domenica 14 marzo 2010
Il treno nella tormenta - puntata 3
Qui la prima puntata e qui la seconda.
RIASSUNTO: un treno viene bloccato dalla neve sull'Appennino parmense, a Fornovo Val di Taro. Sul treno un ragazzo (Andrea) conosce una ragazza (Francesca); i due cominciano a conoscersi, mentre i viaggiatori del treno si rifugiano al bar della stazione per scaldarsi. A un certo punto Francesca rivela che sta scappando dalla sua vita, dal suo uomo.
Questa confessione scatena alcune fantasie in Andrea che, sebbene già fidanzato, comincia a pensare a un'avventura con quella singolare ragazza. L'atmosfera diviene ancor più misteriosa e conturbante allorché la direzione delle ferrovie consiglia ai passeggeri di pernottare in un albergo del paese. Andrea e Francesca prendono due camere singole contigue.
Appena entrato nella camera, mi stesi sul letto qualche minuto, affondando nel materasso un po’ troppo morbido. L’odore solito delle lenzuola d’albergo mi avvolse. Avvertii subito un benefico tepore: ero stanchissimo, sul punto di addormentarmi. Ma erano solo le cinque e mezza e alle sette, ci avevano detto, sarebbe stata servita la cena, non un minuto più tardi. La direzione dell’albergo, infatti, visto l’eccezionale afflusso di ospiti, era costretta a chiedere la massima puntualità per questioni organizzative.
Per evitare di assopirmi, accesi la televisione, ma prima litigai qualche minuto con i cuscini, perché le TV degli alberghi paiono fatte apposta per essere guardate soltanto se si è sdraiati sul letto. Qualsiasi altra posizione rende impossibile adocchiare il televisore. Alla fine comunque lasciai perdere. Mi avviai verso il bagno, ma prima dovetti rispondere al telefono: era Marta che voleva avere notizie sulla situazione, perché aveva letto su internet del treno bloccato. Come al solito, i media avevano cominciato a sparare scempiaggini, alimentando l’allarmismo solo per avere più audience. Io tranquillizzai Marta, cercando di essere affettuoso e rassicurante. Mentre parlavamo, riconobbi lo scroscio della doccia della stanza a fianco, quella di Francesca, e un brivido di eccitazione mi attraversò il corpo. Salutai Marta, avvertendo subito dopo il senso di colpa che mi saliva lungo la schiena, mi accarezzava le spalle, mi solleticava il petto.
Naturalmente cenai con Francesca nella grande sala dell’albergo. Gli altri passeggeri sembravano più quieti, o forse rassegnati, ora che si stavano rifocillando. Anche Francesca mi apparve più distesa e calma. Ne fui felice. Eppure io ero sempre meno tranquillo, in preda a un’agitazione che non dominavo e che non capivo. O che fingevo di non capire. In realtà c’era un motivo chiaro. Non sapevo che fare per “conquistare” Francesca, perché avevo deciso che quella notte sarebbe dovuto succedere qualcosa tra di noi. Mi sembrava un destino quella nevicata eccezionale, quella sosta forzata, quell’intimità “obbligata”. Ho sempre avuto una predilezione particolare verso quelle storie che narrano di incontro di una sola notte, di amori intensi e brevissimi. Quella sera ero euforico, eccitato, ma anche incapace di elaborare una strategia per fare mia quella ragazza così strana, in fuga da un possibile matrimonio. Non ero ancora del tutto certo della verità di quello che mi aveva raccontato, però non me ne importava molto. Durante la cena Francesca, più ciarliera, mi mostrò più volte un sorriso fanciullesco, che si disegnava con dolcezza sulla sua bocca piccola dalle labbra tanto rosse. Quel sorriso appena accennato mi aveva ormai definitivamente conquistato.
Finimmo di mangiare e ordinammo, prima del caffè, un sorbetto al limone. Era una vera schifezza, ma non me ne accorsi, perché in quel momento praticamente bevevo le parole di Francesca, e non m’interessavo a nulla d’altro. La ragazza diceva:
«Sai, posso apparire una matta, perché Alfredo, a guardarlo dall’esterno, è proprio un tesoro, ha tante caratteristiche che adoro e che mi piacciono. Perché l’ho scelto, mi chiedi? Bella domanda, ma non so rispondere. Io penso che giustificare i sentimenti sia impossibile, perché non hanno quasi mai una logica, se non quella del cuore… ».
Sentire quelle frasi da fiction italiana moderna mi depresse un po’. Odiavo le frasi celebri dei baci Perugina: per un attimo Francesca mi parve una ragazza un po’ scontata. Ma continuava a muovere con delicatezza quelle sue labbra rosee che avrei baciato all’istante. E poi quel suo viso, lievemente soffuso di un colore roseo, mi pareva ancora più delicato. Per cui stetti ad ascoltarla senza dire nulla, anche se tra me e me pensavo a come agire per poterla avere, almeno per una notte.
