Il libro di Roberto Vannacci è a metà strada tra un pamphlet/saggio e un manifesto politico e affronta molti temi: ambiente, economia, famiglia, patria, casa, “pianeta” (come lo chiama lui) LGBT e animalismo. Perché questo titolo? “Il Mondo al contrario vuole […] provocatoriamente rappresentare lo stato d’animo di tutti quelli che, come me, percepiscono negli accadimenti di tutti i giorni una dissonante e fastidiosa tendenza generale che si discosta ampiamente da quello che percepiamo come sentire comune, come logica e razionalità” (p. III dell’introduzione). L’autore esprime un pensiero conservatore, molto legato alla necessità del rispetto delle tradizioni e della legge, che non appare perciò perfettamente adattabile a una destra italiana che negli ultimi anni, e in maniera paradossale, ha espresso una certa allergia alle regole: si pensi al caso della vaccinazione obbligatoria sul Covid, osteggiata da molte persone che si dichiaravano di destra.
A proposito del titolo,
sorge spontanea una domanda più generale: come mai, con la destra saldamente al
governo, molte persone che aderiscono a questo universo politico si sentono
ancora minoranza? Perché, pur avendo in mano la RAI (oltre a Mediaset), queste
persone protestano contro un preteso “pensiero unico” o una ideologia
“mainstream” che li escluderebbe dal dibattito politico o, peggio, li
demonizzerebbe? Perché essi pensano che, nonostante il governo Meloni e i tanti
anni di berlusconismo, l’establishment di questo paese sia ancora in
mano a una cultura che, se non è più definibile di sinistra, veicolerebbe
un’ideologia che esclude qualsiasi dissenso a una narrazione della storia e del
reale affermata come l’unica verità. Essi pensano che sui temi storici (per
esempio sul rapporto tra fascismo e Resistenza) ed etici ci sia un pensiero
maggioritario che impedisce qualsiasi diversa interpretazione, non accettandola
come legittima, bensì demonizzandola. Questa idea, che Vannacci nel suo libro
esprime in modo un po’ raffazzonato, è invece ben definita da Marcello
Veneziani che su “La verità” del 23-9-2023 scrive: “Un diverso ascolto, una
diversa apertura verso chi ha opinioni contrarie gioverebbe non solo alla
società, svelenirebbe il clima ma riuscirebbe anche a sgonfiare il potenziale
di rabbia che poi monta davanti al disprezzo altrui e alla richiesta permanente
di censura verso chi dissente. Lo dicevo già anni fa: se volete smontare le
post-verità mettete da parte le pre-falsità, ovvero i pregiudizi falsi
prefabbricati a senso unico che spacciate sui temi storici, civili, culturali e
sociali.”
Questa premessa
è indispensabile per comprendere il successo del libro di Vannacci, il quale,
probabilmente in maniera inconsapevole, intercetta un pensiero di destra che,
dopo decenni di anticamera, vorrebbe entrare nelle stanze del
potere, ma che pensa di non poterlo fare a causa di un potere che sarebbe al di
sopra della lotta politica e risponderebbe a logiche europeiste e
transnazionali asservite all’economia e a un’ideologia progressista che
vorrebbe mutare consuetudini vecchie di secoli.
Per tornare al
libro, ecco alcuni caratteri che mi sembrano tipici delle sue argomentazioni.
Semplificazione
e banalizzazione
L’autore analizza con un
apparente imparzialità e a volte con blanda acutezza talune questioni (a parte
quando parla dei gay); poi, una volta esposto il problema, al momento di
proporre le soluzioni e di denunciarne le cause, sbraca totalmente e perde la
testa: il vizio di semplificare porta l’autore a banalizzare e talvolta a
brutalizzare le questioni affrontate. Il furore ideologico e il fastidio verso
tutto ciò che è diverso da lui lo conduce a mandare in vacca qualsiasi
argomento, proponendo soluzioni facili che, naturalmente, avrebbero l’unico
effetto di non risolvere il problema, anzi di acuirlo. Per esempio, a
proposito dei gay, Vannacci afferma di opporsi al DDL Zan perché non ritiene le
offese a una persona in virtù del suo orientamento sessuale più gravi di quelle
a lei indirizzate per la squadra di calcio di cui la è tifosa o per il lavoro
che svolge. Come al solito, semplifica e banalizza: “Gridare ‘gay di merda’ è altrettanto odioso
e discriminatorio che gridare “interista di merda”, “operaio di merda”, ‘uomo
di merda’, ‘poliziotto di merda’, ‘professore di merda’. Molti sedicenti
giuristi sostengono che il delitto d’odio nei confronti di una certa categoria
di persone deve essere considerato più grave perché chi lo commette ottiene
l’effetto che tutte le persone appartenenti alla minoranza individuata (i neri,
le donne, i mussulmani, gli omosessuali o i transessuali) si sentano minacciati
e vivano, per questo, in uno stato di perenne paura e sottomissione. Ma proprio
secondo lo spirito dei crimini contro l’eguaglianza, anche le categorie degli
interisti, degli operai, degli uomini, dei poliziotti o dei professori”
(pp. 282-283). Insomma, Vannacci paragona un gay a un tifoso di una squadra di
calcio e sostiene che offendere una persona per la sua fede calcistica, che è
qualcosa di esteriore e superfluo, equivale a offenderlo per il suo
orientamento sessuale, che è invece una pulsione intimamente connessa con la
propria interiorità.
