sabato 10 aprile 2021

LA "COMMEDIA" DI DANTE ALIGHIERI- PARAFRASI E COMMENTO DELL'INFERNO

CANTO I

AVVERTENZA

Il testo della Commedia che ho seguito è quello dell’edizione commentata da Giorgio Inglese nel 2016  e pubblicata dall’editore Carocci.

Ecco le edizioni della Commedia che ho consultato:

La Divina Commedia, introduzione di Bianca Garavelli, edizione digitale 2013.

La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1991

La Divina Commedia, a cura di Sirio A. Chimenz, UTET, Torino 2000. Edizione digitale 2013

Commedia, a cura di Giorgio Inglese, Carocci, Roma 2016

La Divina Commedia, a cura di E. Malato, Salerno Editrice, Roma 2018

    

                                                    Fonti citate in questo commento


Barbero Alessandro, Dante, Laterza, Roma 2020.

Bruni Leonardo, Della vita, studi e costumi di Dante, a cura di G L. PasseriniSansoni, Firenze           1917.

Davis C. T., L’Italia di Dante, il Mulino 1988.

Santagata Marco, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, il Mulino, Bologna 2011.

Santagata Marco, Il racconto della Commedia. Guida al poema di Dante, Mondadori, Milano 2020.

Virgilio, Eneide, a cura di C. Carena, in Publio Virgilio Marone, Opere, UTET, Torino 2005               (edizione elettronica 2013).


CANTO I

 Luogo: la selva oscura e il colle illuminato dal sole.

Personaggi: Dante e Virgilio.

Momenti:

a)      Dante perduto nella selva oscura.

b)     Il colle illuminato dal sole e incontro con le tre fiere.

c)      Incontro con Virgilio.

d)     La profezia del “veltro”.

SOMMARIO

Dante si ritrova in una selva oscura avendo smarrito la retta via. Il terrore che gli suscita la visione della selva è attenuato dalla vista di un colle illuminato dal sole: la notte sembra passata, la selva è alle spalle e Dante, speranzoso, s’appresta a salire. Ma tre belve gli si parano davanti (una lince, un leone e una lupa). Dante allora è costretto ad arretrare, tornando nella selva. Presto però vede una figura, fino a quel momento silenziosa: è l’anima del poeta latino Publio Virgilio Marone, che sarà per Dante la guida attraverso l’inferno.

 

PARAFRASI

La selva oscura

Nell’età di mezzo della nostra vita terrena mi ritrovai in una selva oscura, avendo smarrito la strada del bene. Ah, quanto è difficile descrivere quella foresta selvaggia e orrenda, il cui solo pensiero fa sorgere nuovamente in me la paura che provai allora! Solo la morte è più amara di essa. Ma dovendo raccontare del bene che vi trovai, parlerò pure delle altre cose che vidi. Non so come entrai nella selva: avevo la coscienza talmente intorpidita, che non m’accorsi di aver abbandonato la via della ragione.

 

Il colle illuminato dal sole. L’incontro con le tre “fiere”

Tuttavia, quando giunsi ai piedi di un colle, contro il quale terminava la valle in cui c’era la selva che mi aveva stretto il cuore dal terrore, guardai in alto e vidi le spalle del colle illuminate dal sole, l’astro che guida l’uomo attraverso ogni strada. Allora la paura, che aveva invaso il mio cuore durante quella notte di dolore, si attenuò un poco. Mi sentii come colui che, dopo aver faticosamente guadagnato la riva, si gira verso l’acqua che lo aveva messo in pericolo e la osserva sollevato: lo stesso feci io, voltandomi a guardare la selva da cui ero passato, che non lasciò mai vivo chi l’ha attraversata.

Dopo che mi fui un poco riposato, ripresi a salire il pendio deserto, tenendo sempre un piede più in basso rispetto all’altro. Ma, proprio all’inizio della salita, ecco apparire una lince, agile e veloce, dal manto chiazzato. La bestia non dava segno di volersi spostare, anzi occupava la strada davanti a me in modo tanto feroce, che più volte feci per tornare indietro.

