lunedì 2 novembre 2009

Pier Paolo Pasolini (1922-1975)



È impossibile parlare di Pier Paolo Pasolini in poche righe; ma vorrei provare a scrivere alcune cose che galleggiano nella mia mente; lo faccio senza un progetto espositivo, ma quasi d’istinto, a 34 anni di distanza dal suo assassinio, il 2 novembre 1975.
Lui stesso non amerebbe la retorica, né alcuna celebrazione; sarebbe superfluo dire Pasolini che “ci” manca… sì, manca anche a noi nati durante gli anni Settanta, che non l’abbiamo conosciuto, se non attraverso le sue poesie, i suoi libri, i suoi romanzi, i suoi film, le sue apparizioni televisive.
Quando scrive Le ceneri di Gramsci (qui c’è un'interessante analisi del testo mentre qui c’è il testo), Pasolini è giovane; crede ancora, forse, nel proletariato italiano (o meglio nel sottoproletariato), inteso non tanto come classe sociale rivoluzionaria, bensì come insieme di individui capaci di intercettare e incarnare ancora il sentimento autentico della vita, la genuinità dell’esistere.
Per inciso, i versi de Le ceneri di Gramsci possiedono anche un notevole valore poetico, perché i componimenti sono scritti impiegando magistralmente la terzina dantesca, una metrica non utilizzata nella poesia italiana d’allora, sempre più favorevole al verso libero; non solo, nella poesia si riscontrano echi di Giovanni Pascoli, eppure Pasolini appare ugualmente moderno, un anticipatore delle avanguardie poetiche degli anni ’60.
Pasolini credeva nel popolo, non nella “gente”, come si dice oggi, e neppure nella “pubblica opinione” o nella triste “società civile”. Non era però populista, né demagogo, bensì, potremmo dire, un popolare. Anni più tardi, deluso dal sottoproletariato italiano che, folgorato dal boom economico, si dedica al consumismo e smarrisce se stesso, Pasolini volgerà altrove il suo interesse per una forma di vita semplice, primigenia. Il consumismo secondo lui diventa una specie di droga che annichilisce lo spirito di rivolta del proletariato, e lo tiene alla catena, lo controlla, proprio grazie al “benessere” (TV, lavatrice, lavastoviglie, automobile). Viene fatto credere che questo benessere sia alla portata di tutti: l’importante è lavorare e tacere. Che non avere l’automobile è una vergognosa mancanza, mentre non leggere libri non è qualcosa di grave. È questo consumismo una nuova forma di fascismo, anzi, il vero fascismo, mascherato da regime democratico, si domanda in questo video il poeta...
Un uomo come Pasolini odia il conformismo piccolo borghese, anche se non è, lui, un intellettuale radical-chic, bensì un uomo che cerca il popolo, nelle sue opere, nei film, nelle sue storie che racconta (che descrive nei suoi romanzi, si pensi a Ragazzi di vita), ma anche dentro le notti romane. È proprio l’avversione verso il conformismo piccolo-borghese che guida molte sue riflessioni L’emancipazione del sottoproletariato avviene dunque non attraverso una rivolta, o un riscatto della propria vita che possa salvaguardare e arricchire il carattere autentico, genuino dell’esistenza. Tale riscatto, invece, avviene adeguandosi ai canoni borghesi della vita ordinaria, attraverso il trinomio casa-famiglia-lavoro.
Si pensi a Ragazzi di vita, romanzo uscito nel 1946. Uno dei primi eventi che rapisce l’attenzione del lettore è contenuto nel primo capitolo del libro, quando il protagonista (un ragazzo del sottoproletariato, che, come diremmo oggi, “vive di espedienti”), il Riccetto, si getta dalla barca in mezzo al fiume per salvare una rondine che stava affogando. A questo episodio corrisponde specularmente, in opposizione, un avvenimento posto quasi all’epilogo del romanzo. In questo caso il Riccetto - scontati gli anni di carcere e “messa la testa a posto”, secondo i canoni borghesi del “casa-lavoro-stipendio” -, pur commuovendosi, non muove un dito per salvare dall'annegamento nel fiume Aniene il giovane Genesio, considerando la situazione troppo rischiosa per intervenire. Il primo Riccetto, quello delle vagabonde scorazzate, degli espedienti più o meno legali per sopravvivere, dei furti e delle disonestà, è un ragazzino capace di provare un sentimento di pietà e di compassione per un uccellino, tanto da non indugiare un solo secondo per salvarlo; di contro, il Riccetto responsabilizzato, quasi borghese è, come dice lo stesso Pasolini, un personaggio piatto, vuoto, che, influenzato dai canoni della società borghese, ha perduto quegli slanci di pura umanità che permanevano sotto la scorza da piccolo delinquente; egli è rimasto intrappolato in quello spirito egoista da membro della classe media - cui nonostante tutto non apparterrà mai - abbandonando definitivamente quei tratti di peculiarità popolana che la vita di borgata gli aveva cucito addosso.