Lo stesso meccanismo di
esagerazione e falsificazione della realtà e di assolutizzazione di un fatto
occasionale, si trova in questa frase: “Basta accendere una TV per vedere
una pletora di commentatori, conduttori e opinionisti dichiaratamente queer che
si alternano incessantemente sul tubo catodico quasi come se l’appartenenza ad
una categoria di persone che esprimono esplicitamente una preferenza sessuale
minoritaria dovesse favorire gli ascolti. Ormai sono moltissime le serie
televisive, gli spot, i video o i clip dove prolificano baci saffici e che
vedono quali protagonisti lesbiche e gay, famiglie omosessuali o coppie dello
stesso sesso che conducono vite da bourgeois bohème in una delle nostre
metropoli alla moda” (p. 246). Ora, quale TV vede Vannacci? Sulla RAI,
normalizzata dalla destra al governo, quali sarebbero i conduttori queer? Per quanto
riguarda le serie televisive, si tratta di iniziative di privati che vengono
viste da chi sceglie di fare un abbonamento. Se al generale danno fastidio, non
faccia l’abbonamento e non le guardi. Vannacci presenta ai suoi lettori un fatto non
verificabile spacciandolo per verità assoluta (quanti conduttori queer ci sono e quante e quali sono le trasmissioni che
esaltano l’omosessualità? Sono davvero così tante?)
per giungere alla conclusione che la società italiana è invasa da sostenitori
dell’ideologia gender.
Ossessione verso la sinistra
Per ogni
questione, l’autore individua come colpevole politico la sinistra (suo costante obiettivo polemico),
giudicata, secondo il solito luogo comune, popolata da intellettuali verbosi e
fighetti. Mentre il colpevole sociale
di quasi tutti i problemi è la mescolanza tra i popoli. Per
esempio, parlando delle occupazioni abusive, un fenomeno senza dubbio odioso, l’autore se la prende solo con la sinistra e con il sindaco di Roma, Gualtieri, che
guarda caso è del PD, e non cita mai, per esempio, le occupazioni di Casa
Pound, l’organizzazione politica di destra, né cita sindaci di città governate
dalla destra: “Tra questi soggetti, abituati al doppiopesismo caro a molte
frange progressiste, sembrerebbe rientrare pienamente il sindaco di Roma
Roberto Gualtieri e la sua giunta che, non solo chiudono gli occhi, ma
concedono pacificamente la residenza a chi occupa abusivamente uno stabile o
vive senza titolo in un alloggio popolare”, scrive a p. 176. Altro esempio: nel capitolo sugli omosessuali,
l’autore, presentando alcuni rari casi di immigrati che si sono dichiarati
“gay” per non essere rimpatriati, riesce ancora a incolpare anche in questo
caso i migranti e la sinistra, nella persona del sindaco di Roma Gualtieri che
avrebbe concesso dei privilegi agli immigrati LGBT (p. 261). Non c’è niente da
fare: per Vannacci, in un modo o nell’altro, tutti i guai della nostra epoca
sono sempre e comunque imputabili agli immigrati e alla sinistra. Egli, in
questo modo, crea un bersaglio
polemico contro cui sfogare il proprio risentimento e la propria frustrazione
di vivere in un mondo che non è più quello di Vannacci family, dell’infanzia di
Vannacci e degli ideali di Vannacci.
La sinistra è anche colpevole di gettare discredito sul concetto di
“patria”, colpendo i suoi simboli, come l’inno di Mameli che qualcuno ha
proposto “di sostituir[e] con le zingaresche note della ballata di “Bella Ciao”
(p. 224). A parte che Bella ciao celebra la liberazione dal fascismo,
cioè da un regime che non avrebbe concesso a Vannacci la libertà di scrivere
quel che scrive, definirla “zingaresca” è un atto razzista e anche inquietante,
poiché giunge da un generale che ha giurato sulla Costituzione democratica nata
anche dalla lotta contro il nazifascismo. Naturalmente, quando parla di patria
l’autore va in orgasmo, ma, come dire, lo si può comprendere. Sentiamolo: “L’Europa non sostituirà mai la mia bella Italia che preferisco,
nel bene e nel male, a qualsiasi altro paese solo per il fatto di sentirla mia
e frutto, anche solo marginalmente, di quanto tutti i miei avi abbiano fatto
negli anni passati. Ideale che rimane immutato anche al variare della politica
perché a combattere e a rischiare la pelle per i preminenti interessi della mia
Nazione mi ci hanno spedito sia governi di destra che di sinistra e non ho mai
avuto alcun dubbio che la cosa giusta da fare fosse quella di prendere zaino ed
armi e tenere fede, con la massima integrità, al giuramento prestato in nome
del mio onore ed in nome della difesa della mia Patria”
(p. 219). A proposito di amor di patria e orgoglio nazionale, perché l’autore
non ricorda che oggi governa un partito,
la Lega, che fino a pochi anni fa lanciava melma sul gran parte degli italiani,
sognava la secessione e considerava criminali personalità come Garibaldi o
Mazzini? Pertanto, il discorso sull’amor di patria, Vannacci dovrebbe rivolgerlo
a uno dei partiti a cui lui sembra più vicino e che, si dice, vorrebbe
candidarlo alle prossime elezioni.
Idolatria di ciò che è naturale
L’autore afferma di voler combattere un modello sociopolitico
in cui tutti i valori in cui egli crede sarebbero messi in discussione, per proporre
un modello in cui nessun valore può essere messo in discussione; secondo lui, il
fondamento di una norma, di una legge risiede nel loro essere stati validi per
lungo tempo, per tradizione o secondo
natura. È questo un caso di naturalismo etico; per esempio, l’autore
difende (ma da cosa?) la famiglia “tradizionale” con queste parole: “La stessa tipologia di famiglia, bisogna ammetterlo,
ha assicurato la sopravvivenza e la prosperità della specie umana per millenni,
almeno in occidente ed in tanti altri posti al mondo in cui si sono adottati,
con le varianti del caso, modelli familiari molto simili al nostro.
Un’istituzione vincente, dunque, sicuramente perfettibile, come tutto, ma
indubbiamente e oggettivamente efficace” (p. 186).