Era l’alba di un mattino di primavera: il sole stava sorgendo e la sua posizione era nel segno della costellazione dell’Ariete, la stessa che c’era quando Dio creò l’universo, allorché mosse per primi i bellissimi astri del cielo: il mattino sereno e la stagione primaverile mi donavano speranza, nonostante ci fosse davanti a me quella belva dal pelo screziato, ma non poterono cancellare la paura che mi diede la vista di un leone, che apparve in quel momento. Esso sembrava muoversi proprio verso di me: aveva la testa alta e appariva arrabbiato e affamato, tanto che l’aria stessa sembrava tremare per il terrore.

Infine, ecco una lupa, bestia che già fece soffrire molte persone, che pareva portare impressi nella sua magrezza i segni di tutte le sue voglie. La paura che si spandeva dal suo sguardo mi diede tanta angoscia che persi ogni speranza di salire verso la sommità del colle. Dopo aver visto quella bestia, che non ha mai pace perché la sua voracità è insaziabile, feci come colui che spinge la sua volontà verso i guadagni e, quando arriva l’attimo in cui perde tutto, si addolora in modo inconsolabile. Quando la lupa si mosse verso di me, mi obbligò a tornare verso quella selva dove il sole non splende.

 

Incontro con Virgilio

Mentre tornavo verso il basso, si palesò alla mia vista qualcuno che, essendo stato a lungo in silenzio, sembrava aver perduto la capacità di parlare. Appena scorsi costui in quel luogo desolato, gli gridai: “Abbi pietà di me, chiunque tu sia, ombra oppure uomo vivo!”. Egli mi rispose: “Non sono un uomo vivo, anche se un tempo lo fui. I miei antenati furono lombardi, entrambi mantovani. Nacqui al tempo di Giulio Cesare, ma non potei conoscerlo, mentre vissi a Roma nell’epoca del buon imperatore Augusto, al tempo dei falsi dèi pagani. Fui poeta e cantai di Enea, quel giusto figlio di Anchise che scappò da Troia dopo che la superba città fu distrutta dal fuoco dei greci. E tu perché torni verso la selva? Perché non sali il bel monte che è principio e motivo di ogni gioia?”.

“Allora tu sei quel Virgilio e quella fonte da cui sgorga un così ricco fiume di belle parole?”, gli chiesi con gli occhi bassi per l’emozione. E aggiunsi: “Oh luce e guida di tutti i poeti, spero che mi procurerà benevolenza ai tuoi occhi il lungo studio e il grande amore che mi ha indotto a leggere la tua opera. Tu sei il maestro di poesia e il mio autore prediletto; tu sei l’unico da cui ho tratto il bello stile poetico che mi ha reso famoso. Guarda la bestia che mi ha fatto tornare indietro: aiutami, celebre uomo saggio, perché essa mi fa tremare le vene e i polsi”.

Quando Virgilio vide le mie lacrime, mi rispose: “È bene che tu segua un’altra strada se vuoi uscire vivo da questo luogo selvaggio, poiché la lupa, la cui vista ti fa gridare dal terrore, non lascia passare nessuno, arrivando a uccidere per impedire che ciò avvenga. Essa ha una natura tanto malvagia e crudele da non essere mai sazia: dopo che mangia essa è più affamata di prima. Ella si accompagna a molti animali ed essi saranno sempre di più finché non giungerà un veltro che la ucciderà con molto dolore. Costui non sarà avido né di potere né di ricchezze, ma si nutrirà di sapienza, amore e virtù e le sue origini saranno umili. Esso sarà la salvezza di questa misera Italia per la quale morirono la vergine Cammilla e Turno, Eurialo e Niso per le ferite subite in battaglia. Il veltro darà la caccia alla lupa in ogni città, finché non la farà tornare all’inferno, da dove l’invidia di Lucifero verso gli uomini l’ha fatta muovere. Perciò, per il tuo bene vedo e comprendo che è necessario che tu mi segua: io sarò la tua guida per portarti via da qui e condurti attraverso un luogo eterno, dove udrai grida disperate, dove vedrai gli antichi spiriti che imprecano contro la propria dannazione che per loro è come una seconda morte. Poi vedrai le anime di coloro che soffrono contenti in purgatorio perché sperano di salire tra i beati, verso i quali tu potrai ascendere se vorrai, ma da quel momento in poi un’anima più degna di me ti farà da guida. Io allora ti lascerò a lei. Perché Dio, che regna in Paradiso, non vuole che nella sua città entri uno come me che non ha conosciuto la religione cristiana. Egli governa su tutto il creato e come un re il paradiso: lì c’è la sua città eterna e il suo alto trono. Felice colui che viene chiamato da Dio per stare tra i beati!”.

