sabato 17 aprile 2021

 LA "COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI- PARAFRASI E COMMENTO DELL'INFERNO

CANTO III



AVVERTENZA

Il testo della Commedia che ho seguito è quello dell’edizione commentata da Giorgio Inglese nel 2016  e pubblicata dall’editore Carocci.

Ecco le edizioni della Commedia che consultate:

La Divina Commedia, introduzione di Bianca Garavelli, Rizzoli, Milano 1949, edizione digitale 2013.

La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1991

La Divina Commedia, a cura di Sirio A. Chimenz, UTET, Torino 2000, edizione digitale 2013

Commedia, a cura di Giorgio Inglese, Carocci, Roma 2016

La Divina Commedia, a cura di E. Malato, Salerno Editrice, Roma 2018


CANTO III

Luogo: la porta dell’inferno. L’antinferno. Le rive del fiume Acheronte

Momenti:

a)      La porta dell’inferno.

b)     Gli ignavi o pusillanimi.

c)      Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte.

Personaggi: “colui che per viltade fece il gran rifiuto”. Caronte.

Peccatori: ignavi.

Pena: Gli ignavi sono condannati a inseguire uno stendardo che corre veloce davanti a loro e al contempo sono tormentati da insetti che rigano di sangue le loro carni. Il loro sangue, caduto a terra, viene raccolto dai vermi: “Io, che riguardai, vidi una insegna / che girando correva, tanto ratta / che d’ogni posa mi parea indegna. / E dietro le venia sì lunga tratta / di gente, ch’i’ non avrei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta […]. / Questi sciaurati, che mai fur vivi, / erano gnudi e stimolati molto / da mosconi e vespe ch’eran ivi. / Elle rigavan lor di sangue il volto, / che mischiato di lacrime ai lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto” (vv. 52-69).

 

SOMMARIO

Dante e Virgilio oltrepassano una porta che ha sul frontespizio parole minacciose e oscure, poi incontrano i primi dannati, i quali non vivono ancora nell’inferno: si tratta dei pusillanimi, di coloro che nella vita non presero mai posizione. Questi peccatori (tra i quali Dante forse vede l’ombra di papa Celestino V) sono disprezzati sia da Dio che dai diavoli. Dopo gli ignavi, i due pellegrini giungono alle rive del fiume Acheronte, inizio del vero inferno, dove si assiepa sempre un gran numero di anime. Esse sono trasportate sulla sponda opposta da un nocchiero demoniaco, Caronte. Costui, appena s’accorge che Dante è vivo, lo aggredisce verbalmente, ma viene subito messo a tacere da Virgilio. 

 

PARAFRASI

La porta dell’inferno e i pusillanimi

Attraverso di me si va nella città della sofferenza; attraverso di me si va nell’eterno dolore; attraverso di me si va verso chi è perduto per sempre. La Giustizia ha mosso l’essere divino che mi creò; mi hanno costituito la Potestà divina, la somma Sapienza e il primo Amore. Prima di me non sono esistite cose se non eterne e io stessa sono eterna. Abbandonate ogni speranza voi che entrate”.

Appena vidi queste parole oscure scritte sulla sommità di una porta, dissi a Virgilio: “Maestro, il loro senso mi fa tremare di paura”. E lui mi rispose da persona saggia: “Da questo momento conviene abbandonare ogni timore ed è bene seppellire ogni viltà. Noi siamo giunti in quel luogo di cui ti ho parlato, nel quale vedrai le persone dannate perché hanno mancato di seguire Dio”. Poi, come per darmi conforto, mi porse la mano mostrandomi il suo volto lieto e infine mi fece entrare in quel mondo inaccessibile ai vivi.

In quel luogo oscuro risuonavano pianti e grida di dolore così acuti da provocarmi le lacrime. Lamenti alti e fiochi, parole strane pronunciate in diverse lingue, terribili urla di rabbia, fragore di mani battute contro i corpi, creavano, in quell’aria eternamente buia, un tumulto simile a quello che avviene quando una tempesta infuria sulla sabbia. E io, che avevo la testa piena di orrore, chiesi: “Maestro, cosa è ciò che sento? E chi sono queste persone che paiono tanto sopraffatte dal dolore?”.

