La ferocia dell’infanzia non ha limiti, né di tempo né di forme. È
questo forse il messaggio più dirompente del libro di Piergiorgio Paterlini, Bambinate, edito da Einaudi nel 2017. Un
libro breve, asciutto, un libro che scava nei ricordi di una classe di bambini
negli anni ’60, e di adulti che, più di cinquant’anni dopo, si ritrovano per
una cena di classe. Il protagonista è fuggito dal piccolo paese della bassa
emiliana (quello di don Camillo e Peppone), ed è cresciuto poi altrove, in
America, s’è sposato laggiù, ha avuto due figli.
L’occasione per ritrovarsi è allegra in apparenza. I compagni della
quinta elementare del 1965 si ritrovano, nel 2015, per “festeggiare” il tempo
trascorso. Il protagonista, benché viva in America, decide di tornare in Italia
perché avverte dentro di sé che è giunto il momento di chiudere una faccenda,
di affrontare finalmente l’orrore a cui ha assistito un Venerdì Santo del 1965.
In un primo tempo non bada alla e-mail che lo invita alla cena. Poi invece si
rende conto che non può più rinviare l’appuntamento con la propria infanzia: “erano
affiorati i ricordi che credevo di avere sepolto davvero una volta per tutte.
Quella ‘cosa’ era esplosa con una violenza che mi aveva sorpreso, spaventato e
infine fatto partire”.
Ma cos’è accaduto cinquant’anni prima? Cose da ragazzi, si direbbe,
una goliardata, uno di quei fatti di violenza infantile che solitamente vengono
relegati nel cassetto delle “bambinate”, come recita il titolo del libro. Uno
scherzo, pesante, perpetrato cinquant’anni prima, può davvero meritare, dopo
tanto tempo, una così viva attenzione? Secondo il protagonista sì, altrimenti
non avrebbe fatto quel viaggio. Tornando al paese incontra quasi tutti i vecchi
compagni, a parte quelli che sono morti: l’autore, descrivendo questi incontri,
non indugia sulla retorica da grande freddo delle triste rimpatriate di
attempati ex compagni di scuola. La scrittura infatti procede rapida, diretta,
quasi fredda, asciutta, come se egli non potesse perdere tempo e volesse
arrivare direttamente allo scioglimento dell’azione. Lui non può dimenticare,
ma soprattutto non vuole che siano gli altri a farlo.
La cena scorre via senza sussulti, tra noia, rievocazioni pudiche, prudenti,
ricordi che ognuno interpreta a suo modo: “I ricordi non collimano, e questo
ognuno lo sa. Non solo non sono identici anche se sono stati vissuti insieme,
ma lo stesso episodio è avvenuto prima o dopo quel tale fatto, in quel contesto
no in quell’altro…”. Ma la “cosa” non viene rievocata da nessuno, il fatto
efferato, la dimostrazione di quanto i bambini sappiano essere amorali e
cattivi, spietati. Nessuno ricorda “Semo”, ossia Denis, l’oggetto, nel 1965, di
scherzi feroci, perché era il più povero, perché balbettava, perché era vestito
male, perché era frocio, forse.
Il protagonista, quel pomeriggio, c’era, e si sente più colpevole
degli altri che hanno umiliato e seviziato Denis, con gesti, parole, sputi. Lui
si sente più colpevole di loro perché era presente ma non ha difeso il debole:
ha lasciato fare. Non ha agito direttamente, assistendo in silenzio
all’ordalia. Ecco perché è tornato: per recuperare se stesso, per emendarsi,
perché una cosa simile è accaduta a suo figlio Thomas quando questi andava a
scuola, scatenano nel protagonista depressione, crisi di panico, disperazione,
terribile senso di colpa: “Sognavo bambini. Bambini a scuola, con i grembiulini
neri, il colletto bianco e il calamaio infilato in un buco nel banco di legno …
Io ero il capo. Semo, ehi Semo, vieni qua, dicevo a Denis che aveva la faccia e
la voce di Thomas, prendi questo con la bocca, e lanciavo in aria una pallina
di carta…”.