Io allora gli dissi: “Poeta, io ti chiedo di nuovo, in nome di quel Dio che tu non conoscesti, affinché io sfugga da questo male e dalla dannazione, di accompagnarmi in quel luogo che hai appena nominato, cosicché io possa vedere la porta di san Pietro e i dannati che tu dipingi come tanto infelici”. Allora egli si mosse e io lo seguii.

 

COMMENTO

Dante smarrito nella selva oscura

Prima di cominciare, è bene mettersi d’accordo sui tempi. Non ci sono certezze sulle date di composizione della Commedia: si ipotizza che Dante abbia iniziato a scrivere l’Inferno attorno al 1305-1306 e lo abbia concluso tra il 1307 e il 1308 o 1309. Ciò che è certo è che il poeta in quegli anni era già lontano da Firenze. L’altra “certezza” è la data in cui Dante colloca l’inizio del suo viaggio immaginario nei regni dell’oltretomba: Dante immagina di cominciare il proprio viaggio e di ritrovarsi smarrito nella selva oscura, il 25 marzo 1300 (qualcuno ipotizza l’8 aprile 1300, ma se ne parlerà fra poco). Ciò significa che la Commedia è attraversata da due temporalità diverse: quella del Dante-autore che la compone tra il 1305-06 e il 1307-08, e quella del Dante-personaggio che viaggia nell’aldilà dell’anno 1300. Queste date vanno tenute sempre in mente, dal momento che nell’opera ci saranno diverse previsioni su eventi della vita di Dante che in realtà sono già accaduti quando egli compone il poema.

Dante, nella celebre terzina iniziale della Commedia, scrive “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / che la diritta via era smarrita” (vv. 1-3). Il poeta dice “nostra vita” e poi aggiunge “mi ritrovai”. Questo significa che egli, nella sua opera, non parlerà solo di sé stesso, bensì di tutti gli uomini. Pertanto, sin dal primo verso, la Commedia prende la forma di un poema universale: se Dante, nel mezzo del cammino della “nostra” vita, si trova lui, da solo, smarrito in una selva oscura, significa che pensa di essere stato investito della funzione di indicare all’umanità intera la via per tornare sulla strada del bene e del giusto. Dante dunque come profeta? Forse, eppure Dante anche come uomo che sa di dover sacrificare sé stesso per il bene altrui: come si vedrà nel canto secondo, la missione che la provvidenza assegna a Dante (il compito di visitare i regni dell’oltretomba per svelare agli altri uomini qual è il destino delle anime, affinché l’umanità si ravveda e abbandoni il peccato) non è un privilegio, quanto piuttosto un’incombenza che egli teme di non essere capace di portare a termine. E, in effetti, Dante non potrà svolgere da solo questo compito, poiché avrà bisogno della guida di un uomo saggio come il poeta latino Virgilio, per quanto riguarda il viaggio nell’inferno e nel purgatorio.

Naturalmente, se Dante si vedesse come un profeta non è dato sapere con certezza; forse pensava di esserlo, come alcuni critici hanno ipotizzato. Tuttavia, dato che nella Commedia trovano posto diverse previsioni di fatti già accaduti, si può accettare l’idea che Dante si credesse investito di un compito profetico, con l’avvertenza di rimodulare la definizione di “profeta” per adattarla al ruolo che Dante gioca nella Commedia. Il poeta non prevede il futuro e non vaticina alcuna visione dell’avvenire, ma è profeta in quanto ha il compito “di riferire ai vivi i vaticini ascoltati nel mondo ultraterreno” (Santagata 2011, p. 36). Si tratta di un’idea di profezia diffusa già tra i Padri della Chiesa ed esemplificata da una frase enunciata da Gregorio Magno (papa dal 540 al 604), teologo assai letto durante il Medioevo, contenuta nelle Omelie sul profeta Ezechiele, secondo cui il profeta è tale “non perché predice ciò che verrà, ma perché porta alla luce ciò che è nascosto”. Una definizione di profeta di questo genere si adatta bene al compito che Dante probabilmente ha in mente accingendosi a scrivere la Commedia: non quello di fare previsioni, bensì quello di svelare agli uomini qual è la vita nei regni d’oltretomba, quale sia la loro struttura, qual è il funzionamento della giustizia divina e in quale modo Dio condanna e salva gli uomini.