E lui a me: “In questa miserevole condizione stanno le anime sciagurate di coloro che vissero senza meritare né lode né infamia. Tra di esse sono presenti quegli angeli che non furono né fedeli e né ribelli a Dio, ma vissero solo per sé stessi. I cieli li hanno cacciati affinché la loro presenza non ne contaminasse la bellezza; l’inferno non li vuole perché i diavoli proverebbero orgoglio a causa loro”. E io: “Maestro, cosa induce queste anime a lamentarsi tanto dolorosamente?”. Lui rispose: “Te lo dirò brevemente. Costoro non possono sperare di morire, e la loro condizione è tanto miserabile da indurli a invidiare qualunque altra sorte. Il mondo non conserva alcun ricordo di essi. La misericordia e la giustizia divina li sdegnano. Non meritano che si parli di loro: guardali appena e passa oltre”.

E io, che guardai lo stesso, vidi uno stendardo che girava rapido in tondo senza fermarsi mai. Dietro di esso correva una fila talmente numerosa di gente che non avrei mai creduto che la morte ne avesse potuto mietere tanta. Dopo aver riconosciuto qualcuno in quella folla, vidi e distinsi l’ombra di colui che fece per viltà il gran rifiuto. Subito compresi e fui certo che di questa folla facevano parte i peccatori che erano disprezzati sia da Dio sia dai diavoli. Questi miserabili, che vissero senza usare la loro facoltà di giudizio, correvano nudi ed erano di continuo punti da mosconi e vespe. Il sangue, mischiato alle lacrime, rigava i loro volti e cadeva ai loro piedi, dov’era raccolto da vermi schifosi.

 

Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte

Quando mi decisi a guardare oltre, vidi in lontananza molta gente assiepata lungo la riva di un grande fiume. Perciò dissi: “Maestro, dammi la possibilità di sapere chi sono costoro e quale legge li fa sembrare tanto impazienti di passare dall’altra parte del fiume, per quel che riesco a vedere, stante la scarsa luce che c’è”. Lui mi rispose: “Tutte queste cose ti saranno svelate quando ci fermeremo sulla desolata riva del fiume Acheronte”. Io allora, tenendo gli occhi bassi, vergognandomi per quel che avevo detto, temendo di aver proferito qualcosa di sbagliato, decisi di tacere finché non fossimo giunti presso il fiume.

Ma ecco venire verso di noi, su una piccola imbarcazione, un uomo assai vecchio, con barba e capelli Bianchi, che grida: “Guai a voi, anime malvage! Non abbiate alcuna speranza di vedere il cielo: io vengo per trasportarvi sull’altra riva, nel caldo e nel gelo. E tu che sei lì, anima di uomo vivo, allontanati da questi che sono tutti morti”. Vedendo che non mi spostavo, aggiunse: “Arriverai al luogo a te destinato seguendo un’altra via e sarai trasportato da un vascello più leggero”. Ma Virgilio gli disse: “Caronte, non darti pena: è deciso che costui passi da qui lassù in cielo, dove si può tutto quello che si vuole, e non chiedere altro”. Da questo momento si quietarono le guance ispide del nocchiero della palude nera, i cui occhi avevano ai lati cerchi rossi fiammeggianti.

Tuttavia, le anime desolate e nude lì raccolte, dopo aver udito le sue terribili parole, impallidirono e iniziarono a battere i denti per il terrore. Ingiuriavano Dio, i loro genitori, la specie umana, il tempo, il luogo in cui erano nati e i loro antenati. Poi, lamentandosi con gran strepito, si raccolsero lungo la riva che attende tutti coloro che non hanno timore di Dio. Il demonio Caronte, con gli occhi di fuoco, facendo loro segni, li raggruppò tutte, picchiando col remo chiunque rallentasse.

