sabato 5 febbraio 2011

Atmosfere di fine impero ad Arcore: il potere e la prostituzione di intelletti e corpi




Ricordando, grazie alla rilettura del volume III della Storia della sessualità (Feltrinelli 1995, da cui cito) di Michel Foucault, i consigli che Seneca offre a chi, troppo ricco, rischia di perdere contatto con la realtà autentica, un sorriso non può non scappare. Non perché ci si voglia ergere a moralisti in un tempo, come quello d’oggi, che tende a dividere la moralità pubblica dall’etica privata, con l’effetto di annullare entrambe; né perché si voglia dire, in modo retorico e vuoto, che non ci sono più i tempi di una volta e nemmeno perché ci si voglia porre, da snob, come censori di debolezze umane che, proprio in quanto tali, possono essere di tutti noi, se non nella realtà, quantomeno nella fantasia.
Il discorso è più articolato e non è riassumibile in poche righe, ma qualche cenno si può fare. Mi piace ricordare come, per il filosofo romano, per curare la propria anima, sia necessario, stoicamente (avverbio filosofico), prepararsi alle privazioni eventuali. Questa è almeno l’interpretazione che Foucault dà delle parole di Seneca. La riflessione del filosofo antico concerne lo stretto legame che, nella filosofia ellenistica, veniva posto tra l’anima e il corpo. La pratica di sé, scrive Foucault, implica la consapevolezza che “le cattive abitudini dell’anima possono comportare delle miserie fisiche, mentre gli eccessi del corpo rivelano e alimentano i difetti dell’anima” (p. 60). Questa compenetrazione tra anima e corpo non sembra tanto coinvolgere una svalutazione dell’uno nei confronti dell’altro, quanto la necessità di una misura e di un equilibrio che renda entrambi funzionali. Non a caso, quando Foucault parlerà del modo in cui i medici antichi trattavano il momento della procreazione, ricorda che per molti autori “chi si propone di generare dei figli deve avere l’anima e il corpo nelle migliori condizioni possibili” (p. 128).
La difficoltà maggiore che incontra chi intenda prendersi cura di sé (secondo le parole di Epitteto l’essere umano è l’essere che è stato delegato alla cura di sé), non è quella rappresentata dalla caduta nel solipsismo o nel narcisismo, oppure in una solitudine astratta, quanto piuttosto quella di non riconoscere il male che ci perseguita, la malattia che ci rende dolenti. Perché l’anima soffre diversamente dal corpo e s’ammala in modo differente. Se il corpo, ci dice per esempio Plutarco, quando sta male spesso (ma non sempre) invia dei segnali espliciti, lo stesso non accade per l’anima sofferente. Come scrive Foucault: “Il fatto grave, nelle malattie dell’anima, è che passano inosservate o le si può addirittura prendere per virtù” (p. 61).
Nondimeno, una volta scovato il disagio, è bene tornare verso se stessi, anzi, convertirsi a se stessi, in modo da poter guarire da mali che potrebbero essere superati se l’uomo riconoscesse la propria autonomia e autosufficienza. Seneca scrive nelle Lettere a Lucilio: “L’animo si è liberato da tutto ciò che è fuori di lui e si difende nella sua rocca. Sta in una posizione inaccessibile: nessuno strale può raggiungerlo. La fortuna non ha le lunghe braccia che gli uomini le attribuiscono; non afferra se non chi si attacca a lei. Perciò, per quanto possiamo, stiamone lontani”. Anni dopo Marco Aurelio sembra fare eco a Seneca: “Raccogliti in te stesso, dato che puoi, in qualunque momento tu voglia, ritrarti in te stesso. Perché in nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; soprattutto, se si hanno dentro di sé princìpi tali che, al solo contemplarli, si acquista una perfetta serenità”. Il sogno stoico, il desiderio di scoprire in sé il benessere, la tranquillità, per sfuggire a una realtà spesso orrenda, è un ideale in apparenza lontanissimo ma affascinante. Per questo è sbagliato deriderlo come irrealizzabile, perché esso indica una condizione dell’anima, futuribile, non qualcosa che, quotidianamente, è sperimentabile e raggiungibile.