«Comunque so che sto facendo una grande scemenza… E che prima o poi dovrò affrontare la realtà, tornare nel mio ambiente, rivedere Alfredo, spiegargli tutto. So quanto possa stare male per la mia assenza e quanto dolore gli abbia dato. Non s’aspettava questo gesto. Ma io piangevo quasi tutte le notti, e più Alfredo era gentile, comprensivo, più mi veniva da piangere. La decisione di sposarlo è nata in me senza pensarci, solo perché mi sembrava di fare la cosa giusta, di sposare la persona adatta. Per mesi tutti mi hanno fatto i complimenti per la scelta, incoraggiandomi, dicendomi che ero fortunata, che avevo l’opportunità di vivere con una persona di valore e così via. Mia madre, quando ha saputo delle nozze, ha pianto per dieci minuti. Si vedeva che non aspettava altro. E io, arrivata a trent’anni, mi sono sentita, come dire, quasi obbligata a farlo. Convivevamo da tre anni, come ti ho detto e, sai, a volte giunge un momento in cui la convivenza, come dire, non basta più. Non è una questione morale, perché non me ne frega niente. È una questione di direzione della vita, di progetto da abbracciare assieme. Almeno, questi sono i pensieri che ho fatto l’anno scorso, guardando al mio futuro. Allora abbiamo deciso il matrimonio. Ma solo in questi ultimi tempi mi sono accorta che ho fatto tutto con la testa, con la logica, ascoltando sempre e soltanto gli altri, mai me stessa, né il mio cuore. Mi ero lasciata guidare, perché non avevo mai rovistato nella mia anima. È come quando passiamo davanti ogni giorno agli stessi negozi e ormai non badiamo più a come sono fatti, a quale merce vendono. Poi una mattina, senza apparente motivo, ci accorgiamo invece di mille particolari che ci erano sfuggiti le altre centinaia di volte che eravamo passata da lì. A me è successo in questo modo: mi è bastato osservare con calma il mio animo, e scoprirmi indecisa, forse non innamorata di Alfredo».
Quell’immagine mi piacque. Avrei voluto approfondire l’argomento. Ma erano le dieci di sera, avevo sonno, eravamo nella hall dell’albergo, c’era un bel tepore e io mi ero alzato alle sei. La storia che Francesca mi aveva raccontato non era poi così rara, ma lei la riferiva bene, disegnando un sorriso lieve, appena accennato, sulle labbra, quasi un estremo atto di riservatezza. Ma ormai, benché ci conoscessimo ufficialmente da undici ore, molte barriere erano cadute tra di noi.
Eppure, nonostante i miei propositi di conquista e la mia brama di avventura a sfondo sessuale, del genere “bottarella”, la combinai grossa. Da qualche minuto, infatti, sentivo che mi stava assalendo una grande spossatezza. Cercai di resistere, ma ogni sforzo fu vano. Alla fine, non mi trattenni più, e comincia a sbadigliare… Francesca mi guardò indulgente, sorridendo in modo amabile. Ma ormai la diga era saltata: gli sbadigli mi salivano alla bocca uno dietro l’altro, facendomi lacrimare gli occhi. Ero arrabbiato con me stesso, perché capivo che in quel modo mandavo a Francesca segnali di un mio disinteresse. Lei mi apparve delusa: mi domandò scusa per aver parlato troppo, e dignitosamente volle salutarmi. Io protestai, assicurandole che non era vero, ma gli sbadigli salivano a pioggia sulla mia bocca, non c’era nulla da fare. Anzi, più opponevo resistenza, più essi si accanivano, come se il mio organismo non ce la facesse più e reclamasse il riposo. In effetti, avevo tanto sonno e lei lo aveva capito. Si alzò e mi diede la buonanotte. E io, a malincuore, salutai Francesca, abbracciandola su una poltrona della hall. L’abbraccio mi scosse, mi diede l’impressione di un corpo pronto a unirsi al mio. Ma non feci nulla, mi mancò il coraggio. La vidi allontanarsi piano, con la sensazione che se l’avessi rincorsa e le avessi toccato una spalla, molte cose sarebbero successe. Non lo feci.
Poco dopo mi diressi verso la mia stanza. Passai vicino alla porta della camera di Francesca, guardandola solo di sfuggita, quasi fosse qualcosa di sacro e di intangibile per me. Poi, spinto da una specie di impulso incontrollabile, sfiorai con le nocche il legno della porta. Non posso affermare che bussai, perché il tocco fu proprio lieve, accompagnato da un batticuore furioso e dal sudore alle mani. Infatti, Francesca non rispose. Interpretai il tutto come un segno del destino. Deluso e amareggiato, entrai in camera mia.
Credo di essermi addormentato all’istante. Non ricordo nemmeno se mi lavai i denti. Credo che m’infilai il pigiama come un automa, pieno di sonno e di scoramento per aver fatto quella figura davanti a Francesca. Sapevo che il giorno successivo saremmo ripartiti e che non l’avrei più rivista. Alla fine, mi dissi, sarebbe tornata sui suoi passi, sposandosi, e accontentandosi di vivere un’esistenza dignitosa ma un po’ spenta, forse. Poi caddi in un sonno pensante.
“Toc”.
Mi svegliai di soprassalto, con il cuore in gola. Sì, sembrava il rumore di qualcuno che bussa alla porta… Mezzo addormentato, tesi l’orecchio per sincerarmi se ci fosse effettivamente qualcuno che bussava o se fosse stata un’allucinazione. Nel frattempo, guardai l’orologio e vidi che era mezzanotte.
“Toc, toc”.
Qualcuno bussava alla porta. Ma chi? Mi dissi che mi sarei dovuto alzare. Il freddo della stanza mi fece rabbrividire. Una lieve angoscia mi avvolse, forse era la paura di uno sgradevole imprevisto.
«Chi è?», domandai con il cuore che ballava nel petto.
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