mercoledì 17 marzo 2010
Il treno nella tormenta (storia in 5 parti) - p. 4
Qui la prima puntata, qui la seconda e qui la terza.
RIASSUNTO PUNTATE PRECEDENTI: un treno è bloccato dalla neve sull'Appennino parmense, a Fornovo Val di Taro. Sul treno un ragazzo (Andrea) conosce una ragazza (Francesca); i due cominciano presto a divenire più intimi, mentre i viaggiatori si rifugiano al bar della stazione per scaldarsi. Francesca rivela che sta scappando dalla sua vita e da un matrimonio.
Questa confessione scatena la fantasia di Andrea; lui è fidanzato, ma è attratto da quella strana e misteriosa ragazza. L'atmosfera diviene ancor più conturbante allorché la direzione delle ferrovie consiglia ai passeggeri di pernottare in un albergo del paese. Andrea e Francesca prendono due camere singole contigue.
I ragazzi cenano assieme; Francesca racconta molte cose di sé e Andrea avverte un irresistibile desiderio di lei. Anche la ragazza appare attratta da lui. Poi però Andrea ha un attacco di sonno e, suo malgrado, deve andare a dormire, mentre Francesca appare delusa, ma non dice nulla. Più tardi, nel cuore della notte...
ATTENZIONE. IL RACCONTO POTREBBE URTARE LA SENSIBILITÀ DI ALCUNI LETTORI
“Toc, toc”.
Qualcuno bussava alla porta. Ma chi? Mi dissi che mi sarei dovuto alzare. Il freddo della stanza mi fece rabbrividire. Una lieve angoscia mi avvolse, forse era la paura di uno sgradevole imprevisto.
«Chi è?», domandai con il cuore che ballava nel petto
Era Francesca. Da dietro la porta mi chiese scusa per il disturbo e mi domandò se poteva entrare. Aveva una voce flebile; pensai, non so perché, che fosse la voce di chi ha appena pianto ma cerca di non farlo capire.
Attonito, presi tempo, cercando di capire cosa fare. Sapevo che avrei aperto. Per qualche attimo due pensieri mi attraversarono la mente. Il primo fu questo: se una ragazza vuole entrare in camera tua a quell’ora, non lo fa certo per parlare dell’ultimo film che ha visto. Ebbi un sussulto d’eccitazione, unito alla vaga reminiscenza di scene di film pornografici visti e rivisti qualche anno prima. Poi, pensai, che avrei tradito Marta, ma mi assolsi all’istante, perché avrei classificato quella cosa con Francesca come un’avventura vissuta per cause di forza maggiore. Infine, girando la chiave nella toppa, sentii una specie di ritrosia, un’improvvisa resistenza. Fu un presentimento? Non so, ma quando aprii e vidi Francesca in pigiama rosa che mi sorrideva come volesse scusarsi e non trovasse le parole per farlo, pensai che fosse ancora più attraente.
Appena entrò in camera, Francesca chiuse la porta alle sue spalle e mi baciò con foga: un odore di dentifricio alla menta m’invase la bocca. Il mio sangue prese a ribollire e mi dissi: “Ci siamo”. Un regista esperto di film erotici non avrebbe potuto scegliere una sceneggiatura migliore di quella.
Prima di metterci nel letto, Francesca, imbarazzata, mi chiese scusa, chiedendomi di fermarmi un attimo e offrendomi un po’ di tè caldo che si era fatta portare dal bar e che era nella sua stanza.
Furono due ore trascorse divinamente. Francesca sembrava la donna con cui stavo da anni: ci fu un’intesa erotica immediata e inebriante; tra le cose che rammento con particolare forza, fu la fame di lei che esplose in me al primo tocco delle sue labbra sulle mie. Non ci staccammo per due ore buone e fu tutto fantastico, qualcosa che raramente capita nella vita e che va raccontata solo a pochi amici (maschi) fidati, facendoli impallidire di invidia e gelosia.