Nel 2015 Denis balbetta ancora, vive in nella Casa di carità, isolato
dal mondo. È invecchiato senza accorgersene. Sta seduto su una panchina e non
parla mai con nessuno. L’autore invece dialoga con lui. Denis lo riconosce. Denis
risponde alle sue domande, si ricorda tutto, ma non porta rancore verso i
ragazzi che lo seviziarono. Nemmeno lui vuole pensarci. Ha rimosso il dolore,
l’ha nascosto, e questo dolore si è insinuato nella sua mente, alienandola, occludendo
il pensiero, cancellando qualsiasi possibilità di vivere. Non bisogna pensarci,
dice Denis: “Io ho dimenticato… Dovresti farlo anche tu. Adesso è ora”.
È proprio questa risposta, forse, che induce il protagonista a capire
che nessun altro può vendicare Denis, se non lui. Perché lui non è venuto
dall’America per niente. Quella ferocia infantile non è stata una scherzo. Ha
rovinato la vita a un ragazzo che non aveva nessuna colpa, se non quella di
essere per tanti aspetti diverso da… da chissà che cosa. Solo la vendetta, che
dovrà colpire Ermes, il responsabile dell’assalto del branco nel 1965, il capo
della banda, può essere una soluzione. Alla ferocia infantile, che non ha
ragioni né valori, si risponde, sembra suggerire l’autore, con la stessa
ferocia e la medesima amoralità.
Naturalmente Ermes non si sente in colpa per quello che è accaduto
cinquant’anni prima. Si trattava di uno scherzo, di un modo per vincere la
noia, passare il tempo. Anche lui si è assolto; anzi, non ha nemmeno messo in
discussione il proprio comportamento. Addirittura Ermes afferma di rimpiangere
quegli anni: “Noi, ecco, a Denis gli dicevamo le cose in faccia, quando lui non
c’era nessuno lo nominava, eravamo candidi, ingenui, innocenti come solo dei
bambini possono esserlo. Rimpiango quegli anni, come li rimpiangono tutti.
Magari si potesse tornare indietro”.
Ermes è sincero, crede davvero di aver vissuto degli anni
indimenticabili e che quello che venne fatto a Denis fosse qualcosa di candido,
cose che fanno i bambini. Le bambinate appunto. Ermes è sincero, dunque,
certamente, ma, dice l’autore, “è solo disperatamente cieco. Come tutti. Ma
questo non lo assolve. Anzi”.
L’incapacità di rendersi conto del male compiuto non attenua la colpa;
al contrario, la rende ancora più grave, poiché tale incapacità è il segno dell’essere
incapaci di comprendere il senso delle proprie azioni, e di rendersi conto che
l’infanzia è il momento della vita in cui gli avvenimento spesso s’imprimono
nella mente in modo indelebile, anche se il bambino al momento non se ne
accorge. Ermes e gli altri (compreso il protagonista) non sono solo colpevoli per
quegli atti di umiliazione contro Denis, ma soprattutto per non aver compreso
che stavano soffocando una pianta che aveva appena cominciato a crescere e che
non aveva bisogno del tanto sbandierato “amore”, ma semplicemente di essere
compreso e accettato.
Il protagonista sente su di sé questa colpa terribile: la colpa di
essere stato impotente quando Denis veniva umiliato; la colpa di essere stato
impotente quando una cosa simile accadeva a suo figlio Thomas; la colpa di aver
voluto dimenticare per anni quel Venerdì Santo del 1965. La vendetta diverrà
allora un modo, barbaro, irrazionale e ancestrale, per rimettere a posto le
cose e per dimostrare che la ferocia dell’infanzia non è una bambinata, ma un
coltello che continua, per decenni, ad affilarsi mentre affonda nelle carni dei
ricordi, avvelenando la vita di chi non ha saputo opporsi a tale ferocia: “Li
avevo lasciati colpire. Ero stato a guardare. Me n’ero lavato le mani. Ma cosa
potevo fare? Io da solo. E comunque dentro di me avevo odiato la loro ferocia e
provato pena per Denis. Non si poteva dire fossi stato veramente complice./Eppure
ero sconvolto e prima che me ne accorga sento le lacrime rigarmi il viso. E questo
mi frastorna ancora di più”.
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