Il modello “tradizionale” di famiglia non nasce con la comparsa
dell’uomo sulla terra, come sostiene Vannacci; parlando in generale,
si può dire che la famiglia ha subito nei secoli diversi mutamenti, perché
nell’antichità romana essa era intesa come famiglia allargata e comprendeva
anche la servitù, gli schiavi liberati e i figli adottati. Oltre a ciò, il pater familias aveva potere assoluto su moglie, figli
e schiavi. Questo modello familiare muta solo in parte tra Medioevo e in età
moderna perché, soprattutto in ambito rurale, la famiglia è ancora “allargata”
e coinvolge tutti i suoi componenti nei lavori agricoli. Nelle città, invece,
la famiglia è più ristretta, ma anche in quel caso non esiste un modello
univoco, poiché ci sono differenze tra le famiglie nobili e quelle dei
lavoranti o dei mercanti, dove spesso tutti i membri sono coinvolti nelle
attività, sebbene esse non riguardino la terra bensì il commercio o
l’artigianato. Durante l’800 si afferma un modello di famiglia maggiormente
legato all’attività industriale e nelle città, la famiglia operaia, spesso
numerosa, vede impiegato nella fabbrica non solo il capofamiglia, ma anche la moglie
e poi i figli. Prosegue quasi immutato invece il modello di famiglia contadina,
mentre nella famiglia borghese dei ceti sociali più alti in genere lavora solo
il padre (magari in ufficio o come imprenditore) e la donna si dedica
esclusivamente alla crescita dei figli. Questo modello “borghese” è stato
profondamente modificato negli ultimi cento anni, poiché è progressivamente
cresciuto il numero delle donne lavoratrici ed è stata soppressa la figura del
capo-famiglia, ridistribuendo le responsabilità e i diritti tra i coniugi.
Dunque, non esiste un modello di famiglia “tradizionale” e perciò non può essere messo in pericolo proprio perché la famiglia, come ogni costruzione umana, muta profondamente.
Ma sì, l'autore ribatterebbe asserendo che lui intende sostenere che per costruire una famiglia e fare figli, è necessaria da sempre l’unione tra un uomo e una donna. Anche qui sbaglia e deve rassegnarsi perché al giorno d’oggi non è vera nemmeno questa cosa. La possibilità di avere figli prescindendo dall’unione fisica tra sessi diversi è ormai una realtà che va accettata; a Vannacci può non piacere, ma perché lui vuole impedire ad altri di impiegare questa possibilità prevista dalla legge? Perché vuole impedire ad altri di esercitare un diritto che non lede i suoi, di diritti, e che non riguarda la sua sfera personale di individuo eterosessuale che ha avuto figli in modo tradizionale? Cosa cambia per lui se una donna usa la fecondazione in vitro o l’eterologa? Cosa cambia per lui se due gay si sposano? Perché vuole imporre agli altri un modello etico proprio quando lui è il primo a protestare contro chi vorrebbe imporre a lui e ad altri l’accettazione di determinati comportamenti? Si potrebbe infine osservare con malizia che i leader politici di quei partiti cui Vannacci appare vicino vivono tutti, legittimamente, in famiglie non tradizionali.
Accettare ciò che è naturale come criterio per attestate la giustezza di un valore o di un atto, è un atteggiamento ingenuo, perché anche le malattie, le alluvioni e le catastrofi sono cose naturali, eppure noi le combattiamo. Dunque, ciò che è naturale non va sempre bene, dipende dalle conseguenze esso produce e perciò la naturalità di un comportamento non può essere assunta come un valore.
Vannacci
non ne è consapevole di sicuro, ma proprio la dottrina nazionalsocialista si
opponeva alle dottrine considerate rivali e alle religioni accusandole di aver allontanato
l’uomo tedesco dalla natura e dalle sue leggi, obbligandolo a vivere
un’esistenza non adeguata a lui e che spegneva tutte le sue più autentiche
pulsioni: “Tutto questo era naturale. L'ordine, un tempo, era appropriato e
degno. Rispettava le leggi della natura. Non come oggi, quando tutto avviene
contro le leggi della natura” (parole del capo delle SS Heinrich Himmler,
citate nel celebre libro di J. Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e
agire da nazisti, Einaudi, Torino 2016, p. 193).
L’autore nondimeno
non sente ragioni e inanella una serie di errori storici che farebbero
sorridere uno studente delle medie: “Sono convinto che nulla nasca per caso
e se la famiglia esiste da millenni sotto la forma tradizionale un motivo ci
sarà. Il nucleo familiare esiste da quando l’uomo esiste [falso,
ovviamente]. Senza scomodare gli antropologi sappiamo che l’unione di un
uomo e una donna ha garantito il prosperare della specie umana, la sua
evoluzione e il suo benessere. All’origine non vi è stato alcun inventore del
nucleo familiare, non esiste alcun copyright o, almeno, non ve ne è traccia
all’ufficio brevetti. È stata semplicemente l’espressione della Natura che,
attraverso i severi processi di selezione e adattamento ha individuato
l’organizzazione più efficace per garantire la sopravvivenza della specie”
(p. 188). Partendo da questi presupposti, ogni comportamento che non segue la
sua idea è per l’autore “contro natura”: “[i gay] si inventano il ‘diritto
alla genitorialità’ e giustificano pratiche come l’utero in affitto per
soddisfare i desideri biologicamente contronatura delle coppie arcobaleno”
(p. 191). A chi gli fa notare che in natura esistono esempi, seppure meno
diffusi, di unioni non tradizionali, l’autore risponde derubricandole a
eccezioni che confermano la regola, dimenticandosi che anche questi sono
comportamento “naturali”, voluti da quella “madre natura” che lui nomina quasi
fosse un vero e proprio essere vivente. Peccato che, parlando del rapporto tra
uomo e ambiente, l’autore riconosca che nessuna etichetta morale è applicabile
ai fatti naturali: “la Natura non ha pulsioni umane né sentimenti. Il leone
non è cattivo perché sbrana la gazzella. La Terra non ci vuole male perché ci
inghiottisce nella lava di un’eruzione vulcanica” (p. 13).