Dopo quelle due ore di sesso intenso e inebriante, mi addormentai di colpo, come un sasso, abbracciato a Francesca, che mi ringraziò per quello che era successo. Nel dormiveglia balbettai un “grazie” che dovette suonare un po’ inusuale, ma anche i ringraziamenti di Francesca mi erano parsi fuori luogo. Come se le avessi fatto un favore, come se io le fossi servito per un’ultima follia prima del matrimonio! Una specie di addio al nubilato sui generis, senza cene con le amiche, né spogliarellista fico, macho e vagamente pompato che si esibisce dopo cena, ma un addio passato in una stanza d’albergo di un paese dell’Appennino a fare sesso con un uomo praticamente sconosciuto. Certo che aveva scelto un bel modo per dire addio al nubilato! Che avesse preordinato ogni cosa? È vero che per una donna che vuole avere un’avventura la cosa è molto più semplice, però immaginare che Francesca avesse architettato tutto non era possibile…
Erano questi i pensieri che venivo facendo, immerso nel sonno. Fu però un sonno agitato: continuai a chiedermi il perché di quella nottata, pensavo al momento in cui avrei parlato agli amici del fatto, poi m’immaginavo che Francesca si fosse alzata dal letto, camminasse nella stanza, andasse in bagno. Sognai Marta, la vidi pura e senza colpa, ignara della mia avventura, in attesa del mio arrivo a Pisa. Francesca nel sonno (e nei sogni) mi sembrava essere sempre in movimento per la stanza quella notte, ma non avevo la forza per alzarmi e chiederle cose stesse facendo. Due o tre volte ebbi la sensazione che lei mi urtasse: ma non mi svegliai appieno per chiederle se stesse bene, se il letto fosse troppo piccolo, perché alzare le palpebre e muovere la bocca mi apparivano gesti troppo faticosi. Una specie di benefica paralisi mi teneva inchiodato al letto, steso sul materasso e sulle lenzuola come un macigno. Non volli verificare se Francesca camminasse davvero o io stessi sognando, anche perché nel sonno le immagini di Francesca e Marta si confondevano. E la cosa non mi fece bene. Infatti, dopo l’amore, mi accorsi che avrei preferito che Francesca fosse tornata nella sua camera, perché cominciavo ad avvertire, nel profondo del mio animo, un tenace senso di colpa.
A un certo punto pensai però ebbi l'impressione che Francesca mi avesse dato uno strattone e che stesse facendo un po’ troppo rumore. E poi da un po' sentivo sempre più freddo. Insomma, compresi che non stavo sognando affatto e finalmente mi scossi, cercando di alzare la testa dal cuscino. Sollevai il capo e sentii qualcosa davanti alla bocca, una specie di fazzoletto bagnato… guardai davanti a me e rimasi attonito. Ero steso supino, nudo, avevo freddo; la stanza era illuminata dall’abat-jour della piccola scrivania alla destra del letto. Sentivo la mia testa pesante. Cercai di muovermi, sempre credendo di sognare e affogato nello stupore più nero, ma non potei farlo. Voltai la testa a destra e a sinistra e, sconvolto, mi accorsi che avevo i polsi legati alle due estremità della testata del letto. Sempre più terrorizzato, con il cuore che ballava nel petto e la paura che mi pietrificava l’anima, mi accorsi che anche le caviglie erano legate con delle corde alle due estremità inferiori del letto. Avvertivo un fastidioso bruciore ai polsi: più cercavo di muovermi, più il dolore si faceva acuto.
Era davvero difficile pensare che quel che vedevo fosse reale. Eppure la sorpresa non era finita. Guardai diritto davanti a me e rimasi, se era possibile, ancor più senza fiato: sulla seggiola sedeva Francesca, nuda, con le gambe accavallate. La luce debole della lampada la illuminava fiocamente, dal suo lato sinistro, donandole un aspetto spettrale. Francesca mi guardava fisso, anche se non potevo scorgere i suoi occhi. Aveva le mani unite su una coscia, mentre i seni nudi un po' a punta e "a uscire" , nella fioca penombra della stanza, mi apparvero come due uncini appuntiti, pronti a ferirmi.