Negli anni ’60, secondo Pasolini ormai lo spirito autentico dell’uomo non esiste più nella decadenti società occidentali; o forse i veri figli del popolo, nella società italiana che a fine anni ’60 sembra, in apparenza, scuotersi dal torpore conformista, esistono ancora. Ma Pasolini li “trova” dove meno ce l’aspetteremmo: tra i poliziotti, impegnati il 1 marzo 1968 a contrastare gli studenti universitari che manifestavano a Roma: "Il PCI ai giovani". Con questa poesia Pasolini non intende, semplicisticamente, assumere una posizione da bastian contrario e difendere i poliziotti contro gli studenti in rivolta, ma vuole rimarcare come la generazione del 1968 fosse ormai in ritardo e, resa “molle” da anni di benessere e consumismo (loro sono i “figli di papà”), non fosse più in grado di porsi veramente come punta di diamante del cambiamento dell’Italia, un paese ormai annegato in un conformismo feroce.
Non so Pasolini avesse ragione; non c’è qui spazio per parlare del ’68, di quello che ne seguì: del rinnovamento della società italiana, del costume, ma anche della violenza politica. Forse non vale la pena nemmeno rammentare come molto ex-sessantottini siano finiti “dall’altra parte”. Piuttosto, la nostra generazione dovrebbe chiedere conto ai nostri padri, perché ci hanno “lasciato” una società dove si fatica a trovare una collocazione, dove il precariato lavorativo è spesso una costante. Sembra quasi che, usciti sani e salvi dalla faticosa ricostruzione post-bellica, la generazione dei nostri padri si sia pappata tutto, lasciando a noi solo delle briciole, mentre molti di loro, ancora, occupano i posti di potere. Chissà se Pasolini aveva intuito anche questo.
Tornando a lui, dicevo… questo trionfo del consumismo, dell’omogeneizzazione culturale sarebbe favorito secondo Pasolini da un (allora) nuovo strumento culturale, che per definizione, essendo un “mass-media”, tende alla mediocrità, a livellare verso il basso di questo paese, al di là delle intenzioni di chi ci lavora. Fa impressione sentire Pasolini che, negli anni ’60, afferma che la TV, come mezzo di massa, è alienante (in senso marxista?), sia perché “mercifica” quel che si dice, sia perché rende lo spettatore “inferiore” rispetto a colui che parla in TV che viene visto come “superiore”, non per le cose che dice, bensì solo perché appare in televisione.
La lucidità di un uomo come Pasolini colpisce perché egli è stato capace di vedere e denunciare fenomeni culturali e sociali (il consumismo, l’appiattimento culturale della società, la vittoria del superfluo, del materialismo, la ricerca del successo a ogni costo) che ai suoi tempi erano ancora in embrione e che solo più tardi prenderanno forma, soprattutto dopo gli anni ’80.
Naturalmente, Pasolini era anche un uomo del suo tempo; non si vuole dire che egli avesse sempre ragione, né che non sbagliasse mai. Nelle cose che dice o scrive si possono senz’altro trovare opinioni che non si condividono. Ma in lui sembra rilucere, sempre, una ricerca, disperata, dell’autenticità; come se per lui cadere nel pregiudizio, nel populismo, nell’ovvietà, fosse un delitto, una resa ignominiosa alla terribile cultura di massa.
Pasolini era un “diverso” per scelta, potremmo dire; non perché fosse omosessuale, né perché vivesse appieno questa sua omosessualità. Ma perché non taceva; perché non aveva paura di dire quello che pensava, sempre. Un intellettuale come lui, in una società che teme un pensiero che si distingue dagli altri, è condannato alla solitudine. A una solitudine talvolta cercata, altre volte sofferta. E solo la compagnia dei suoi ragazzi di vita, la sera, forse gli dava requie. Eppure era un uomo che, sebbene facesse scandalo, non desiderava farlo, né stupire per degli eccessi. Ecco, Pasolini odiava chi si scandalizzava. Nel suo film-documentario “Comizi d’amore”, a un certo punto egli dialoga con Alberto Moravia e Cesare Musatti proprio sul senso della parola “scandalizzarsi. Moravia afferma che “le cose che si capiscono non scandalizzano”. Una frase su cui riflettere bene ancora oggi.

1 commento:

  1. Ogni tanto mi riguardo su youtube i filmati di Pasolini, oppure il finale della "ricotta "(quello con Orson Welles) o i dialoghi di Totò e Ninetto nel corto "Che cosa sono le nuvole"...e mi commuovo...mi ricordo bene quel 2 novembre del 75,la notizia al tg della sera, le facce sconvolte di mia sorella e del suo compagno, io ero un bimbo e, grazie a quelle facce, mi sarei poi interessato a lui...ma sai cosa mi colpisce sempre? la sua voce, dolce e mite...grazie delle tue parole...

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    a presto

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