A parte il fatto che oggi la famiglia “tradizionale” non è messa in discussione da nessuno e che, anzi, è difesa da forze politiche che hanno governato quasi ininterrottamente questo Paese dal 1994, l’autore dimostra di essere un uomo che pretende di obbligare gli altri a vivere secondo le sue idee. È bello sapere che lui ha avuto una famiglia perfetta, ma non tutte le famiglie sono tali: non è necessario citare Tolstoj sulle famiglie infelici, però è necessario ribadire che l’autore esprime una posizione pericolosa, perché pretende di imporre agli altri come amare, come vivere, come costruire la propria famiglia e la propria vita. Per difendere il suo modello di famiglia, egli, come detto, si appella alla legge di natura, attribuendo all'aggettivo "tradizionale" un significato etico forte per attribuire valore assoluto a comportamenti che si richiamano alla consuetudine: “Dalla transizione sessuale alla propaganda anti-famiglia tradizionale, tramite le proposizioni di improbabili modelli di famiglie allargate multietniche, multigenitoriali, multiorientate e inclusive per antonomasia gli attacchi rivolti soprattutto al pubblico giovane ed inesperto sono a dir poco continui. D’altra parte, i tentativi fatti negli anni Settanta dalla generazione dei figli dei fiori caratterizzati dal libertinismo assoluto non sembrano aver conseguito ragguardevoli risultati. Ancora una volta è la Natura a prevalere. Ancora una volta quel concetto di famiglia definito 'vecchio stampo' oggetto di tante critiche e disapprovazioni si è rivelato un modello efficace” (p. 209).
Poste queste
argomentazioni, l’autore nega che esista un “diritto alle genitorialità” basato
su motivazioni affettive. E come argomenta questa negazione di tale diritto?
Ancora una volta appellandosi a ciò che secondo lui sarebbe naturale e dunque giusto;
nell’intento di negare la valenza etica della genitorialità e di ridurla a un
puro fatto di natura, Vannacci giunge addirittura ad animalizzare l’uomo, rendendolo
di fatto una bestia, tacendo tutto il complesso di relazioni affettive e
sentimentali che l’umanità ha sviluppato a partire da un impulso naturale: “L’opzione di procreare, quindi, più che un
diritto verrebbe definita un privilegio riservato ai pochi che, più di altri,
danno dimostrazione di quelle caratteristiche irrinunciabili a fare progredire
la specie. Una vera e propria élite che si guadagna spesso a suon di cornate,
lotte, morsi, calci e lunghe azzuffate il privilegio di mettere al mondo un
altro esemplare della propria varietà. La Natura, quindi, ragiona proprio con
una logica opposta a quella che vorrebbe imporre il concetto di “diritto alla
genitorialità” che, in quanto tale, dovrebbe essere invece esteso senza alcuna
discriminazione ad ogni elemento della società umana” (p. 195).
Da queste
posizioni alla messa in discussione di aborto e divorzio il passo è breve; ma
quello che traspare dalle sue idee è un rimpianto, nemmeno troppo nascosto, per
il bel tempo felice in cui i papà lavoravano e le donne stavano a casa a
crescere i figli: “Se c’è una cosa che
non mi convince né da un punto di vista sociale né sotto il profilo economico è
il modello ritenuto quasi obbligatorio dei servizi per l’infanzia. In essenza,
non capisco perché una donna o un uomo dovrebbe andare necessariamente a
lavorare per poi essere obbligati a spendere buona parte di quanto guadagnano
per il pagamento di questi servizi” (p. 200) aggiungendo che “è chi si realizza nel lavoro, chi solo nella
famiglia, chi ha bisogno di entrambe le cose ma in proporzioni diverse e, per
fortuna, sono ancora in molte le donne che non considerano l’autorealizzazione
incompatibile con la gravidanza e con la nascita di un figlio. Quello che fa la
differenza oggi è la retribuzione. I genitori lavorano per necessità e non per
scelta, almeno in Italia. La drastica diminuzione della natalità è anche dovuta
a questo perverso meccanismo” (p.
203).
Bene, dopo aver detto che lui ha avuto una famiglia tradizionale bella
e felice, con il papà che lavorava ed era poco presente e con la mamma
casalinga, ma capace di crescere quasi da sola, tre figli e dopo aver
assicurato che anche i suoi amici hanno avuto famiglie felici e hanno vissuto
nel Mulino Bianco, l’autore spara a zero contro chi vorrebbe mettere in
discussione questo modello di famiglia tradizionale. Chi sono costoro? Nell’ordine,
a) il socialismo reale (!!!) che “brama di “comunizzare” la società e di assegnare alle sole
istituzioni statali l’educazione dei giovani che devono essere, sin dai primi
anni d’età, sottratti alle grinfie familiari che ne potrebbero alterare i
valori di riferimento”. Perché non c’è
nessun riferimento all’eugenetica e al razzismo di Hitler?
b) il femminismo: “Oltre a
promuovere istituzioni come il divorzio e l’aborto al suon dello slogan
“tremate, tremate, le streghe son tornate” si oppone alla figura femminile
intesa come madre. Le moderne fattucchiere sostengono che solo il lavoro ed il
guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le
schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile
vita domestica”.
c) gli omosessuali, che “introducono il concetto
di fluidità sessuale, di percezione del sesso e di transgender e che
classificano come famiglia l’unione tra due persone di sesso uguale o, non
importa quale sesso, anzi, il sesso non esiste è solo una percezione!”
d) gli animalisti (!!!!!): “che sostengono che
l’amore, che assolutamente non può definirsi affetto, è possibile anche nei
confronti di una tenera bestiolina e che, quindi, pretendono esteso il concetto
di famiglia a chi vive con un gatto, un cane, un porcellino d’India o,
addirittura, un maiale. Non si spiegano il perché, dunque, alla scomparsa del
padroncino l’adorato essere peloso non debba avere il diritto di percepire la
pensione di reversibilità come invece l’avrebbe un coniuge o un figlio
minorenne” (pp. 186-187).
