ogni altro essere vivente sulla terra, mi piace tanto il tuo comando che, se anche avessi già cominciato a ubbidirti, mi sembrerebbe già tardi per farlo: non è necessario che tu mi dica altro per mostrarmi il tuo volere. Ma dimmi qual è la ragione per cui non temi di scendere quaggiù nell’inferno dall’empireo dove tu desideri tornare -.

Mi rispose: - Poiché desideri tanto conoscere per quale ragione io non abbia timore a scendere quaggiù, te lo dirò brevemente. Bisogna temere solo quelle cose che possono farci del male, le altre no, ché non ci fanno paura. Io sono tale in virtù della grazia di Dio e la vostra sorte infelice non mi tocca, né può ferirmi alcun fuoco infernale.

Lassù in cielo c’è una donna gentile che ha tanta pietà per l’impedimento di Dante (e a rimuovere il quale io ti mando), da riuscire ad ammorbidire la giustizia divina. Questa donna chiamò a sé Lucia e le disse: ‘Il tuo fedele amico ha bisogno di te e io te lo raccomando’. Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse e venne da me, che sedevo in compagnia di Rachele. E mi disse: ‘Beatrice, gloria della virtù di Dio, perché non vai in soccorso di colui che ti amò così tanto da distinguersi, grazie a te, dalla folla volgare degli altri uomini? Non senti l’angoscia del suo pianto? Non vedi come il pericolo della morte lo assale nel punto più pericoloso del fiume, dove la corrente incontra il mare e forma un gorgo?’. Al mondo non esistettero persone così veloci a far del bene o a fuggire da un male come fui io dopo aver ascoltato queste parole: scesi dunque quaggiù dal mio luogo di beatitudine, confidando nel tuo limpido eloquio, che onora te e chi lo ascolta -. Dopo che Beatrice mi disse queste cose, mi rivolse gli occhi suoi luminosi e vidi che erano colmi di lacrime; questa visione mi indusse ad affrettarmi per giungere più velocemente da te, appena ella se ne andò.

Ti trovai davanti alla lupa che ti sbarrava la strada più breve per salire su quel colle. E allora cosa c’è, perché stai ancora qui fermo? Perché c’è tanta viltà nel tuo cuore? Perché non mostri né ardore e né coraggio nemmeno dopo che hai saputo che ci sono tre donne beate che in cielo si preoccupano per te e dopo che hai ascoltato le mie parole rassicuranti?”.

Come i fiorellini, che il gelo della notte fa piegare e chiudere ma che, appena colpiti dal sole, s’aprono e tendono lo stelo, così feci io riprendendomi dal mio avvilimento, avvertendo dentro di me un coraggio benefico che mi indusse a parlare con franchezza: “Donna piena di misericordia, colei che mi soccorse! E tu uomo gentile che subito ubbidisti alle parole sincere che ella ti disse. Tu hai suscitato nel mio cuore, con i tuoi discorsi, un tale desiderio di partire, che mi hai fatto tornare al mio proposito iniziale. Ora andiamo, perché entrambi vogliamo la stessa cosa: tu sei la mia guida, il mio signore e il mio maestro”. Dissi così a Virgilio; e appena egli si mosse, cominciai quel cammino arduo e selvaggio.

COMMENTO

Invocazione alle Muse

Dante avverte su di sé il peso di un’impresa proibitiva. Mentre s’avvicina il tramonto e tutti gli esseri viventi s’apprestano a godere il meritato riposo dopo una giornata di fatiche, il poeta realizza che per lui non è prevista nessuna requie, ma solo angoscia per quel che di tremendo dovrà vedere. Evidentemente le parole di Virgilio non sono state tranquillizzanti. L’impresa appena cominciata, ossia quella di percorrere i regni dell’oltretomba e di riferire agli uomini di questo viaggio, appare a Dante proibitiva non solo dal punto di vista umano, bensì anche da quello poetico. Due domande lo angustiano: sarò capace di portare a termine l’impresa di viaggiare nell’aldilà? Saro in grado di raccontarla con parole adeguate, capaci di risvegliare negli uomini i più alti sentimenti morali e religiosi? Per questo egli invoca le Muse, affinché esse soccorrano la sua arte poetica costretta a misurarsi con un compito tanto arduo.

