domenica 10 gennaio 2010

Una recensione: "Il re della pioggia" di Saul Bellow

Nella seconda metà del 2009 mi sono appassionato ai libri di un grande autore americano, Saul Bellow (1915-2005), premio Nobel per la letteratura nel 1976. L’ultimo volume che ho letto, in ordine di tempo, è Il re della pioggia, pubblicato nel 1959; ho già parlato di un libro di Bellow,Il dono di Humboldt, in questo post. I libri che finora ho letto di Bellow (ai due citati va aggiunto il suo capolavoro, Herzog) danno l’impressione di un autore coltissimo, raffinato, e che è intento, allorché descrive le proprie elucubrazioni esistenziali, a svelare le angosce e le paure dell’uomo moderno, smascherandone pregiudizi e meschinità.
Il re della pioggia è però in apparenza un testo diverso dagli altri: in esso infatti, quantomeno a un primo livello di lettura, predomina l’azione ed esiste un certo pathos, mentre la vicenda raccontata (la storia di un benestante americano, Eugenie Henderson, che per superare la sua crisi esistenziale fa un viaggio in Africa entrando casualmente in contatto con due tribù locali), può sembrare una specie di storia fantastica. Per la verità, il testo di Bellow non è solo un racconto d’azione: in esso è evidente la metafora che lega il viaggio in Africa del protagonista, che va alla ricerca di se stesso, all’idea in base alla quale quando ci si smarrisce è impossibile pensare di ritrovare se stessi nel proprio ambiente sociale e geografico.
Un’altra caratteristica che vorrei sottolineare, nel libro, concerne il suo lato fantasioso: il protagonista entra in contatto con due tribù africane che vivono lontane dai ritmi e dalle credenze della società occidentale. Egli racconta i caratteri, le credenze religiose, le superstizioni, i modi di vivere e di vestire di queste due tribù, mostrando una grande capacità di invenzione, e consentendo al lettore di costruire nella propria mente immagini vivide, intessute di odori e rumori. Ma non si deve pensare che la narrazione si smarrisca in una serie di invenzioni fantastiche che stupiscono chi legge. Essa, infatti, è altresì intessuta di riflessioni personali, di rievocazioni di fatti dell’infanzia o comunque della vita passata del protagonista. Si crea perciò, nel testo, una benefica tensione tra il racconto temporalmente scandito dal trascorrere degli avvenimenti, e la rievocazione di vicende trascorse. Il ricorso sapiente al flash-back prende talvolta le fogge di un flusso di coscienza nel quale Bellow occhieggia all’Ulysses di Joyce. Per questo il lettore forse si domanda quale sia il centro del romanzo: la vita carica di noia leopardiana di Eugenie Henderson o il suo viaggio in Africa e l’amicizia con il re dei Wariri Dahfu?
Un terzo aspetto che mi pare significativo nel libro è legato alla scelta del luogo per la rigenerazione di Henderson, ossia l’Africa dell’immediato secondo dopoguerra. Qui l’autore si mostra davvero molto fine e saggio: egli non ripropone il mito della ricerca di un luogo incontaminato, genuino come mezzo per purificarsi dalle sovrastrutture psicologiche e sociali dell’occidente. Henderson infatti incontra per caso, mentre sta vagando, le due tribù; soprattutto la seconda, quella dei Wariri, è una società fortemente gerarchica, verticistica e violenta, dunque affatto incontaminata. Il re della tribù, Dahfu, domina, ha tante mogli, tanti servitori, un corpo di guardia formato da amazzoni; ma egli, che diventa amico intimo di Henderson, non è onnipotente, perché appena perderà la forza per "soddisfare" (non solo sessualmente) tutte le sue mogli, verrà strangolato e il suo successore diverrà veramente re solo quando riuscirà a catturare il leone nel quale, secondo la credenza dei Wariri, si è incarnata l’anima del re appena strangolato. Infatti Dahfu, l’amico di Henderson, non è ancora pienamente re e la ricerca del leone da catturare costituirà un drammatico epilogo della vicenda.
Un ultimo aspetto che mi ha colpito nel testo riguarda proprio il re dei Wariri. Mentre gli altri personaggi, come i dignitari di corte, sono tratteggiati in modo più sfumato dall’autore, la figura del re è ampiamente descritta; egli non è un selvaggio: ha studiato medicina nelle scuole inglesi di Malindi e conosce tante cose, ma, dopo che suo padre è stato strangolato, ha deciso di tornare tra la sua gente e di diventarne il re. Henderson stringe amicizia con lui, e i due costruiscono un rapporto di scambio che fa comprendere come il re dei Wariri sia in realtà l’alter ego di Henderson, il quale crede di poter ritrovare se stesso divenendo amico di un uomo forte, saggio, profondo, capace di discutere di filosofia e di dare la caccia a un leone feroce.
Alla fine, però, un senso di amarezza, ma non di scontentezza, accompagnerà Henderson che torna in America; egli si rende forse conto che la sua rigenerazione è stata parziale, perché fuggire è sempre sbagliato. Certe angosce assomigliano al guscio delle lumache che non abbandona mai chi lo deve portare sulla schiena. Scrive Hendersom (Bellow): “… forse il tempo è stato inventato per porre fine alla disperazione. Perché non duri in eterno. Forse è proprio così. E la felicità, il suo opposto, è forse eterna? Non c’è tempo nella felicità. In cielo hanno buttato via tutti gli orologi…”.

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