Come in autunno le foglie, una dopo l’altra, cadono dall’albero fino a che il ramo non vede a terra le fronde che prima lo adornavano, allo stesso modo quelle anime malvagie si allontanarono dalla riva una dopo l’altra, come uccelli che rispondono a un richiamo. In questo modo esse venivano traghettate su quelle acque oscure e, ancor prima che approdassero sull’altra riva, una nuova folla di anime da trasportare si presentava sulla triste riva del fiume Acheronte.

“Figlio mio”, mi disse il mio gentile maestro, “tutti coloro che muoiono privi della grazia di Dio si radunano qui da ogni nazione. E sono tutti pronti ad attraversare il fiume, perché è la stessa giustizia divina a spronarli a farlo, tanto che il loro timore diventa desiderio. Da qui non passa nessuna anima destinata alla salvezza; pertanto, se Caronte si lamenta di te, sai bene ormai qual è il significato delle sue parole”.

Dopo questo discorso, quella regione oscura tremò così forte che il ricordo dello spavento che provai allora mi riempie ancora oggi la fronte di sudore. La terra, intrisa di lacrime, fece sorgere un tale vapore che suscitò un lampo rosso che mi fece perdere i sensi: e caddi a terra come se fossi morto.

 

COMMENTO

La porta dell’inferno e i pusillanimi

Sulla soglia dell’inferno c’è una porta aperta sul cui frontespizio campeggia questa scritta: Per me si va nela città dolente; / per me si va nel’etterno dolore; / per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore: / fecemi la divina potestate, / la somma sapïenza e ‘l primo amore. / Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate” (vv. 1-9). La “divina Potestate” è Dio, la “somma Sapienza” il Figlio di Dio e il “primo Amore” lo Spirito Santo. La porta dell’inferno, nonché l’inferno stesso, sono stati creati da Dio e fanno parte del suo piano provvidenziale, poiché tramite essi la giustizia divina punisce i peccatori che non seguirono il sommo bene e non seppero pentirsi.

Varcata la soglia infernale, i due pellegrini avvertono lamenti terribili, urla di dolore, fracasso di mani che percuotono corpi. In questa zona, che non appartiene ancora all’inferno vero e proprio, sono puniti gli ignavi, i quali in vita, per viltà, non scelsero mai un’opinione o una fazione politica. Essi sono condannati a inseguire senza sosta un’insegna e sono al contempo tormentati da insetti che rigano di sangue le loro carni. Il loro sangue, caduto a terra frammisto alle lacrime, diventa cibo per i vermi. Una scena estremamente ributtante.

La pena è modulata sul meccanismo del contrappasso: poiché da vivi i pusillanimi non risposero agli stimoli della vita sociale e politica, nell’inferno devono inseguire in eterno un’insegna e sono continuamente punti da insetti. La loro pigrizia e inerzia terrena si trasforma in un movimento continuo e doloroso. Per Dante il peccato di “ignavia”, non contemplato peraltro dalla teologia tradizionale, è particolarmente odioso, tanto che questi peccatori non fanno nemmeno parte dell’inferno, perché anche Lucifero li disprezza. Non è difficile scorgere in questo spregio per chi non sceglie il riflesso del clima politico dei tempi: in un’epoca di forti contrapposizioni e di laceranti divisioni qual era quella vissuta da Dante, era praticamente impossibile non schierarsi mai né con una parte né con un’altra, dato che in genere ogni fazione politica giudicava coloro che non militavano dalla sua parte come dei nemici da abbattere.

Tra gli ignavi sono puniti pure quegli angeli che non scelsero né Dio né Satana e che, come gli altri pusillanimi, sono qui castigati perché Dio non vuole che i diavoli, vedendoli, si sentano superiori a loro. È bene spiegare: se questi angeli pusillanimi fossero stati precipitati nell’inferno, i diavoli che, a differenza loro, fecero comunque una scelta di campo (sebbene sbagliata), proverebbero orgoglio, ossia un sentimento positivo che attenuerebbe la pena che scontano per il fatto di essersi ribellati a Dio. In altre parole, per Dante una scelta di vita sbagliata è sempre preferibile a una vita spesa a non scegliere nulla. Per questo gli ignavi vanno ignorati, come suggerisce Virgilio: “Non ragioniam di lor, / ma guarda e passa” (v. 51).