Poi Francesca parlò. La sua voce mi apparve suadente, sottile, suadente, forse sensuale. Alzandosi, e venendo verso di me, mi disse:
«Che dormiglione che sei… ».
Non potei rispondere nulla per via della benda che mi chiudeva la bocca. Tremavo per il freddo e per la paura. Nell’aria della stanza aleggiava ancora l’odore dei nostri corpi che si erano uniti fino a poco prima. La mia serata trasgressiva si stava trasformando in tragedia? Mi vennero in mente una serie di film che mi avevano sempre fatto paura e m’immaginai quanto avrei potuto soffrire e quanto sarebbe stato triste morire in quel modo. Magari dissanguato, con le vene dei polsi tagliati
Pensai pure che Francesca, disperata com’era, avesse progettato un omicidio-suicidio, con me come co-protagonista. Forse mi aveva raccontato solo bugie. Forse era una psicopatica, sadica e perversa. Ma perché aveva scelto proprio me? Pensai poi a Marta, alla mia famiglia, alla vergogna che avrebbero provato. Allo scandalo. Finalmente Francesca si sedette alla mia destra e mi disse, interrompendo quelle visioni catastrofiche:
«Non temere, non ti farò nulla di male, più di quello che t’ho fatto… Ma era necessario. Prima vorrei puntualizzare due cose importanti, anzi tre». Aveva una voce pacata, dolce, appena sporcata dall'accento bresciano.
Volli crederle. Cercai di non piangere per il terrore. Vedevo le sue gambe vicine al mio viso, il suo sesso scuro e peloso a poca distanza da me. Sentii una leggera vibrazione al mio basso ventre, come se mi stessi eccitando. Pregai affinché ciò non accadesse. Poi Francesca parlò:
«Per prima cosa, sappi che non sono una sadomasochista, né una dedita agli scambi di coppia o ad altre robe da pervertiti. Non amo nemmeno legare il mio uomo al letto, dominarlo o altro. Ma è una cosa che ho sempre sognato di fare. E stanotte la sto facendo. Ma non permetterei mai che il mio eventuale futuro marito o qualcuno di mia conoscenza venisse a sapere di questo mio desiderio. Punto numero due: non ho inventato nulla della mia storia, oggi. Sono davvero in fuga e non so che farò. Comunque non avevo previsto di arrivare a fare proprio oggi, con te, quello che sto facendo. Punto numero tre… non me lo ricordo… Ah sì, non sono matta e presto ti libererò».
Sorrise e si alzò. Io naturalmente non potei proferire parola, per via della benda. Mi limitati a grugnire, come si dice in questi casi. Temevo, infatti, di compiere qualche gesto che potesse indispettire Francesca e farle cambiare idea sulla sorte che mi avrebbe riservato. Mi sembrava fuori di sé, del tutto diversa dalla ragazza compita e sofferente che avevo conosciuto durante il giorno.
Francesca mi annunciò che sarei stato per un po’ (erano ormai le tre del mattino) il suo “schiavo del sesso”. Se non mi fossi trovato in quella scomoda posizione, piedi e mani legate, avrei riso della banalità di quella espressione, perché non ce la vedevo proprio, Francesca, che si comportava in quel modo. Ma la realtà stava vincendo e cancellando il mio stupore. Cioè, intendo dire che avevo ancora paura, naturalmente, però capivo che mi sarei dovuto adattare per quanto fosse possibile e affrontare la situazione. Era come se la mia testa e il mio corpo avessero capito che resistere e mantenere un minimo di calma potesse essere il solo modo per sopravvivere. Infatti, ero un po’ meno agitato e, soprattutto, non pensavo più ai miei genitori, a Marta, allo scandalo, alla morte e a tante cose tetre.
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