Tra le poesie di Paola Silvia Dolci raccolte nella silloge Amiral
Bragueton, italic, Ancona 2013, è
rischioso addentrarsi perché ci sono riferimenti colti che possono sfuggire.
Eppure, se si abbassano le proprie pretese e ci si attacca al testo,
l’appagamento è alto ugualmente. Durante la lettura, mi sono venute in mente
diverse cose. Ma vorrei citare solo pochi versi, rapsodicamente, per offrire un breve lampo della maestria dell’autrice. A volte ella maschera con un ermetismo superficiale
qualcosa che sembra ugualmente, e realisticamente, urlare il proprio dolore,
senza veli:
XV. San Valentino 2011
Tra i morti in omaggio all’alcol
Mentre dormo mi accartoccio come una foglia
un vitellino, faccio l’acrobata frantumo i polsi
La notte sta nella mia schiena.
ii.
Ipotesi di bambina, ricomincia l’infanzia da capo;
un vecchio
non riesce più a vedere le stelle
ipotesi di bambina, ramifica e fiorisce.
-… e quando finiscono i gelati sono triste, soprattutto di
notte.
Il verso finale è ironicamente amaro, come una linguaccia di una
bambina che ha appena pianto e poi ride.
L’autrice viaggia molto, d’estate ama veleggiare, solca i mari,
d’inverno non si sa. Tuttavia quando, in calce a un componimento, inserisce il
luogo e la data, i piedi per terra sono più saldi. In quest’atmosfera
lussureggiante di versi, di cammei, di gioielli colti, qualche volta uno
spiraglio di intenso lirismo domestico balugina, come quando si legge questa
poesia scritta a Desenzano del Garda:
XI. La mia passeggiata aveva le
foglie nel cappotto.
La mia passeggiata aveva le
foglie nel cappotto.
Novembre è penetrato dal lago e
non parla,
un’immobilità amorosa e funebre.
Else: non stringere, molla.
Ricarica e spara.
Altre volte traspare dai versi la sofferenza. Sì, va di moda affermare
che il poeta è tale solo perché soffre e così via. Sarà un luogo comune, non
so. Il poeta soffre come gli altri; solo che, se è poeta, conferisce a questa
sofferenza una forma ben delineata che non cade né nel lamento senza speranza,
né nello sterile godimento per il proprio dolore.
Non conosco l’autrice dunque nulla ne so, ma le sue pagine sembrano
raccontare che il pudore che il dolore dà al sofferente può essere temperato
dai versi, trasfigurato da una poesia che nasce dal viaggio come inutile fuga,
forse, verso un altrove utopico che è agognato proprio perché, titanicamente, è
irraggiungibile. L’amore è solo questo, o è pure questo?
IV. Punta Ala. 18 marzo 2012.
Il porto era un vecchio film
E la barca un libro;
ovunque i tuoi regali
vetri che ferivano le bambine.
Oggi muoio e il mio amante
Mi depone le uova dentro.
È difficile comprendere i poeti. Infatti io non lo faccio. Anche perché
questa poetessa ha le sue esperienze, vive e ricche, immagino, ma solo sue.
Tutto il libro sembra raccontare questo al lettore: leggimi, sì, però io rimango io e
tu… be’, un’altra persona, qualunque sia. Il tema del viaggio è allora
individuale ed è una fortuna che sia così, perché l’autrice non vuole insegnare
nulla, né ergersi a universale esempio di versificazione o di contenuti. Ma
forse avvicinarsi a lei si può:
XI. Pallore gettato a distesa
[…]
ii
Voi che non avete mai dormito su una nave,
chiedetevi cosa fareste al mattino
se aprendo al finestra
non vedeste intorno
altro che mare.
Allora, terminato questo brano, subito penso a Coleridge, a T. S. Eliot, a J. Conrad
(ma lei lo avrà fatto? Speriamo), e dico “no”, non è poi così lontana, qualche
cosa di lei veleggia anche in chi la legge e cerca di seguirle i suoi versi
sciolti.
Leggere i poeti significa forse entrare da spioni in un mondo di
vanitosi. O forse non significa niente, ma solo sfogliare pagine e pagine. E
allora Paola Silvia è solo se stessa, con il suo dolore, la sua gioia, i suoi
bubù (in Brasile, in Lombardia, a Mosca, in mare):
Queste lettere sono l’evidente indizio di un’altra cosa.
Esistono tante scritture quanti corpi,
e questo è il mio, amore mio.
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