Dante in realtà dà un’occhiata e tra i pusillanimi gli pare di scorgere una figura conosciuta, “l’ombra” di colui che fece il “gran rifiuto”. Questi versi hanno dato vita a varie interpretazioni, poiché il poeta non fa nomi. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che Dante abbia visto l’ombra di Ponzio Pilato, ma secondo la maggioranza degli interpreti l’ombra apparterrebbe a papa Celestino V, che nel 1300 lasciò la carica pontificia, assunta poi da quel Benedetto Caetani (divenuto papa col nome di Bonifacio VIII) che Dante detestava perché gli imputava l’essere causa della sconfitta dei guelfi Bianchi , evento che determinò il suo allontanamento da Firenze. Quasi certamente Dante pensava che Celestino V fosse stato spinto ad abdicare dal soglio pontificio proprio dal futuro Bonifacio VIII, anche se, secondo la EP (voce: Bonifacio VIII), “La cosa va esclusa, essendo invece assai probabile che l’idea del ‘gran rifiuto’ sia sorta e cresciuta nell’animo stesso di Celestino V, e può darsi benissimo che Caetani, ormai noto e stimato come una vera autorità nel campo del diritto canonico, sia stato interpellato dal papa circa l'ammissibilità e validità della rinuncia; ed è da credere che il suo parere, dato però in piena scienza e coscienza, sia stato determinante”.

Alcuni studiosi invece non concordano con questa opinione, osservano che Celestino V (al secolo Pietro del Morrone) fu canonizzato già nel 1313 ed ebbe fama di santità, venendo spesso contrapposto proprio a Bonifacio VIII. Tuttavia, nel 1313 l’inferno era quasi sicuramente già stato scritto e Chimenz precisa che “Non si oppone all’identificazione con Celestino la sua fama di santo. Dante prestò fede (cfr. Inferno, canto XIX, vv. 56-57), come i suoi contemporanei, alle voci – sembra non infondate -, di aver egli ceduto alle pressioni esercitate su di lui, perché abdicasse, dal cardinal Caetani, il futuro Bonifacio VIII”. Inoltre, la canonizzazione di Celestino V avvenne nel 1313 ad Avignone (dove dal 1309 un altro papa non amato da Dante, Clemente V, aveva di fatto portato la sede papale) e probabilmente fu ignota per lungo tempo in Italia. Può essere perciò che Dante non ne ebbe notizia, oppure “avrà saputo anche che a canonizzarlo, e per motivi non illibatissimi, era stato papa Clemente V de Got, dietro pressione di re Filippo il Bello di Francia: due tipi […] che il nostro […] magnanimo fazioso detestava” (Sermonti, p. 54). Estraniandosi da questo dibattito vivace, che vede prevalere la tesi secondo cui l’ombra vista da Dante sia quella di Celestino V, il Sapegno chiosa saggiamente: “La figura dell’innominato non ha nel contesto un risalto specifico; è piuttosto un personaggio emblema, termine allusivo di una disposizione polemica, che investe non un uomo singolo, ma tutta la schiera innumerevole degli ignavi”.

 

Il fiume Acheronte e l’incontro con Caronte

Il fiume Acheronte, a cui Virgilio e Dante giungono dopo aver visto gli ignavi, è uno dei fiumi sotterranei dell’aldilà. Attraversando questo corso d’acqua, i peccatori entrano nell’inferno vero e proprio. Nella mitologia greca e poi nell’Eneide, l’Acheronte era affluente dello Stige, il fiume dell’Ade, il regno dei morti (più avanti in effetti i due pellegrini incontreranno proprio lo Stige). Il significato del termine “Acheronte” dovrebbe essere “fiume (o stagno) di dolore”, tanto che Dante definisce la riva su cui approdano lui e Virgilio come “triste riviera”. Nella Commedia, a differenza dell’Eneide, attraverso l’Acheronte non passano tutti i defunti, bensì solo quelli destinati alla dannazione.

