Leggere
un libro appena uscito, scritto da un’autrice il cui precedente volume, Il treno dei bambini, ha avuto un gran successo, è rischioso. Si ha paura di leggere qualcosa che si immagina essere stato
imposto dall’editore all’autrice per sfruttare l’onda del successo della
precedente pubblicazione. Con questo spirito, scettico e timoroso, mi sono
avvicinato al libro di Viola Ardone, Oliva
Denaro, appena edito da Einaudi. Per fortuna già dopo poche pagine ogni
dubbio è stato spazzato via da una storia intensa, malinconica, desolante ma arricchita
da un certo pathos speranzoso.
È
un libro al femminile, non solo perché racconta l’amara vicenda di una
ragazzina che vive in un paesino siciliano nel 1960, ma perché in questo libro
i maschi sono dei comprimari, sia quando sono cattivi, sia quando, come il
padre della protagonista, sono buoni. Ed è un libro storico, che racconta
l’inizio della presa di coscienza delle donne su sui propri diritti, ma è anche
un libro politico, perché sta dalla parte delle donne, di tutte le donne,
quelle picchiate, violentate, un tempo costrette a sposarsi e oggi, in
apparenza integrate in società, eppure sempre in pericolo, spesso uccise perché
vogliono essere libere di scegliere. Rispetto al 1960 sono cambiate le leggi,
le convinzioni morali, la mentalità comune… e tuttavia, come allora, quando una
donna intende essere libera, sovente la violenza è dietro l’angolo.
Ecco
allora l’idea centrale del libro, almeno per me: la convinzione che le donne
possono vincere le loro battaglie solo se sono unite, perché da sempre, per la
società maschilista, non esiste “la” donna, ma esistono solo “le” donne, al plurale, come una massa indistinta non di individui definiti, ma di esseri
che esistono esclusivamente in relazione a un uomo:
“perché [le donne] devono essere sempre declinate al plurale per ricevere
considerazione? Agli uomini basta essere uno per valere qualcosa, con nome e
cognome. Noi invece dobbiamo metterci in riga a formare una schiera, come
fossimo una specie a parte”. E ancora: “La donna singolare non esiste. Se è in
casa, sta con i figli, se esce va in chiesa o al mercato o ai funerali, e anche
lì si trova assieme alle altre. E se non ci sono femmine che la guardano, ci
deve stare un maschio che la accompagna”. Quello che per Oliva era uno
svantaggio delle donne, il loro essere sempre considerate una massa, diviene
nel tempo una forza, perché conduce molte di loro a prendere consapevolezza di sé,
dei propri diritti, come collettività di donne, facendo loro capire il vero significato della solidarietà femminile. Certo, la strada è lunga, faticosa e per nulla lineare.
La
cosa bella di questo libro, tra le tante, è l’assenza di ogni retorica, di ogni
ingenua fede nel progresso dei tempi, nell’evoluzione della morale. Le leggi e
la morale cambiano solo se gli uomini e le donne si muovono affinché ciò
accada. La protagonista, Oliva, vive tutte le difficoltà di una “femmina”
siciliana degli anni ’60: l’ossessione dell’onore, la violenza, il senso di
superiorità del maschio, la legge che prevede il delitto d’onore, l’idea che
una donna non possa fare nulla da sola; il marchio di infamia su chi viene “disonorata”
perché si sa che poi non la vuole nessuno; la spietata commiserazione verso la
zitella, la pratica della “fuitina” e il matrimonio riparatore che, secondo la
legge di allora, estingueva il reato di rapimento da parte dell’uomo. Per
questo la protagonista si domanda a un certo punto quale sia la colpa di chi è
nata femmina. Perché questo sembra suggerire la mentalità del paese: l’essere
femmina è una specie di fardello, un peso che viene passato dal padre al
marito. Non ci sono sentimenti, né amore, o almeno, non l’amore come lo si
intende oggi. E la legge sì, in teoria esiste la legge, esiste la giustizia ma…
dice il maresciallo dei Carabinieri a un certo punto al padre di Oliva: “Giustizia
è parola scivolosa, – dice. [...] – Ci sta
la giustizia della legge e la giustizia degli uomini, che non sono propriamente
l’identica cosa”.