C’è un potenziale parallelismo tra la paura che Dante prova in quanto visitatore del regno infernale e i timori che Dante, come scrittore, sperimenta di fronte all’immensità della materia da narrare. Lo smarrimento di Dante come uomo, incapace di uscire dalla condizione peccaminosa in cui si trova, potrebbe coincidere con il fallimento del Dante scrittore, incapace di raccontare cosa ha visto nei regni dell’oltretomba e di ammaestrare gli altri uomini su ciò che li aspetta se si abbandonano al peccato. Per questo il canto unisce l’invocazione alle Muse alla richiesta d’aiuto a Virgilio, affinché egli rassicuri il Dante viaggiatore sul fatto che il suo itinerario abbia l’avallo della provvidenza. Il poeta vuole essere rassicurato in quanto stenta a credere che Dio abbia affidato a lui il compito di viaggiare nei regni dell’oltretomba. Dante sa di non essere né Enea né San Paolo, i quali si recarono nel mondo dei morti perché a ciò destinati da Dio. Ma lui, da chi è guidato? Egli non si paragona né a Enea né a San Paolo e teme di non essere in grado di compiere un passo tanto alto.

Il viaggio di Enea nell’oltretomba, narrato da Virgilio nel libro sesto dell’Eneide, era voluto dal cielo perché, secondo la visione della storia abbracciata da Dante, da Enea sarebbero discesi i romani il cui impero era desinato a preparare l’avvento del cristianesimo (il viaggio di Enea è una finzione letteraria, ma “non c’è bisogno di credere che Dante considerasse realmente avvenuto quel viaggio; è sufficiente che egli ammettesse la realtà storica del personaggio Enea”, Sapegno). Secondo Dante, gli avvenimenti storici precedenti la nascita di Cristo hanno avuto la funzione di preparare la venuta di Gesù e l’avvento del Cristianesimo. Per questo Virgilio ha raccontato di Enea sceso nel regno dei morti, aggiungendo che all’eroe troiano è stata rivelata la missione provvidenziale di Roma. È una tesi che Dante espone nella sua opera filosofica, il Convivio (scritta attorno al 1307), allorché nel libro IV, capitolo IV, riflettendo sul potere imperiale, afferma che esso è stato concesso direttamente da Dio ai romani “quello popolo santo nel quale l’alto sangue troiano era mischiato […]. Ed in ciò s’acorda Virgilio nel primo dello Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: ‘A costoro - cioè alli Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro hoe dato imperio sanza fine”. Questo potere Dio l’ha concesso al popolo romano, un popolo dotato di enorme virtù, affinché esso preparasse l’avvento del Cristianesimo. Un altro viaggio nell’oltretomba, quello di San Paolo (cfr. Lettere ai Corinzi, 12, 2-4), fu voluto anch’esso dalla provvidenza, essendo Paolo l’uomo scelto da Dio per portare nel mondo la fede cristiana.

 

Virgilio rivela di essere stato inviato da Beatrice

Virgilio spiega a Dante che pure il suo viaggio, come quello di Enea e Paolo, è voluto dal cielo. Per convincere il poeta, Virgilio racconta che, mentre era nel limbo, fu chiamato da una donna “bella e così soffusa di beatitudine”. Questa è per Dante la frase decisiva e qui è necessario fare un piccolo excursus. La donna che Virgilio nomina è Beatrice (Bice), la figlia di Folco Portinari, nata nel 1266, andata in sposa a Simone de’ Bardi nel 1282 e morta nel 1290. Nella Vita nova, un’opera composta probabilmente tra il 1293 e il 1295, Dante racconta di essersi innamorato di Beatrice sin da quando la incontrò per la prima volta all’età di nove anni. Nell’opera, dove si alternano versi e brani in prosa, Dante racconta l’evoluzione del suo sentimento che, dopo la morte della donna, assume le forme di un amore religioso, tanto da indurlo a concepire Beatrice come una donna assunta in cielo e fonte di salvezza per gli uomini.

Verso la fine della Vita nova, dopo il sonetto intitolato Oltre la spera che più larga gira, che racconta del suo intelletto che s’avvicina alla visione della donna assunta in cielo ma non è in grado di intendere ciò che ella gli dice, il poeta esprime il proponimento di poter scrivere un’opera nella quale possa parlare più degnamente di Beatrice e della mirabile visione appena avuta: “Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. È improbabile che, concludendo la Vita Nova, Dante avesse già in mente di scrivere la Commedia. Tuttavia, è possibile immaginare che la Commedia si ponga in qualche modo quale completamento della Vita Nova e come l’opera grazie alla quale Dante può mantenere l’impegno assunto anni prima.

