I
Gettati sulla terra in
un’esistenza che galleggia
siamo bolle pigre che scavano la
melma verminosa
che la pioggia smuove il sole
pietrifica rendendola
mefitica e velenosa al cervello e
al piede.
La sensazione svuota-stomaco che
l’essere sia tutto qui
avvolto in un’ombra che si nutre
di luce
è incentivo a dimenticare ogni
cosa
a immergersi nel lago delle
sensazioni innominate
per anestetizzare i sensi
per vergognarsi di essere
razionali.
La melma allora si fa più
avvolgente si affonda
le scarpe marroni come il cuore
dileggiato da batteri virus
invertebrati e scarafaggi
più intelligenti dell’uomo.
II
Si spengono giorni e giorni sulla
carta sporca
di scarafaggi arrosto e oleosi della
panetteria dei vecchi portici.
La nebbia ondeggia gialla e lenta
scaraffaggiando si muove nella
via
tra le vecchie finestre del
pensiero unico
che s’aprono di notte e di giorno
si bloccano
fino ad annegare di sudore
qualsiasi sospiro.
Due uomini si baciano dietro una
colonna
il buio testimonia il loro
peccato d’un tempo
una donna invece aspetta fremente
il bacio d’addio
del primo uomo che passa.
La sera d’inverno scende
dall’alto
s’appoggia sui tetti e sui divani
s’aggiusta seducente i cuscini
si lascia amare come valletta
esperta
e fa l’amore sgranocchiando noccioline.
III
Poi la sera s’alza fregandosene
dell’impotenza emotiva
e si metamorforizza in un mattino
scarafaggesco
che schiaccia le teste degli
amanti occasionali senza soldi
mentre i portici illuminati a
giorno dal giorno
trasmettono il vociare cagnaresco
di studenti e studentesse imberbi
che non sanno dove andare.
La donna aspetta ancora il bacio
d’addio del primo che passa
ma ora il rossetto stinge: un
occhio piange e l’altro ride
poi cambiano i ruoli e la donna è
scarafaggio anche lei
o decaduta eterea delle sere d’inverno
della bassa padana
quando la nebbia scuote gli
istinti maschili
e nessuno sa più amare la solita
donna di tutti i giorni
ma tutti bramano la prima o la
seconda che passa
sotto i portici rigurgitanti
scarafaggi infreddoliti
e bestemmie sigillate nei bicchieri
di vino.
IV
Saltano questi insetti attardati
tra i portici freddissimi
delle mattine gelate sul selciato
di chiese deserte
dove lo scalpiccio di piedi e
scarpe
schiaccia le teste di scarafaggi
arroganti che non sanno
cedere il passo nemmeno alle
vecchie donne.
La gelatina dell’insetto si
infila tra le fughe
e la piazza è una pista di
pattinaggio gialla
dove la disperazione quotidiana
danza ogni ora
e quelli che amano non trovano
più l’oggetto d’amore
mettono il broncio mentre
scarafagge audaci li accarezzano
fino alla fine del giorno e della
notte
quella notte, mi pare dicesse
Celine,
nera come il buco del culo o
quasi.
VII
Stato di calamità innaturale
nella bassa padana
e le balle di fieno divengono
rifugio estivo
del parlamento scarafaggesco che
incatena le coscienze
di ex liberi pensatori che
squittiscono idee
e saggi filosofici da boudoir.
Le ore sono gialle tra le
pannocchie acerbe
mentre lo scarafaggio despota
governa la città
e le carogne democratiche
putriscono sotto i portici
dove scarafaggi senza spirito
democratico
tengono happening cantando vino e
chitarre
l’amore libero le canne e leggono
Erich Fromm.
VIII – Il cieco Tiresia
L’apocalisse alla fine è stata
noiosa e deludente
e dopo secoli a ironizzare contro
la Bibbia che non si capisce
e a chiedersi se mai succederà e
perché ma figurati
sono cazzate di un popolo
arretrato com’erano gli ebrei
cinquemila anni fa, l’abbiamo
presa bene lì in basso
la fregatura. Senza accorgercene.
A qualcuno piacque.
Le profezie alla Orwell non fanno
paura
e le metamorfosi da uomo a
insetto sono quotidiane
almeno così si blatera nei bar
della sera
dove le vetrine pullulano di
insetti morti,
rinsecchite e verdeggianti
dadaiste forme di morte
rinsecchite come un vecchio con vizze mammelle
sempre tu Tiresia tra le scatole
a profetare scalogne ma ti vogliamo
bene
perché il poeta ti amò e lo
facciamo anche noi
tu donna e uomo assieme ogni
momento.
“Quando mi accorgo che gli
individui altro non sono che schizzi di saliva sputati dalla vita, e che la
vita stessa non vale tanto di più rispetto alla materia, mi dirigo verso il
primo bistrot con l’idea di non uscirne mai. E tuttavia le mille bottiglie che
potrei scolarmi non sarebbero in grado di trasfondermi il gusto dell’Utopia, di
quella credenza secondo cui qualcosa è ancora possibile” (Emil Cioran,
1911-1995).
Le parole di Cioran mi hanno
fatto venire in mente il primo componimento. E poi, come associazione
immediata, ho pensato all’Apocalisse
di Giovanni, visto che in pianura è periodo di invasione di insetti; però l’ho resa
volgare, perché il tempo attuale, decadente e misero, è un’apocalisse solo con
la “a” minuscola. Per questo è un mondo che non perisce, ma vegeta in una notte
senza fondo. Viaggio al termine della
notte di Céline è stata la terza associazione, quando egli scrive, per
esempio, “non sei altro che un vecchio lampione di ricordi all’angolo di una
strada dove non passa già più quasi nessuno”. E ho immaginato che, di fronte a
uomini anestetizzati e sconfitti, simpatici scarafaggi prendessero il potere,
dimostrandosi più furbi degli umani. Ma il contatto con l’umano intacca anche
l’etica semplice e spietata degli insetti, che sono sconfitti proprio perché
umanizzati. Ho pensato naturalmente a Kafka, al Gregor Samsa che diventa un
insetto eppure continua a sentire in sé un’anima umana. Sullo sfondo di tutto c’è
The Waste Land di T. S. Eliot, ma solo una sua immagine opaca e
prosaica, perché esiste una grandezza pure nell’affondare, e invece questo
tempo non la possiede più. Tiresia (nel poema di Eliot è protagonista de Il sermone del fuoco ma si veda Ovidio, Metamorfosi, III 323 e sgg.) è forse la
sola figura cui fare riferimento, e ascoltarlo significa non temere l’avvenire,
ma solo la bassezza umana nella sua totalità, di cui egli era cosciente avendo
vissuto, cieco, da uomo e da donna, e avendo in mano la tragica capacità di
vedere quel che accadrà.
Giugno 2013
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