Tuttavia,
il libro non è il racconto di una sconfitta, di un’umiliazione. È anche la
storia di una presa di coscienza, per quanto faticosa e lacerante; per questo
il libro mi sembra sia altresì un romanzo di formazione, grazie alla quale la
protagonista acquisisce la consapevolezza di sé, sia incontrando le persone giuste, le
poche donne diverse da lei, sia studiando. Ma attenzione, la
cultura non è una fonte di riscatto immediato per Oliva: detto così sarebbe
sola retorica, e s’è detto che uno dei pregi del libro è l’assenza di retorica.
L’autrice non costruisce un discorso moralistico sulla cultura come modo per salvarsi.
La cultura e l’istruzione, di per sé, non salvano, ma lo fanno solo una certa
cultura e una certa istruzione.
Infatti,
la protagonista non sopporta le cose che le insegnano a scuola o le cose che le
dice la madre per educarla. Si tratta di un’educazione maschilista, che insegna
alle femmine solo a stare buone, brave, che chiede loro di non provocare
(perché poi, si sa, l’uomo è uomo), di tenere gli occhi bassi mentre camminano
in strada, la gonna lunga, il vestito non attillato. E insegna alla donna che
lei appartiene sempre di qualcuno: al padre o al marito. E se una donna non è
di nessuno, è una zitella. Oliva invece vuole una cultura nuova,
che insegni alle donne a sviluppare la coscienza di sé: “Al posto delle
tabelline e dei verbi irregolari avrebbero dovuto insegnarci a dire di no,
tanto il sì le femmine lo imparano alla nascita”.
Oliva
si è opposta un sistema di valori secolare. E alla fine è cambiata: cresciuta
in un ambiente conservatore, ha saputo essere rivoluzionaria in maniera
morbida. Anche il padre (che è l’unico maschio che si comporta con amore verso
di lei, almeno per buona parte del romanzo), il fratello, la madre e la
sorella, hanno avuto un riscatto grazie a lei. E il fatto che, anni dopo, lei
sia tornata nel paese natale e abbia rivisto il suo carnefice, l’uomo che
l’aveva rapita e violentata per disonorarla e per averla tutta per sé, non è per
lei una vittoria, ma la consapevolezza che la brutalità e l’ignoranza
di quell’uomo sono state una condanna anche per chi, da maschio, non sa
ribellarsi a un sistema sociale retrogrado e intriso di ignoranza: “Anche lui
ha perso, anche lui è una vittima: dell’ignoranza, di una mentalità antiquata,
di una mascolinità da dimostrare a tutti e a ogni costo, di leggi superate dal
tempo e dalla storia”.
In
fondo un libro come questo ha il merito di commuovere, divertire, fare
incavolare e insegnare qualcosa. Il coraggio di Oliva è un coraggio femminile
collettivo che forse, oggi, sarebbe necessario, perché un conto sono le leggi
dello Stato, che sono per fortuna cambiate, un altro è la “natura” o la
mentalità, soprattutto maschile. Oliva ha lottato contro una società barbara e
ignorante, e ha avuto ragione, come dice nel finale, rammentando quando a
imparato a dire “no”: “ci sono dei «no» che non costano niente e altri che
hanno un prezzo molto alto. Il mio l’ho pagato tutto, e con me la mia famiglia.
Per molto tempo mi sono sentita sola, giudicata, sbagliata, ma oggi so che
avevo ragione e che è stato giusto così”.
Il
romanzo si conclude nel 1981, il giorno in cui viene abolito l’articolo del Codice
penale che prevedeva il delitto d’onore. È un simbolo, una bella idea
dell’autrice, per concludere un libro che si legge d’un fiato e che lascia
tanta ricchezza in chi lo legge.