D’altra parte, nella Commedia, Beatrice, pur mantenendo alcuni caratteri umani (v. oltre), diviene la personificazione della teologia, la scienza capace di condurre l’uomo verso Dio. In questo canto Virgilio racconta che Beatrice gli ha rivelato di essersi mossa in aiuto di Dante per amore, scendendo direttamente dall’Empireo, ossia dal “Paradiso celeste, sede di Dio, degli angeli e dei beati, concepito come un’estensione immateriale, illimitata […], che si spande oltre il nono cielo: un non-luogo fuori dello spazio e del tempo” (DDC). Bisogna stare attenti a non vedere il sentimento di Beatrice con occhi terreni, magari cedendo a una fascinazione romantica che, rifacendosi a un’immagine distorta del sentimento descritto nella Vita Nova, induca a interpretare l’intervento di Beatrice a favore di Dante come il segno della indissolubilità del loro amore, dal momento che non si sa se Beatrice in vita abbia mai ricambiato il sentimento di Dante. Si può invece affermare con maggiore sicurezza che, da parte di Dante, nella Commedia la maturazione del sentimento per Beatrice giunge a compimento, assumendo quei caratteri di spiritualità e religiosità che la Vita Nuova lasciava già intuire.

Non è tuttavia prudente nemmeno idealizzare il sentimento di Beatrice fino a spersonalizzarlo, rischiando di non comprendere perché sia proprio lei a intervenire in soccorso del poeta e non qualcun’altra. Nei versi di Dante, l’amore di cui parla Beatrice, donna del cielo e simbolo della grazia divina, sembra debba essere inteso sia come riflesso dell’amore di Dio verso tutti gli uomini, sia come amore personale, benché depurato da implicazioni fisiche, stante il suo essere ormai una figura del paradiso. Anche perché Beatrice nella Commedia non “è […] un angelo, ma una persona umana beata il cui corpo risorgerà il giorno del giudizio” (Auerbach, p. 225). In effetti, quando, nel canto XXX del Purgatorio, Dante rivedrà finalmente Beatrice, in lui si verificheranno le reazioni fisiologiche tipiche di un uomo innamorato e già descritte nella Vita Nova nell’attimo del primo incontro con Beatrice, quando la donna: “Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno [=rosso], cinta e ornata a la guisa [=al modo che] che a la sua giovanissima etade si convenia (II.3). Vedendola così bella e dignitosa, Dante inizia a tremare: “in quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente [=a tal punto]” (II.4). Da quel momento, Amore s’è impadronito dell’anima di Dante: “D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade [=sicurezza] e tanta signoria per la vertù [=forza] che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente” (II.7). Nel già citato canto XXX del Purgatorio, si legge che nel momento in cui Dante rivede Beatrice: “lo spirito mio, che già cotanto / tempo era stato ch’a la sua presenza / non era di stupor, tremando, affranto, / sanza de li occhi aver più conoscenza, / per occulta virtù che da lei mosse, / d’antico amor sentì la gran potenza” (vv. 34-39), cioè: “il mio spirito che da molto tempo non era stato colpito dallo stupore nel vedere Beatrice e dal tremore che tale visione gli provocava, sentì subito la potenza di quell’antico sentimento d’amore senza nemmeno vedere la donna, ma solo intuendone la presenza, per una misteriosa virtù che la sua persona emanava”. Insomma, l’amore per la donna è ancora saldo, sebbene assuma una tinta spirituale.

Ma si torni al canto secondo. Virgilio, riferendo il discorso di Beatrice, rivela a Dante che in cielo, oltre a lei, c’è un’altra donna, la donna “gentile”, che si preoccupa per lui: si tratta probabilmente della Vergine Maria. Virgilio inoltre aggiunge che Beatrice gli ha confessato che è stata una terza donna, santa Lucia, simbolo della grazia divina che illumina, ad avvertirla dello stato spaventoso in cui Dante è caduto e a convincerla della necessità di correre in soccorso dell’uomo che tanto l’amò: “Le tre donne benedette, e soprattutto Beatrice, sono il simbolo della purezza a cui Dante aspira, e che lo guida verso di sé con mezzi accattivanti: la sapienza divina, la conoscenza che solo la Grazia di Dio può trasmettere all’uomo. Perché da solo, con la sua mente limitata, non potrebbe mai raggiungerla” (Garavelli).