In questo senso, il compito che attende Dante è al contempo glorioso e gravoso. E l’investitura, l’incarico di portare a termine questa impresa così difficile, gli giunge dall’alto, sia da Beatrice (cfr. Purgatorio canto XXXII), sia dal suo trisavolo Cacciaguida, che nel Paradiso (canto XVII, vv. 124-129) gli consiglia di non aver timore se i malvagi, leggendo le sue crude verità, dovessero adirarsi, dal momento che egli ha il dovere di raccontare quel che vede senza nascondere nulla, affinché “rimosse ogne menzogna, / tutta tua vision fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna”. L’investitura giunge infine a Dante addirittura da San Pietro, nel canto XXVII del Paradiso: “E tu, figliol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo” (vv. 64-66), ossia: “E tu, figlio, destinato a tornare nel mondo perché non ancora sciolto dal peso del corpo, apri la bocca e non nascondere, ma svela agli altri uomini ciò che io ti ho rivelato”, in quel caso lo sdegno del cielo per lo stato di miseria in cui è caduta la Chiesa al tempo di Dante.

Ma cosa stava facendo Dante nel 1300, quando afferma di essersi smarrito in una selva oscura? È chiaro il valore simbolico della “selva”: essa indica un posto disordinato, selvaggio, quella che Dante nella sua opera filosofica, il Convivio, definisce “selva erronea di questa vita” (IV, xxxiv, 12). Dante nel 1300 sta vivendo un momento in cui, come dice Virgilio nel canto I del Purgatorio (vv. 58-59), è vicino alla morte spirituale. E la situazione doveva essere ben disperata se Beatrice (cfr. canto secondo dell’Inferno, v. 65), teme di essersi levata “troppo tardi” in soccorso di Dante.

Per provare a capire le ragioni dello smarrimento del poeta, bisogna vedere cosa stava facendo Dante verso l’anno 1300. Come si spiegherà nei commenti ai canti sesto e decimo, tra il 1300 e il 1301 Dante, durante lo scontro che si ebbe a Firenze tra i guelfi Bianchi e i guelfi Neri, tenne alcuni incarichi politici, tra cui quello di priore. Quando i Neri, nel novembre 1301, presero il potere in città, Dante, vicino alla parte bianca, fu accusato di baratteria (come diremmo oggi, di “corruzione” o “peculato”): visto che non si presentò per farsi processare (anche perché si trovava a Roma, dove era stato inviato a Roma con un incarico), fu condannato nel gennaio 1302, mentre a marzo dello stesso anno fu condannato a morte in contumacia. Da allora, Dante non rientrò più a Firenze. Perciò: “che cosa stava facendo Dante nei giorni che anni dopo descriverà come quelli in cui è andato vicino a perdere l’anima, a fine marzo del 1300? La risposta è che era immerso fino al collo in quell’attività politica che di lì a poco lo farà processare e condannare […] per malversazioni, favoreggiamento e corruzione” (Barbero, p. 209). Leonardo Bruni, nell’opera Della vita, studi e costumi di Dante, scrive di aver visto una lettera autografa del poeta nella quale si leggeva “Tutti li mali e gli inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio Priorato ebbono cagione e principio”.