Ma andiamo oltre. Cosa si può consigliare a chi vive negli agi, nelle raffinatezze e crede che l’essenza dell’esistenza consista nell’accumulare prelibatezze, onori, fama, conquiste amorose, solo grazie al denaro? Nessuna rinuncia, perché una persona ricca non è necessariamente disonesta, né un soggetto da invidiare. Sarebbe bene, tuttavia, rammentargli qual è il risvolto effimero di conquiste basate solo sui soldi, il carattere sovente falso di tante amicizie, di tante conquiste erotiche, di tante adulazioni, di tante genuflessioni. Seneca, per ammonire il ricco a non credersi onnipotente e a non pensare che la propria ricchezza sia al riparo da rovesci, propone degli stage di povertà, come scrive Foucault “da farsi tutti i mesi e durante i quali, mettendosi volontariamente per tre o quattro giorni ‘ai limiti della miseria’, si fa l’esperienza del pagliericcio, dell’indumento greggio, del pane d’infima qualità” (p. 63).
Seneca non propaganda l’astinenza, né la rivendicazione orgogliosa della propria perfezione e diversità; Foucault ricorda che, scrivendo di questi “stage” di povertà in una Roma pronta a gettarsi nella baldoria festante dei saturnali, Seneca afferma di voler fare “le stesse cose degli altri”, ma “in un altro modo”. È questa la frase chiave, che in apparenza vuol dire tutto o nulla ma che invece, se opportunamente interpretata da chi è in grado di instaurare un proficuo e onesto dialogo con se stesso, diventa la chiave di volta di un’interpretazione nuova del vivere. Ecco che allora Seneca può chiosare il suo discorso asserendo che chi si sia reso capace di staccarsi, ogni tanto, dall’abbondanza e dal lusso, senza cadere in pratiche ascetiche ma rigenerandosi all’ombra di se stesso, potrà essere meno infelice degli altri e “da ricchi, ci si sentirà più tranquilli sapendo quanto poco penoso sia l’essere poveri”.
Non se sia poi così vero che gli antichi possano insegnarci qualcosa; né se siamo così bravi, noi, a salire sulle loro spalle, partendo dal presupposto che loro erano giganti e noi nani, ma più scaltri di loro, e, dunque, in grado di sfruttarli per vedere più lontano di quanto avessero visto. Seneca visse la follia di Nerone, il delirio di onnipotenza di un uomo che, secondo le cronache, avrebbe perduto del tutto qualsiasi senso della misura, in un modo talmente repentino da far pensare a una forma di paranoia.
Noi, oggi, assistiamo ugualmente al delirio di onnipotenza di un signore che, però, è stato eletto ed è stato legittimato dalla democrazia italiana. Se Nerone chiese a Seneca, diventato un ostacolo per lui, di uccidersi per non costringerlo a compiere quello che sarebbe stato una sorta di parricidio, vista l’importanza del filosofo per la formazione dell’imperatore, lo stesso sacrificio, oggi, il padrone d’Italia chiede ai suoi amichetti. Chiede loro di uccidere le proprie coscienze, le proprie idee, perché il potere è sovrasta ogni cosa e non ammette ammutinamenti, distacchi, allontanamenti. Chi si allontana, chi ci ripensa, è un reprobo da insultare. Lo sfruttamento della prostituzione, se mai c’è stato, non riguarda solo le ragazze o ragazzine sculettanti nel boudoir di fine impero arcorese, ma è un fenomeno che ha inizio nel 1994 (o forse prima) e riguarda la compravendita di coscienze e di pensiero che Berlusconi ha posto in essere e sul quale ha fondato la propria carriera politica. Chissà se Seneca avrà ragione alla fine: “Hai esercitato i più alti mandati […] Il giorno in cui ebbe il senato ai suoi piedi, il popolo lo fece a pezzi. Di questo privilegiato che gli dei e gli uomini avevano colmato di tutti i favori, non restò che un brandello per il gancio di un boia”. Naturalmente, è un auspicio solo metaforico.

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