Lucia è molto sollecita nel chiedere a Beatrice di soccorrere il poeta, rammentandole che Dante si distinse dalla “volgare schiera” degli altri uomini proprio grazie alla poesia che gli ispirò l’amore verso Beatrice. È qui che si comprende quanto l’amore per Beatrice abbia assunto per Dante, dopo la morte della donna, una valenza spirituale, capace di elevarlo e di distinguerlo dagli altri uomini: “Nonostante le sue miserie, nonostante le sue bassezze, nonostante i suoi molti vizi e le sue poche virtù, Dante ha amato. Ha amato profondamente, lungamente, disinteressatamente Beatrice; per lei si è ‘sbrutato’, è uscito cioè ‘dalla volgare schiera’, dalla ‘matta bestialitade’ degli uomini, dalle loro logiche ferine, dai loro desideri egoistici; questo santa Lucia dice a Beatrice per muoverla in soccorso di Dante” (C. Mercuri, p. 241).

Non è un caso se Beatrice, nel canto trentesimo del Purgatorio, accusi Dante di averla dimenticata, facendosi distrarre dalla ricerca della gloria e di altri beni mondani, i quali, si sa, svaniscono in un attimo. Per questo Dante, dopo aver dimenticato Beatrice, non solo non si è più distinto dalla schiera degli uomini volgari, ma è divenuto lui stesso un uomo volgare e peccatore, tanto da essersi smarrito nella selva del peccato (cfr. canto I). Ecco perché, al nome di Beatrice, Dante avverte svanire dal proprio animo ogni timore e viltà. L’eventualità di rivedere la donna alle soglie del paradiso significa per lui intuire la possibilità di rigenerare la propria anima, tornando quell’uomo elevato e devoto, capace di amare una donna che, non più terrena, ora siede in cielo tra i beati. Il passo che Dante deve compiere è dunque anch’esso voluto dalla provvidenza divina ed: “è un itinerario provvidenziale, iscritto in un disegno divino per la salvazione civile e spirituale della società cristiana, alla quale egli consegnerà al ritorno in terra […] nella forma profana della poesia, il senso della sua esperienza morale e creativa” (Borsellino, pp. 71-72).

Rassicurato, Dante intuisce che potrà portare a termine il proprio compito, ossia quello di guarire dal male che l’ha colto per rimettersi sulla strada del sommo bene e seguire la via indicata da Dio agli uomini. Ma non potrà compiere questo percorso senza vedere cosa accade a chi vive da peccatore: essendo giunto tanto in basso nella sua condizione peccaminosa, Dante potrà risollevarsi solo se accetterà di comprendere cosa avviene prima alle anime dannate e poi a quelle che, pur avendo peccato, si sono pentite in tempo. Lo dice la stessa Beatrice nel canto XXX del Purgatorio quando afferma che Dante: “Tanto giù cadde, che tutti argomenti / a la salute sua eran già corti, / fuor che mostrarli le perdute genti” (vv. 146-138), ovvero: “era caduto tanto in basso nella sua condizione di peccatore che tutti i mezzi per salvarlo erano ormai insufficienti, e l’unico modo per farlo tornare sulla retta via, era condurlo a vedere la condizione dei dannati”. 

                                                        Fonti citate in questo commento

Auerbach Erich, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 2005.

Borsellino Nino, Ritratto di Dante, Laterza, Roma-Bari 1998.

Dizionario della “Divina Commedia”, a cura di E. Malato, Salerno Editrice, Roma 2018 (indicato con la sigla “DDC”).

Mercuri Chiara, Dante. Una vita in esilio, Laterza, Roma-Bari 2018.

Virgilio, Eneide, a cura di C. Carena, in Publio Virgilio Marone, Opere, UTET, Torino 2005            (edizione elettronica 2013).


PARAFRASI COMMENTATA DEL "PURGATORIO" DI DANTE ALIGHIERI

Introduzione Dante ha superato l’inferno e, d’ora in poi, tutto sarà meno arduo perché lui ora è capace di guardare in faccia le sue colpe: ...