Pertanto, un forte motivo di smarrimento sembra nascere in Dante dalla politica, in cui egli s’è impegnato dal 1295 circa al 1301. Questo smarrimento non è solo dell’uomo Dante, ma dell’intera società in cui egli vive, poiché in quell’epoca le due istituzioni deputate a guidare l’umanità, la Chiesa (destinata a indicare all’uomo la via per giungere alla felicità dopo la morte) e l’Impero (destinato a indicare all’uomo la via per la felicità sulla terra), erano incapaci di svolgere la loro funzione. Lo smarrimento di Dante è altresì legato alla visione di una città come Firenze nella quale gli antichi valori di sobrietà, misura e modestia sono stati travolti, facendo emergere uomini politici dissoluti, egoisti e pronti a tutto. In effetti, soprattutto dopo l’esilio (e la Commedia lo testimonia), Dante parlerà con disprezzo del mondo e della società di Firenze. La ferita dell’esilio ha senza dubbio accentuato in lui la convinzione, già elaborata mentre faceva politica, secondo la quale il prodigioso sviluppo economico e finanziario che aveva investito Firenze negli ultimi decenni del ‘200, aveva distrutto il tessuto sociale della città e i valori morali che tenevano unito tale tessuto. Firenze era diventata una città dinamica e moderna, nella quale Dante si sentiva spaesato: “I suoi mercanti operavano in tutte le città del mondo cristiano, e i suoi banchieri gestivano le finanze del papa, cioè della più colossale organizzazione multinazionale esistente al mondo. I profitti erano vertiginosi, gli arricchimenti velocissimi, la mobilità sociale più importante che in qualsiasi altro luogo, e tuttavia tra i fiorentini l’avidità, l’invidia e la paura anziché placarsi diventavano sempre più feroci, avvelenando la convivenza collettiva” (Barbero, p. 20).

Dante giudicava questo sviluppo economico come una delle cause della corruzione morale della sua città: il denaro favoriva l’odio, l’invidia, l’arricchimento scriteriato. La violazione di ogni valore etico e religioso è per Dante causata dal peso crescente che ai suoi tempi l’economia e la finanza stavano assumendo nel regolare i rapporti tra gli Stati e le città. Egli non ha compreso l’evoluzione della società medievale, il cambiamento cui essa stava andando incontro, l’internazionalizzazione dei conflitti, delle dinamiche politiche ed economiche. Dante vagheggiava l’antica Firenze, quieta, pacifica, cristiana, in un’epoca in cui Chiesa e Impero svolgevano ognuna autonomamente il loro compito, collaborando al bene comune. Si tratta di una Firenze che forse non è mai esistita, ma che Dante sembra desiderare con sempre maggiore forza proprio nel momento in cui è lontano dalla sua città, come testimoniano i diversi riferimenti della Commedia alla corruzione di Firenze, tra tutti il canto XVI dell’inferno (v. oltre). Se le sue idee erano queste, è chiaro il motivo per cui Dante si senta spaesato in una città che non riconosce più e che di lì a poco lo espellerà.

Infine, ma si tratta forse dell’elemento più rilevante, Dante si ritrova nella selva oscura perché è stato vicino a perdersi nel peccato; la selva è il simbolo non della morte fisica, bensì di “quella che nel Medioevo si chiama ‘seconda morte’, la più terribile, la perdita dell’anima travolta dal peccato e destinata alla dannazione eterna” (Brilli – Milani, p. 190). Dante, distratto dalla lotta politica, ha mancato di seguire la vera fede, dimenticando che l’unico vero bene è l’amore verso Dio, un bene eterno. L’allontanamento di Dante dalla retta via è rappresentato simbolicamente dal “tradimento” della memoria di Beatrice, la donna amata. Dopo la morte, Beatrice era diventata una creatura celeste, una fonte di salvezza per chiunque la sapesse amare: essersi dimenticato di lei è stato il peccato che ha condotto Dante lontano dalla retta via. Quando incontrerà Dante nel paradiso terrestre, Beatrice infatti lo rimprovererà, accusandolo di averla scordata una volta morta (cfr. Purgatorio, canti 30 e 31). Trascurando la sua memoria, Dante s’è dimenticato della necessità di seguire i beni celesti, dedicandosi invece ai falsi beni mondani che mai mantengono quel che promettono: la politica è il tipico esempio di una cosa mondana che, pur facendo baluginare la possibilità di ottenere gloria e onori, in un attimo può condurre l’uomo alla rovina, come è accaduto a Dante. Ecco perché il poeta si sente smarrito nella selva oscura, lontano dalla strada della fede, della morale e della giustizia.

