mercoledì 10 marzo 2010
Il treno nella tormenta - puntata 2
Qui la puntata precedente.
RIASSUNTO: un treno viene bloccato dalla neve sull'Appennino parmense. Sul treno un ragazzo (Andrea) conosce una ragazza (Francesca); i due cominciano a conoscersi, mentre i viaggiatori del treno si rifugiano al bar della stazione per scaldarsi. A un certo punto Francesca rivela che sta scappando dalla sua vita, dal suo uomo...
La rividi quasi un’ora dopo. Ero tornato nel bar e avevo parlato un bel po’ di minuti al telefono con la mia ragazza. Non avevo badato all’assenza così prolungata di Francesca. Stavo bene al calduccio. Avevo anche raccolto alcune informazioni che parlavano dell’autostrada della Cisa, anche lei bloccata dalla neve. I treni che salivano da S. Stefano di Magra verso l’Emilia (provenienti dalla Liguria o dalla Toscana) limitavano le loro corse a Pontremoli, dall’altra parte del valico. I tecnici delle ferrovie avevano, infatti, parecchie difficoltà a raggiungere il tratto di linea danneggiato dalla neve. Oltretutto le previsioni del tempo non erano favorevoli. Insomma, difficilmente saremmo potuti andare avanti entro la serata. Qualcuno accennò alla possibilità di pernottare a Fornovo, a spese delle ferrovie. L’idea mi parve bizzarra.
Quando Francesca tornò, appariva più rilassata. Si scusò per la sua assenza, assicurandomi che aveva parlato al telefono con sua zia, che l’aveva avvertita del ritardo e così via. Le credetti, naturalmente.
Era ormai l’una e mezza passata. Dovevamo mangiare. Uscimmo dalla stazione in mezzo a una nevicata furiosa. Camminavamo a fatica: c’erano almeno 30 cm di neve al suolo. Diedi il mio braccio a Francesca per evitare che scivolasse, stante le sue scarpe basse. Mangiammo una pizza in una trattoria nei paraggi, passando due ore liete. Durante il pranzo Francesca apparve sollevata, tranquilla, quasi leggera. Discutemmo di varie cose, e la trovai sempre più simpatica, interessante. Mi disse che si dilettava di fotografia e mi raccontò dei suoi servizi e del blog che aveva messo rete, dove pubblicava le sue foto. Mi feci dare l’indirizzo del blog e la sua e-mail, perché, pensai, magari avrei potuto rivederla o comunque tenermi in contatto con lei. Avrei voluto sapere più cose sulla sua vita, avere delle spiegazioni dopo la frase che mi aveva detto in mattinata, capire perché stesse scappando. Non sapevo come fare, ma fu Francesca a trarmi d’impaccio, perché dopo il caffè mi raccontò tutto.
Conviveva da tre anni con un ragazzo di Brescia (lei era originaria di Rovato). A suo dire, le cose erano andate sempre molto bene tra loro. Lui lavorava in banca, lei aveva un lavoro sicuro. Poi, un anno prima, avevano deciso di sposarsi. Francesca affermò che aveva accettato con gioia questa cosa, perché amava quell’uomo. Si era aperto per lei un anno colmo di faccende, di progetti da elaborare e da realizzare.
Si sarebbero dovuti sposare tre giorni dopo il nostro incontro di quel momento. Ossia a ridosso del Natale. Io rimasi stupito di questa cosa, ma lei mi assicurò che non è rara come eventualità, anche perché sarebbero dovuti andare alla Seychelles in viaggio di nozze. Tuttavia Francesca aggiunse che, man mano che si avvicinava la data del matrimonio e che la frenesia dei preparativi si acuiva, qualcosa in lei aveva cominciato a spezzarsi. Disse che non si trattava della classica paura che coglie le persone di fronte a eventi rilevanti per la propria vita. Perché quell’agitazione è umana, la si sopporta bene e anzi serve a creare maggiore concentrazione per quello che dovrà succedere. No, lei avvertiva dentro di sé un’inquietudine solida, un groppo alla gola quasi continuo, e non si spiegava il motivo. Lei e il suo compagno avevano iniziato a litigare per cose da nulla, e più lui si mostrava comprensivo, più lei trovava occasioni per questionare. Insomma, confessò Francesca, era cominciato una specie d’inferno quotidiano. Mi raccontò di diverse notti passate tra le lacrime e della decisione, presa solo il giorno prima del nostro incontro, di “fuggire”. O meglio, di rifugiarsi dalla zia di Sarzana, la sorella della madre, con la quale c’era uno speciale rapporto di confidenza fin dall’infanzia. Quella mattina aveva fatto finta di andare al lavoro, poi era salita sul treno e adesso si trovava lì con me… Le chiesi se non stesse in pena per sua mamma che era all’oscuro di tutto, ma mi assicurò di averla chiamata in precedenza, quando era stata in bagno, per spiegarle la cosa.
Questa facilità nel confessarsi, questa improvvisa loquacità di Francesca mi stupì molto, anche se avvertivo che tra me e lei esisteva ormai un’affinità. Lei si fidava spontaneamente, ma io pensavo che probabilmente non ci saremmo più rivisti e la cosa mi dispiaceva.
Verso le quattro del pomeriggio tornammo in stazione, perché ci era venuta la strana idea che il treno fosse ripartito senza di noi. Ma sapevamo che era impossibile, dato che in pizzeria avevamo incontrato altri viaggiatori. Faceva freddo, nevicava ancora e il giorno declinava. Fornovo rimaneva spettrale sotto quella nevicata che non finiva più, anche se il gestore del bar della stazione e della pizzeria di fronte si fregavano le mani per gli affari che avevano fatto.