E non ci si può
perdere il vergognoso paragone tra le politiche familiari di alcuni stati
democratici occidentali odierni e la sanguinaria Cambogia. L’autore infatti ha
il coraggio (o l’impudenza) di scrivere: “Nel
tragico esperimento della Cambogia di Pol Pot i genitori perdevano da subito ogni autorità sui
bambini che venivano affidati a comunità controllate dai rappresentanti del
terrificante regime. Ora, la fluida società moderna degli Stati che si
professano liberi e progressisti sta conseguendo i medesimi risultati con
metodi che solo apparentemente appaiono meno coercitivi” (p. 205). Più condivisibili
sono le osservazioni sulla necessità di non ridurre la vita delle persone al
solo orizzonte lavorativo, a scapito di altre sfere della personalità che
meriterebbero di essere sviluppate; interessante anche la possibilità di
remunerare il genitore che si occupa in
prevalenza dei figli.
Esaltazione
della “normalità”
Corollario del principio della fedeltà alla natura è l’appello alla “normalità” e la suddivisione delle persone o delle cose in “normali” e “anormali”. A p. 193 l’autore dichiara: “La normalità c’è. Esiste. Non per questo è buona o cattiva, migliore o peggiore, ma non la si può negare in nome di una artificiale e pretestuosa inclusività” (p. 193). Più avanti la normalità è definita: “condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o fuori dall’ordinario e dalla consuetudine” (p. 240). Immagino che la definizione sia tratta da un vocabolario; ma dal punto di vista etico, le parole hanno un significato più pieno, che si stacca da quello semplicemente oggettivo della loro definizione per assumerne un altro, molto più caldo e vivo. La definizione del vocabolario è un punto di partenza, non di arrivo. Per la riflessione morale, la definizione citata da Vannacci non regge, perché contiene la parola stessa che vuole definire: non si può affermare che la normalità è ciò che si ritiene normale! Sarebbe come voler definire una spiaggia scrivendo: “la spiaggia è ciò che si ritiene essere una spiaggia”. L’autore insiste: “La domanda che ci viene da porci è se esista una normalità nei gusti e nelle preferenze. Certamente! Dipende da molti fattori, fra cui la cultura e la civiltà giocano un ruolo molto importante ma una ‘normalità’ nei gusti esiste eccome!” (p. 240).
Fa quasi tenerezza questo appello alla normalità, perché l’autore è il primo a riconoscere che nei secoli cambiano i gusti e le mode e cambia l’idea di ciò che si ritiene come “normale”. Difatti, l’autore afferma che coreani e cinesi ritengono normale “mangiare i cani”, cosa inammissibile per noi, oppure parla del masochismo, per dimostrare che ci sono pratiche che, per quanto esistenti nel mondo, non possono essere definite “normali” (p. 241). Ma un cinese direbbe che loro mangiano i cani da secoli e che dunque per loro è “normale” nonché naturale farlo, mentre un masochista direbbe che le pratiche che lui ama sono vecchie come il mondo e dunque, a suo modo, “normali”. Insomma, il generale si contraddice da solo e in questo capitolo tocca il fondo, perché dimostra di avere le idee confuse. L’autore, dunque, costruisce una definizione di normalità che lui stesso, nella sua esposizione, deve negare: nei fatti, egli riconosce che anche in questo caso non esiste una normali in senso oggettivo, ma una diversa prospettiva dei vari popoli nel giudicare “normale” ciò che essi ritengono consuetudinario.
Egocentrismo e mancanza di empatia
L’autore sembra un uomo che, avendo finora avuto una vita ricca di
soddisfazioni, una felice famiglia di origine e un altrettanto felice famiglia
costruita, sia terrorizzato dal fatto che qualche cosa possa cambiare, che il
suo mondo perfetto e la sua vita colma di gioie possano essere incrinati da
scelte politiche o sociali. Appare incapace di empatia, di mettersi al posto
dell’altro, e giudica le questioni dall’alto delle sue granitiche certezze,
affermando che ciò che lui ha visto e ha vissuto va bene mentre che tutto il
resto no. Non è empatico forse perché crede, ingenuamente, che molte questioni
sociali nascano non da bisogni reali, bensì o da bisogni indotti da una parte politico-ideologica
oppure da una modernità che vuole cancellare i valori tradizionali, quelli di
un tempo antico e felice, quando tutto andava bene e non c’erano per strada
poveri o immigrati e gli omosessuali non facevamo mai outing ma si nascondevano.