Ci sono altre osservazioni su questo incipit della Commedia. Per quale ragione Dante, parlando dei suoi trentacinque anni, li definisce il “mezzo” del cammino della vita? Il poeta riteneva che la vita dell’uomo durasse settant’anni. Lo dichiara pure in un’altra sua opera, il Convivio (IV, XXIII), probabilmente rifacendosi al Salmo 89 dove si legge: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via”. Pertanto, poiché Dante nacque nel 1265, egli immagina che il suo viaggio ultraterreno sia avvenuto nell’anno 1300, quando ha trentacinque anni. Peraltro, nel poema ci sono altri riferimenti cronologici a questo anno. Per esempio, nel canto II del Purgatorio, vv. 98-99, Dante afferma che sono passati tre mesi dal Giubileo del 1300, proclamato da papa Bonifacio VIII in febbraio, ma il cui inizio era stato retrodatato al 25 dicembre 1299. Nel canto XVIII dell’inferno, Dante nomina il giubileo, descrivendo il modo in cui era stato organizzato il flusso dei pellegrini sul ponte che s’affaccia su Castel Sant’Angelo, dando a intendere di averlo veduto con i propri occhi. Inoltre, poiché Dante nel canto XXI dell’inferno fa dire ai diavoli che in quell’istante si compivano milleduecentosessantasei anni dalla morte di Cristo, collocata dai teologi e Padri della Chiesa solitamente il 25 marzo, si può datare l’inizio del viaggio immaginario alla fine del marzo 1300: “il 25 marzo era un giorno particolare: secondo la tradizione, un 25 marzo Dio aveva creato il mondo, e sempre il 25 marzo Cristo si era incarnato; inoltre per i fiorentini il 25 marzo era l’inizio di un nuovo anno” (Santagata 2020, p. 9). Al di là della questione anagrafica, è probabile altresì che Dante considerasse i trentacinque anni il culmine della sua vita, un momento propizio per una riflessione sull’uomo che lui era in quel momento e per stendere un bilancio della sua vita fino ad allora.

 

Il colle illuminato dal sole e l’incontro con le tre fiere

Il colle illuminato dal sole primaverile è il simbolo della grazia divina che guida l’uomo verso la salvezza. La lieta atmosfera del mattino primaverile è un segno di rinascita, sia per Dante che per l’umanità. Questa visione suscita nel poeta la speranza di poter abbandonare la condizione di smarrimento che sta vivendo e tornare nell’alveo della grazia divina. In realtà, la situazione è più grave di quel che sembra.

La via verso la salvezza, infatti, è ardua e necessita di un sincero pentimento per essere percorsa con successo. Evidentemente Dante non è ancora pronto per ottenere la salvezza, dato che, quasi subito, tre belve gli sbarrano la strada. Esse precludono al poeta la possibilità di uscire dalla selva, ovvero, simbolicamente, di superare la condizione di traviamento in cui è caduto. Forse Dante, e con lui tutta l’umanità, è giunto tanto in basso nella sua condizione peccaminosa che, per ritrovare sé stesso, deve compiere un percorso più lungo e faticoso. Non bisogna mai dimenticare che Dante non parla solo di sé, ma della condizione di tutti gli uomini. Nel raccontare del proprio smarrimento e della fatica che egli deve compiere per superarlo, il poeta ha in mente i destinatari del suo racconto, ossia i suoi simili, in particolare coloro che, come lui, hanno ancora a cuore gli autentici valori etici e religiosi.

Le tre belve sono probabilmente il simbolo dei tre peccati capitali che, in quell’epoca storica, secondo il giudizio di Dante, avevano allontanato l’umanità dalla retta via. La “lonza leggiera e presta molto” dovrebbe rappresentare il peccato di lussuria. Il leone “con la testa alta e con rabbiosa fame” quello di superbia. La lupa quello di cupidigia. Quest’ultima appare magra, nonostante sia tanto vorace, come a dire, simbolicamente, che lo sfrenato desiderio di beni materiali è inesauribile e destinato fatalmente a non soddisfare mai chi li brama. Perciò, le cause principali della decadenza dei costumi della sua epoca, sono, secondo Dante, l’amore vissuto in modo peccaminoso; la superbia e il disprezzo verso gli altri; la cupidigia, il desiderio smodato di ricchezze, potere e onori, che conduce molti uomini a uccidere, ingannare e tradire gli altri uomini.

