lunedì 5 agosto 2013

AMIRAL BRAGUETON: POESIE DI PAOLA SILVIA DOLCI




Tra le poesie di Paola Silvia Dolci raccolte nella silloge Amiral Bragueton, italic, Ancona 2013, è rischioso addentrarsi perché ci sono riferimenti colti che possono sfuggire. Eppure, se si abbassano le proprie pretese e ci si attacca al testo, l’appagamento è alto ugualmente. Durante la lettura, mi sono venute in mente diverse cose. Ma vorrei citare solo pochi versi, rapsodicamente, per offrire un breve lampo della maestria dell’autrice. A volte ella maschera con un ermetismo superficiale qualcosa che sembra ugualmente, e realisticamente, urlare il proprio dolore, senza veli:

XV. San Valentino 2011
Tra i morti in omaggio all’alcol
Mentre dormo mi accartoccio come una foglia
un vitellino, faccio l’acrobata frantumo i polsi
La notte sta nella mia schiena.

ii.
Ipotesi di bambina, ricomincia l’infanzia da capo;
un vecchio
non riesce più a vedere le stelle
ipotesi di bambina, ramifica e fiorisce.

-… e quando finiscono i gelati sono triste, soprattutto di notte.

Il verso finale è ironicamente amaro, come una linguaccia di una bambina che ha appena pianto e poi ride.
L’autrice viaggia molto, d’estate ama veleggiare, solca i mari, d’inverno non si sa. Tuttavia quando, in calce a un componimento, inserisce il luogo e la data, i piedi per terra sono più saldi. In quest’atmosfera lussureggiante di versi, di cammei, di gioielli colti, qualche volta uno spiraglio di intenso lirismo domestico balugina, come quando si legge questa poesia scritta a Desenzano del Garda:

XI. La mia passeggiata aveva le foglie nel cappotto.
La mia passeggiata aveva le foglie nel cappotto.
Novembre è penetrato dal lago e non parla,
un’immobilità amorosa e funebre.

Else: non stringere, molla.
Ricarica e spara.

Altre volte traspare dai versi la sofferenza. Sì, va di moda affermare che il poeta è tale solo perché soffre e così via. Sarà un luogo comune, non so. Il poeta soffre come gli altri; solo che, se è poeta, conferisce a questa sofferenza una forma ben delineata che non cade né nel lamento senza speranza, né nello sterile godimento per il proprio dolore.
Non conosco l’autrice dunque nulla ne so, ma le sue pagine sembrano raccontare che il pudore che il dolore dà al sofferente può essere temperato dai versi, trasfigurato da una poesia che nasce dal viaggio come inutile fuga, forse, verso un altrove utopico che è agognato proprio perché, titanicamente, è irraggiungibile. L’amore è solo questo, o è pure questo?

IV. Punta Ala. 18 marzo 2012.
Il porto era un vecchio film
E la barca un libro;
ovunque i tuoi regali
vetri che ferivano le bambine.

Oggi muoio e il mio amante
Mi depone le uova dentro.

È difficile comprendere i poeti. Infatti io non lo faccio. Anche perché questa poetessa ha le sue esperienze, vive e ricche, immagino, ma solo sue. Tutto il libro sembra raccontare questo al lettore: leggimi, sì, però io rimango io e tu… be’, un’altra persona, qualunque sia. Il tema del viaggio è allora individuale ed è una fortuna che sia così, perché l’autrice non vuole insegnare nulla, né ergersi a universale esempio di versificazione o di contenuti. Ma forse avvicinarsi a lei si può:

XI. Pallore gettato a distesa
[…]
ii
Voi che non avete mai dormito su una nave,
chiedetevi cosa fareste al mattino
se aprendo al finestra
non vedeste intorno
altro che mare.

Allora, terminato questo brano, subito penso a Coleridge, a T. S. Eliot, a J. Conrad (ma lei lo avrà fatto? Speriamo), e dico “no”, non è poi così lontana, qualche cosa di lei veleggia anche in chi la legge e cerca di seguirle i suoi versi sciolti.
Leggere i poeti significa forse entrare da spioni in un mondo di vanitosi. O forse non significa niente, ma solo sfogliare pagine e pagine. E allora Paola Silvia è solo se stessa, con il suo dolore, la sua gioia, i suoi bubù (in Brasile, in Lombardia, a Mosca, in mare):

Queste lettere sono l’evidente indizio di un’altra cosa.
Esistono tante scritture quanti corpi,
e questo è il mio, amore mio.

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