Dante descrive la disperazione dei dannati e l’odio che essi manifestano verso chi li ha messi al mondo. Nondimeno, poiché questa loro condanna fa parte di un piano voluto da Dio, Virgilio rivela a Dante che queste anime, alla fine, sono tutte pronte ad attraversare il fiume, quasi desiderando che la pena assegnata arrivi il prima possibile e finisca il tormento dell’attesa. Contrasta con l’atmosfera tetra del canto, il paragone tra le foglie che cadono dall’albero e le anime che abbandonano la riva per salire sulla navicella di Caronte che le condurrà nell’inferno. La similitudine è tratta dall’Eneide (VI, vv. 309-310), poiché la poesia di Virgilio sarà un riferimento costante per l’opera di Dante, soprattutto nell’Inferno.

In questo luogo i due pellegrini incontrano il primo demonio: a guardia del fiume che apre ai dannati la strada verso i cerchi infernali, è difatti posto un vegliardo, con barba e capelli Bianchi. Si tratta di Caronte, incaricato di traghettare le anime sulla riva opposta dell’Acheronte. Nella mitologia classica, Caronte è figlio dell’Erebo e della Notte. Anche nell’Eneide, Caronte trasporta i dannati oltre il fiume Acheronte verso gli inferi. Lo stesso Enea, scendendo nel Tartaro, dopo aver superato il vestibolo del regno dei morti e la porta dell’Orco, giunge all’Acheronte in compagnia della Sibilla. E qui c’è Caronte, così descritto da Virgilio: “Traghettatore di queste acque, orrendo, il fiume sorveglia, terribilmente luttuoso, Caronte; folta sul suo mento la canuta barba, incolta giace, stanno fisse le orbite di fuoco, mentre sordido alle spalle annodato pende un mantello. Lui stesso la sua zattera con una pertica spinge e con le vele dirige, e rugginosa trasporta i corpi la sua barca; è ormai vecchio, ma vegeta, come in un dio, e verde la sua vecchiaia” (Eneide, VI, vv. 298-304). Dante conserva alcuni tratti del personaggio virgiliano (la barba canuta, le orbite di fuoco), ma ne accentua il carattere demoniaco, conservandone la funzione di “psicopompo”, incaricato di traghettare solo le anime dannate.

Quando s’accorge che Dante è un uomo vivo, Caronte si adira (anche nei confronti di Enea, cfr. Eneide, VI, vv. 388-391, Caronte pronuncia parole irate, ma prive dell’astio demoniaco di quelle del Caronte dantesco). Le parole di Caronte sono un’ulteriore conferma del fatto che il viaggio di Dante è permesso dalla provvidenza divina: come altri demoni, Caronte conosce il futuro ed è lui stesso a confermare che Dante, dopo morto, non sarà dannato poiché otterrà la salvezza: egli rivela al poeta che lui giungerà nell’oltretomba sbarcando su un’altra riva. Infatti, Dante viaggerà dalla foce del Tevere, dove si imbarcano le anime dei defunti, alla spiaggia del purgatorio. La risposta brusca di Virgilio, che ribatte al vegliardo in modo da metterlo a tacere all’istante, verrà ripetuta in forma quasi identica contro altri demoni.


Altre fonti utilizzate per questo canto

Enciclopedia dei Papi (citata come EP), Istituto dell’Enciclopedia Italiana: https://www.treccani.it/enciclopedia/elenco-opere/Enciclopedia_dei_Papi

Sermonti Vittorio (con la supervisione di Gianfranco Contini), L’Inferno di Dante, Garzanti, (edizione elettronica 2021).

Virgilio, Eneide, a cura di C. Carena, in Publio Virgilio Marone, Opere, UTET, Torino 2005 (edizione elettronica 2013).

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