Quando entrammo di nuovo nella stazione, dissi a Francesca di aspettarmi nell’atrio: io sarei andato a informarmi, dato che avevo scorto un capannello attorno ai ferrovieri. Ricordo che mi colse un’angoscia improvvisa quando varcai la porta d’entrata della stazione, appena scorsi quell’ambiente così tetro. Francesca si sedette su una panchina. Stava calando l’oscurità e l’ambiente della stazione, già di per sé cupo, assumeva, in quel crepuscolo dai colori anestetizzati dalla neve, un’atmosfera sepolcrale.
La situazione, secondo i funzionari delle ferrovie, non era risolvibile entro sera. La linea sarebbe stata ripristinata non prima delle due di notte, sempre che la nevicata si fosse calmata. I cavi dell’alta tensione erano caduti per il peso della neve e del ghiaccio. Era inutile tenere i viaggiatori in attesa, sarebbe stato meglio ripartire l’indomani mattina. La soluzione era una sola: le ferrovie avevano chiesto a due alberghi che si trovava nelle vicinanze della stazione se poteva ospitare le duecento persone presenti sul treno. Le camere erano libere e dunque sarebbe stato opportuno farsi assegnare una camera, rifocillarsi, mangiare un pasto caldo e andare a dormire presto. Naturalmente le ferrovie avrebbero pagato il pernottamento, non la cena. Molti protestarono, alcuni presero a male parole i ferrovieri, i quali non poterono far altro che allargare le braccia sconsolati. Mi allontanai per comunicare la notizia a Francesca.
Mi fermai però quasi subito. L’atrio era sempre più buio. Francesca sedeva lontana, con le mani nella giacca a vento e lo sguardo, mi pareva, perduto nel vuoto. Ebbi per un istante l’idea di vedere un film americano, come quelli in cui i passeggeri di un aereo naufragano sulle Ande o non so dove e riescono a sopravvivere dopo giorni di sofferenza, mangiando i cadaveri dei passeggeri morti durante l’incidente. Certo, la nostra situazione era migliore, però ogni cosa stava assumendo, quel giorno, un’aria inconsueta, singolare. Anche l’incontro con quella ragazza, così attraente e così strana (o dovrei dire ambigua?), mi pareva surreale. Di nuovo ebbi un piccolo sussulto d’ansia, senza capire il perché.
Quando la raggiunsi, raccontai tutto a Francesca. Lei non rispose quasi nulla, limitandosi a mostrarmi un sorriso stanco, che mi parve un segno di prostrazione psichica e fisica unito a una specie di strano sollievo. Non so perché ebbi quest’impressione tanto netta, ma mi sembrò il sorriso di chi vede realizzarsi un’aspirazione inconfessata, desiderata e temuta al tempo stesso. Un’altra cosa che mi sorprese fu la remissività del suo atteggiarsi: Francesca rimaneva sulla panchina, come se non le avessero appena detto che avrebbe dovuto passare la notte in una cittadina dell’Appennino, in mezzo a una fitta nevicata, con gente che non conosceva. Ma non volli chiedere alla ragazza il motivo di quell'atteggiamento: avevo fretta, così la guardai solo per un istante, perché mi premeva recarmi in biglietteria dove avevo sentito che si stavano assegnando le camere. Non vedevo l’ora di una doccia calda e di stendermi sul letto.
C’era una lunga fila di fronte alla biglietteria. Molta confusione, concitazione, irritazione nei passeggeri. Le fronti dei controllori e del personale delle ferrovie erano madide. E corrucciate. Alla fine, quando toccò a me, erano rimaste due stanze singole e una doppia. Ebbi la tentazione di chiedere la doppia in modo da stare con Francesca e spiegarle poi che, per una sfortunata serie di circostanze, era stata l’ultima camera disponibile e io ero stato praticamente costretto a prenderla. Ma non lo feci. Tuttavia, mi andò “bene” lo stesso: ci diedero due singole attigue. Più tardi, tornando verso Francesca, un forte desiderio di lei, la voglia di trasgressione e una sensazione di indifferenza verso Marta, si impadronirono di me. La situazione mi rendeva eccitato e curioso. Comunicai a Francesca l’esito dell’assegnazione delle camere, la vicinanza delle nostre stanze, e lei si illuminò di un sorriso che mi fece battere il cuore. I suoi occhi, che apparivano più larghi e dolci in quel momento di contentezza, mi parvero bellissimi, mentre mi resi definitivamente conto che avrei voluto passare con la notte con lei.
La camera d’albergo era dignitosa: un letto matrimoniale (la famosa “doppia uso singolo”), un tavolinetto di legno, un comodino in fòrmica, l’armadio, la televisione in alto, di fronte al letto. Un bagno ampio e accogliente. Per arrivare all’hotel ci volle un po’ di tempo perché, nell’oscurità illuminata da esili lampioni coronati di piccole stalattiti, la neve aveva ripreso a cadere con violenza, accompagnata da un vento gelido che tagliava la pelle e ci faceva sussultare di freddo. Mentre camminavamo, Francesca, per non scivolare, si appese due volte al mio braccio. Quando lo fece per la terza volta, non glielo lasciai più e lei mi parve contenta di quel supporto. Il contatto con il suo giaccone mi rese ancor più desideroso di lei, mentre Marta mi appariva una presenza lontana, sfumata, che mi aspettava, ignara del mio tradimento sognato, lì nella piovosa Pisa
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