 

      L’incontro con Virgilio

Smarrito, terrorizzato, sentendosi perduto, Dante si guarda attorno e s’accorge di un uomo che sta vicino a lui in silenzio. L’immagine di questo uomo che tace è un’allegoria della razionalità di Dante indebolita dal peccato: “la ragione parla con voce fioca nell’anima di Dante, dopo aver a lungo taciuto” (Inglese). L’uomo è Publio Virgilio Marone (70-19 a. C.), il più grande poeta latino. È autore dell’Eneide, un’opera che racconta le origini di Roma e della gens Iulia, quella cui appartenevano Cesare e l’imperatore Augusto, ricollegandole direttamente alla civiltà greca.

Virgilio, raccontando brevemente di sé, afferma di essere “lombardo”. Si tratta di un anacronismo giacché in epoca romana non esisteva alcuna denominazione geografica di questo tipo nel territorio italiano. Al tempo di Dante, invece, si parlava correntemente di Lombardia, ma ci si riferiva a un’area geografica molto ampia, che comprendeva, oltre all’attuale territorio lombardo, buona parte del Veneto fino alla Marca Trevigiana, la Liguria e le zone dell’attuale Emilia occidentale. Per esempio, quando Dante soggiornò a Verona fu definito “lombardo” da un altro poeta, Cecco Angiolieri. Inoltre, Bartolomeo della Scala, figlio primogenito di Alberto I, che tenne la signoria di Verona dal 1301 al 1304, viene definito “gran Lombardo” in Paradiso, XVII, v. 71.

Virgilio, che nella Commedia simboleggia la ragione umana, è per Dante fonte d’ispirazione, sia per il poema che scrisse, sia per la sua condotta di vita. Virgilio è al contempo un maestro e un modello poetico. Secondo quel che dice il poeta latino, Dante dovrà percorrere un’altra strada, assai più irta di difficoltà, se vuole salvarsi da una condizione di desolazione morale che lo sta conducendo alla morte. Anche in questo caso, il discorso non riguarda solo Dante, bensì l’intera umanità. Poco dopo, infatti, Virgilio afferma che la lupa, simbolo dell’avidità, non consente a nessuno uomo di rimanere vivo. Essa è la causa dei mali di cui soffre la società del tempo: sete di potere, avidità, eccessivo amore per i beni terreni. E aggiunge la celebre profezia sul “veltro”, ossia sul cane da caccia che giungerà per uccidere la lupa, ovvero, fuor di metafora, su colui che scaccerà l’immoralità della società, ristabilendo l’ordine e riportandola verso quei valori alti e nobili per i quali, conclude Virgilio, i personaggi del suo poema, Cammilla, Eurialo e Niso, combatterono e morirono.

La profezia sul veltro non è chiara poiché è difficile stabilire chi sia, simbolicamente, il veltro. Virgilio, esprimendo questa rivelazione, sembra preconizzare l’avvento di un uomo (l’imperatore? un uomo di Chiesa? O uno dei signori da cui Dante si rifugiò dopo l’esilio, come il veronese Cangrande della Scala?) che restituirà pace all’Italia e moralità alla Chiesa. Secondo Chimenz il fatto che il veltro, come dice il poeta, sarà dotato di sapienza, amore e virtute, conferma “il carattere della missione spirituale-religiosa, e non già politica, del Veltro”. È vero che nel suo poema Dante esprime spesso riprovazione per lo stato di miseria morale sia della Chiesa sia delle istituzioni politiche del suo tempo, auspicando un intervento della provvidenza affinché ponga rimedio a questa situazione. Ma non appare chiaro, dai suoi versi, chi debba poi, concretamente, quale inviato dalla provvidenza, restituire moralità alla Chiesa e dignità alla politica. Il Sapegno sembra propendere, con molta cautela, per l’ipotesi secondo cui il “veltro” sia un pontefice rinnovatore. O forse sarà “simbolo di un restauratore della giustizia, che sconfiggerà la cupidigia e tutti i vizi cui essa si unisce nel mondo depravato” (Malato).