Ma dove ha vissuto finora il generale? Il tempo che lui rimpiange, ovviamente non è mai esistito, e l’autore, di fronte a un presente che gli appare disordinato e multiforme (e che non capisce), non reagisce con curiosità o con spirito critico, bensì con fastidio, inventandosi un passato mitico in un cui tutto andava bene ed esisteva un modello unico di famiglia, di vita, di pensiero. Di fronte a un mondo che secondo lui sta andando a rotoli, solo la famiglia, ovviamente la famiglia secondo il modello Vannacci, anzi, direi, solo la famiglia Vannacci, può salvare: “Proprio oggi, invece, che anche quelle che consideravamo le più solide evidenze si stanno sgretolando, che siamo pervasi da incertezze e dubbi riguardo al presente e soprattutto nei confronti del futuro, che siamo soggetti ad una comunicazione incessante caratterizzata da fake news e strumentalizzazioni dovremmo cercare di salvare quello che ancora rappresenta una roccaforte ed un punto fermo della società e la famiglia naturale, che incarna ancora un’affidabile rete di solidi affetti e un comprovato e resiliente spazio di sicurezza, è certamente uno di quei capisaldi a cui non si può rinunciare” (p. 210). L’egocentrismo traspare spesso tra le pagine del libro, giacché l’autore tende a giudicare il mondo a partire dalle sue esperienze; atteggiamento che può risultare comprensibile, ma che non può essere univoco, perché il mondo moderno, si rassegni Vannacci, è vario. D’altra parte, come non citare il filosofo che disse che al mondo non esistono fatti, bensì solo interpretazioni di questi fatti? Oppure questa frase da Padri e figli di Turgenev: “In assoluto non esistono principi – tu ancora non l’hai capito! – esistono solo sensazioni. Tutto dipende dalle sensazioni.» «Ma come?» «Ecco come. Prendi me, per esempio: io seguo un orientamento negativo… per via di una sensazione. Mi piace negare, il mio cervello è fatto così e basta! Perché mi piace la chimica? Perché ti piacciono le mele? Sempre per via di sensazioni. Senza eccezioni. Gli uomini non sono capaci d’andare oltre. Non tutti te lo direbbero, e un’altra volta magari nemmeno io te lo direi.»”. Spiace ricordarlo all'autore, ma l'uomo decide quasi sempre decide in base alle sensazioni più che alla ragione. Un po’ come fa l’autore di questo libro che, sebbene in apparenza sia ragionevole, poi si lascia guidare dai suoi sentimenti. E, si può aggiungere, la realtà è la costruzione operata da miliardi di punti di vista su di essa, poiché ogni essere vivente tende a vedere il reale con i suoi occhi.
Tuttavia, è importante che ogni tanto l’individuo provi quantomeno a mettersi al posto dell’altro; Vannacci questa cosa non lo fa e il suo egocentrismo risulta talvolta infantile. Per esempio, lui racconta così il suo primo impatto con i neri: “Fu nel 1975, quando con tutta la famiglia ci trasferimmo a Parigi che, per la prima volta, cominciai a venire a contatto quotidianamente con persone di colore. Mi ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mia mano sopra la loro, mentre si reggevano al tientibene dei vagoni, per capire se la loro pelle fosse al tatto più o meno dura e rugosa della nostra. Li guardavo continuamente, con quella scarsa discrezione che caratterizza l’atteggiamento di molti bambini curiosi, e mi colpiva sia la tonalità molto più chiara del palmo delle loro mani sia il netto contrasto che si percepisce nei loro occhi dove la sclera – la parte bianca del bulbo oculare – si staglia con i colori estremamente scuri delle loro pupille” (p. 89). Frase che fa sorridere d’amarezza perché nasce da un’idea di totale diversità delle persone nere. Non è razzista, ma potrebbe essere il prodromo del razzismo: essa sottende l’idea che i neri siano qualcosa di diverso dai bianchi. Si dirà che nel 1975 Vannacci aveva otto anni, ma l’obiezione non pare pertinente, perché oggi, adulto e vaccinato, l’autore scrive cose simili, dimostrando di essere ancora carico di pregiudizi: “Anche se abbiamo seconde generazioni di Italiani dagli occhi a mandorla, il riso alla cantonese e gli involtini primavera non fanno parte della cucina e della tradizione nazionale; anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri; anche se vi sono portatori di passaporto italiano che pregano nelle moschee, ciò non cancella 2000 anni di cristianità” (p. 110). Si è italiani non per il colore della pelle o per i “tratti somatici”, ma per la cittadinanza: e l’essere italiano si evolve, le popolazioni non sono entità fisse, pure e intoccabili.
L’egocentrismo, come
anticipato, porta l’autore ad assolutizzare le sue esperienze di vita, traendo
da esse giudizi universali; non solo, egli fa delle dichiarazioni nette senza prendersi la briga di dimostrarle, spacciandole per verità. Ancora una volta, sempre a
proposito degli stranieri, il generale parla di sé stesso, partendo da
un’esperienza infantile, raccontando che lui da piccolo viveva a Ravenna, allorché “A parte le orde di
tedeschi e di biondi turisti del Nord Europa che, a partire dalla primavera,
cominciavano a invadere le piazze, i lidi e le bellissime chiese bizantine, di
stranieri non se ne vedevano tanti per le strade della città” (p. 88). L’assenza di
stranieri di quel periodo sembra essere per lui un fatto positivo, perché egli
sottintende che allora la società era più ordinata e meno vessata dalla
criminalità: la cosa però è falsa, perché al tempo c’era il terrorismo, c’erano
le bombe fasciste, la mafia faceva il bello e il cattivo tempo in Sicilia. Va
be’, andiamo avanti. Da quel che scrive, la situazione oggi per lui è peggiorata proprio
perché ci sono i migranti. E come giustifica questa idea? Ovviamente partendo dalla sua
esperienza personale. Egli scrive che un giorno, mentre con un amico si stava
“gustando” un caffè a Viareggio, è “stato preso d’assalto da una schiera di persone di colore
che, in rapida successione, mi hanno abbordato senza tanti convenevoli chi per
cercare di vendermi un libro sulla cultura africana, chi proponendomi
fazzoletti di carta e accendini a un euro e chi, molto più semplicemente,
chiedendomi qualche spicciolo per comprarsi da mangiare” (p. 89). E poco dopo, “passeggiando sul
bellissimo lungomare, ho incrociato un paio di Cingalesi che uscivano da un
cantiere, ho salutato un Filippino che conosco e che lavora presso uno
stabilimento balneare e sono incappato sui teli pieni di ciarpame stesi dai
Senegalesi vicino al molo” (Ivi).