Dunque, Virgilio ha il compito di accompagnare Dante attraverso i regni dell’oltretomba affinché egli possa conoscere e raccontare il terribile destino che attende i peccatori. Questo viaggio sarà perciò un insegnamento sia per l’uomo Dante, sia per tutta l’umanità, poiché Dante dovrà parlare a tutti gli uomini, affinché essi, comprendendo quanto la giustizia divina sappia essere al contempo inesorabile con i peccatori impenitenti ma misericordiosa con coloro che si pentono sinceramente, possano abbandonare i vizi nei quali sono caduti e tornare a seguire i valori della vera fede. Il viaggio di Virgilio, tuttavia, si concluderà alla sommità del purgatorio, dove c’è l’Eden. Da lì in poi, se Dante vorrà proseguire per vedere come vivono in Paradiso i beati, dovrà seguire un’altra guida: Beatrice. Virgilio non può infatti accedere al Paradiso, sia perché egli rappresenta la ragione umana, la quale si deve sempre piegare alla forza della fede, sia perché, non avendo abbracciato la fede cristiana, egli non può entrare nel regno dei Cieli.

Ci si potrebbe chiedere come mai Dante abbia scelto Virgilio quale sua guida, sebbene il poeta latino non abbia conosciuto il cristianesimo. Innanzitutto, va detto che per Dante Virgilio è un maestro di poesia e la sua opera più nota, l’Eneide, è una fonte costante di ispirazione per molti luoghi e personaggi della Commedia. Un’altra ragione è legata all’idea secondo la quale il viaggio di Enea era un ritorno alle origini, alla patria italiana cui apparteneva il suo avo Dardano. Questa suggestione è raccolta appieno da Dante, il quale considerava Virgilio un poeta non solo latino, ma pienamente italiano: per questo egli diventa la sua guida nei regni dell’aldilà. Cerchiamo di capire. Secondo quanto diceva l’Eneide (VII, vv. 205-211), il protagonista, Enea, quando approda sulle coste laziali giungendo da Troia, torna di fatto alla patria di origine di Dardano, il mitico progenitore della stirpe che aveva governato la città troiana. Questo collegamento tra Dardano e l’Italia rende per Dante l’Eneide una vera e propria opera storica, non un poema di fantasia. Dardano sarebbe stato originario della città di Corito (l’odierna Cortona), in Etruria: “Enea è ritratto da Virgilio non come un conquistatore straniero, ma come un salvatore che ritorna alla terra dalla quale il suo antenato Dardano era partito per fondare Troia” (Davis, p. 51).

Inoltre, Virgilio diviene la guida di Dante poiché il poeta latino avrebbe previsto l’avvento di Gesù. Questa idea era condivisa da celebri Padri della Chiesa, tra cui S. Agostino e Dante l’aveva fatta propria. Essa nasce dalla interpretazione dei versi di una ecloga di Virgilio contenuta in una sua opera, le Bucoliche, laddove il poeta latino scrive “L’ultima età è giunta oramai della profezia cumana, la serie dei grandi secoli nasce da capo, oramai torna persino la Vergine, tornano i regni di Saturno, ormai una nuova razza s’invia dall’alto cielo. Tu al fanciullo che ora nasce, per cui cesserà finalmente la razza del ferro e sorgerà in tutto il mondo la razza dell’oro, sii benevola, casta Lucina: già regna il tuo Apollo” (vv. 4-11). Virgilio qui riprende il mito delle età del genere umano, prevedendo il ritorno dell’età dell’oro, un’epoca di felicità, legata alla nascita di un fanciullo, che in ambito cristiano era ritenuto essere Gesù. Quella cristiana è di certo un’interpretazione forzata delle parole di Virgilio, ma su di essa si basa Dante per fare del poeta latino la sua guida nel viaggio attraverso l’inferno e il purgatorio. Infine, dato che Virgilio, vivendo nel limbo (cfr. canto quarto), ha potuto vedere cosa accadde nell’inferno dopo la morte di Cristo, egli ha certamente abbandonato la fede nelle false divinità pagane che aveva adorato quando era in vita. Dante infatti fa dire a Virgilio nel canto I: “vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto, / nel tempo delli dei falsi e bugiardi” (vv. 71-72).

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