Può essere che il generale “un giorno” abbia avuto la sfortuna di
essere avvicinato da queste persone che si permettono di infastidire lui, uomo
benestante e tranquillo, per chiedergli qualche spicciolo per mangiare o per
vendere qualche cianfrusaglia per sbarcare il lunario. Ma quante volte capita
realmente una cosa del genere nelle nostre città? E inoltre, chi ci assicura
che Vannacci dica il vero? Si noti che l’autore non manca di far notare di aver
salutato un “Filippino” che conosce, come a dire che lui ha amici migranti,
dunque non è razzista. L’autore, insomma, partendo da un’esperienza personale casuale
(perché non dice “tutti i giorni” bensì “un giorno”) che, per quanto
fastidiosa, non è certamente grave, conclude addirittura che la società multietnica non è
ineluttabile, bensì un’esigenza che creatasi solo di recente a causa di
fattori storici (il colonialismo) e della morbidezza delle società occidentali,
che fanno sapere di voler accogliere tutti. Ma quando mai? Secondo l’autore, si
tratta di un inganno, perché la società multietnica non è “quell’Eden che alcuni dissimulatori vorrebbero farci apparire”
(p. 93).
Cadendo nel solito difetti di enunciare presunte verità senza dimostrarle, Vannacci scrive che la mescolanza delle culture non è solo pericolosa dal punto di vista sociale, ma è antistorica perché le società nascono attorno a valori comuni e condivisi: “Chi me lo farebbe fare di congregarmi con chi non la pensa come me, con chi ha abitudini e costumi diversi, con chi ama ciò che io detesto e che, per giunta, non ha alcuna intenzione di trovare un punto d’incontro al fine di rendere serena e pacifica la convivenza?” (p. 92). Chi l’ha detto che è sempre così? È vero che molto spesso i popoli si sono formati attorno a valori comuni, ma è altrettanto vero che ci sono state popolazioni che sono nate grazie all’immigrazione e al contatto tra le loro genti diverse. Come è vero che la mescolanza di culture ed etnie nel passato ha provocato guerre e conflitti, è altrettanto vero che tale mescolanza ha promosso lo sviluppo dei popoli e la contaminazione benefica tra culture, si pensi al confronto-scontro con l’Islam durante il medioevo, foriero di guerre ma anche di conquiste culturali essenziali per i due contendenti. Chi l’ha detto che l’incontro tra culture porta sempre problemi? A volte è vero, altre volte non lo è. Vannacci, invece, prende come verità assoluta un aspetto parziale di una questione assai complessa e, ovviamente, propone una soluzione drastica, come se fosse facile affrontare il tema della migrazione: “Ovunque si sia cercato di applicare l’ideologia del multiculturalismo si è andati incontro a esacerbati attriti sociali, crescente violenza e protratti tentativi di prevaricazione. L’immigrazione non è un fenomeno ineludibile ma è governato da leggi di convenienza. La stabilità, la prosperità, lo sviluppo e la pacifica convivenza della società occidentale può essere seriamente messi in pericolo dai continui ed incontrollati flussi migratori” (p. 128). Pertanto, se la convivenza è impossibile, è necessario che un gruppo domini e l’altro obbedisca: “La società multiculturale e multietnica rispetto di norme comuni. In Somalia tutto andava bene fintanto che Siad Barre, forte di un esercito tutto sommato ben armato e fondatore del primo servizio segreto somalo, riusciva a conglomerare con metodi non proprio da gentiluomo le varie tribù. Così, il braccio pesante di Tito nei confronti delle varie anime della ex Jugoslavia ha consentito una convivenza pacifica per più di mezzo secolo in tutta la penisola balcanica occidentale. Si entra poi nella contemporaneità quando andiamo ad esaminare il ruolo determinante che figure come Saddam Hussein e Gheddafi hanno giocato per garantire con la forza la coesione di stati in cui gli elementi culturali fondanti della società erano estremamente labili” (p. 101). E poco oltre: “Altra verità che quindi mi preme sottolineare è che nel mondo reale la convivenza di più civiltà è tanto più pacifica quanto più vi è il dominio di una civiltà sulle altre oppure, tanto più esista una forte organizzazione statuale che faccia rispettare rigorosamente a tutte le civiltà che coabitano un solo, univoco e irremovibile codice di condotta. Questa ruvida e amara verità, che io ho semplicemente sperimentato sulla mia pelle in regioni dove ci si è scannati atrocemente fra diverse etnie, l’antropologa Ida Magli l’ha chiaramente evidenziata dopo anni di studi e di approfondite ricerche scientifiche nelle sue opere. La scienziata è lapidaria: “nella nostra storia umana, le culture non si integrano pacificamente fra loro ma una vince e domina e l’altra perde, e viene dominata” (p. 102).
A parte l’idea pericolosa di aumentare i conflitti tra i gruppi sociali
e di parlare di dominio di un gruppo sull’altro, è scandalosa la sua ammirazione per dittatori come Saddam e Gheddafi e Tito (dittatori che si
rifacevano tutti, in modo assai diverso, a un’idea socialista) i quali
governavano i loro popolo con il famigerato pugno di ferro, spargendo il sangue
dei loro dissidenti.
Ammirazione per la Russia di Putin
Il generale ammira uno stato dittatoriale che ha invaso un paese libero
come l’Ucraina. Ma perché lui venera la Russia di oggi? Principalmente, perché
gestisce bene l’immigrazione: “in Russia, nonostante l’incredibile
estensione del territorio e l’impossibilità di gestirne e controllarne le
frontiere, l’immigrazione clandestina non esiste o è un fenomeno relegato alle
popolazioni nomadi delle steppe asiatiche. Il clandestino in Russia non lo vai
a fare perché sai che non avrai vita facile” (p. 117). Naturalmente, poiché
in Russia non c’è immigrazione incontrollata, la criminalità è minima: “Per
non parlare della Russia, ed in particolare di Mosca, dove incontravo, ben dopo
l’imbrunire nei grandissimi e bellissimi parchi cittadini, donne sole e mamme
con bambini che assaporavano il fresco delle sere estive senza il benché minimo
timore di essere molestate”. E poi questa perla: “In Russia c’è lavoro,
e ce n’è anche tanto. Rispetto a molti posti del mondo, vi si vive anche
abbastanza bene” (p. 116). Chissà cosa pensano i poveri ucraini bombardati
dai missili russi, delle lodi di un generale italiano al paese che li sta
aggredendo!
Connessione tra immigrazione e criminalità.
In una Italia dove i reati negli ultimi anni sono in costante calo, si
continua a parlare dell’emergenza sicurezza. Lo si fa perché una parte
politica, il centro-destra, ha basato su questa emergenza il suo successo
elettorale ed è in ciò spalleggiata dalle televisioni amiche (prima soprattutto
Mediaset, ora anche la RAI). La questione sicurezza viene dunque ingigantita,
facendo percepire ai cittadini un’emergenza che nei fatti non esiste. È ovvio
che i piccoli reati, per chi li subisce, sono odiosi, ma il meccanismo
psicologico innestato è il solito. Si dà notizia della presenza delle borseggiatrici,
si mettono assieme dieci-venti testimonianze, e si batte la grancassa, si
martella ogni giorno sullo stesso tema e si crea l’idea che esista un’emergenza
su un pubblico già predisposto a farsi allarmare. Vannacci ammette che i reati
calano e che l’insicurezza una condizione più percepita che reale, ma poi, con
una demagogia che fa cadere le braccia, scrive: “Fa ribrezzo quell’Italia ormai schierata
dalla parte dei delinquenti! Uscendo dalla logica del Mondo al Contrario
mettere in carcere i delinquenti non è indice di autoritarismo e disumanità,
non viola alcun diritto fondamentale, non ci fa tornare indietro a tempi
medioevali ma è il modo meno violento per rendere inoffensiva una persona
pericolosa, per controllarla e per recuperarla alla convivenza sociale”
(p. 142). Ancora una volta, dopo un’analisi vagamente pacata della situazione
(benché, secondo me, non condivisibile), l’autore manda in vacca scrivendo
frasi di tenore demagogico.
Questa tesi può essere vera in astratto, ma si scontra con un’epoca che è molto più frazionata di quella di un tempo. D’altra parte, anche nel passato, nonostante conflitti assai acuti, le civiltà di sono incontrate, mischiate: non ci sono soluzioni facili alla questione immigrazione. Vannacci deve rassegnarsi: se una parte del mondo vive nel benessere e nella libertà, è ovvio che attragga chi scappa da guerre e fame. Lui teme che la mescolanza possa inficiare i valori che tengono uniti un popolo, come quello di patria affermando che chi vive in Italia deve adeguarsi agli usi, ai costumi e alle leggi. Tutte cose comprensibili e che mi sembra che la gran parte degli stranieri accetti tranquillamente, tanto è vero che l’emergenza sicurezza viene usata solo a scopi politici, facendo un gran caos quando uno straniero commette un reato e invece sottacendo o dando meno spazio (parlo della destra) quando un italiano commette un reato contro uno straniero.
Conclusione
Si potrebbero scrivere molte
cose su uno scritto che si estende per più di trecento pagine. La sua paura della diversità, della
multiformità, del policentrismo dei tempi d’oggi, lo conduce sul terreno di un
anacronistico atteggiamento antimoderno. Questo non significa negare i
problemi, enormi peraltro, che l’età contemporanea pone all’umanità; la società
multietnica, se è inevitabile, non è qualcosa che si può imporre da sé.
Tuttavia, se la soluzione verso certi problemi è quella suggerita dall’autore,
cioè il fatto che ogni cultura si arrocchi e si chiuda in sé stessa, non avremo
nessuna società, né multietnica né monoetnica. E il mondo, sembra, va proprio
in nella direzione auspicata da Vannacci: la direzione della chiusura,
dell’aggressività verso il diverso, del respingimento indiscriminato verso
tutti i migranti.
Per questo, non si comprende il senso del libro di Vannacci, il suo risentimento, quando il mondo sta seguendo proprio la direzione che lui e i sovranisti desiderano e sperano che esso segua; certo, di fronte alla logica inesorabile di una cultura occidentale che, sentendosi alla fine, reagisce arroccandosi perché è debole, non ci sono argomenti validi da opporre. Non serve spiegare che l’umanità, da quando è sulla terra, si è sempre mischiata; che i flussi migratori hanno garantito nei millenni la circolazione delle merci e delle idee; che il contatto tra i popoli può provocare certamente tensioni, ma che senza certi contatti forse la modernità non sarebbe mai cominciata. Né serve spiegare che l’Europa e l’Occidente non hanno radici cristiane, bensì greco-romane, perché il cristianesimo è nato in Oriente e si è diffuso per primo per molti secoli in Oriente e solo molto più tardi in Occidente. Il libro mi sembra il termometro di una civiltà terrorizzata, che si sente in declino demografico ed economico ed è incapace di ascoltare le ragioni, ma è attratta solo dai sentimenti negativi. Scrive l’autore: “Nei secoli l’Occidente si è guadagnato una posizione predominante basata sullo sviluppo e sulla tecnologia che ci consente di vivere in condizioni di benessere estremamente più vantaggiose dei sette miliardi di persone che vivono altrove. Se vogliamo mantenerlo, questo benessere, se lo vogliamo tramandare ai nostri figli allora tocca continuare a lottare duramente per esso altrimenti sì che il tanto vaticinato inevitabile ed ineludibile si trasformerà in realtà” (p. 126). E il diritto all’odio appare il degno corollario di questo libro a tratti delirante: “Per quanto esecrabile, l’odio è un sentimento, un’emozione che non può essere represso nell’aula di un tribunale. Se questa è l’era dei diritti allora, come lo fece Oriana Fallaci, rivendico a gran voce anche il diritto all’odio e al disprezzo e a poterli manifestare liberamente nei toni e nelle maniere dovute” (p. 281).