martedì 28 febbraio 2012

Ritratto di paese



Lavorare in un paesino può avere qualche piccolo vantaggio. Uno, per esempio, è quello di guardare dalla finestra dell'ufficio la piazza quasi deserta in inverno, per scorgere qualche presenza scarsamente umana. Oppure, ascoltare le voci su esistenze strane, sulle sofferenze senza parole che anche qui esistono. E provare a descriverle su un foglio di carta. Ecco il risultato...

Ciondola tra il ristorante e il bar, bar e ristorante,
i baffi pieni d’alcol, gli occhi di fumo
e nella testa, chissà, solo ricordi.
Un amore appassito, un figlio matto,
un’automobile senza batteria, un cuore cieco
e il solito sigaro, quello di suo padre e di suo nonno,
intinto nella solita grappa.

Ma è mai stata giovane, e piacente, quella signora?
Ha amato, forse, ha generato figli,
avrà pianto, riso, bestemmiato e baciato,
ma sempre pensando ad altro,
roteando attorno a sé occhi sprezzanti
e cinismo da terza elementare,
finita a fatica.

Nemmeno le stampelle servono più
se non spalano la neve. E i denti gialli
sono la chiave per commuovere l’assistente sociale.
Ma solo lui. Altri se ne fregano e sonnecchiano.
Sono in letargo dalla nascita e mangiano bacche.
Tranne la domenica. E l’ultimo giorno dell’anno.

Mucche, pecore, asini, cavalli,
gatti e cani, capre, caprette,
galli e galline, anatre, uccelli,
uomini e donne. Non stanno mai zitti.

È davvero difficile riconoscere qualcuno
che ha lo stesso cognome di mille altri.
Che ha fatto la stessa vita,
ha avuto lo stesso amore affettato,
forse la stessa morte, la stessa bestemmia in bocca,
lo stesso dio. E lo stesso nulla.

Tanti scendono giù, la mattina,
e salgono la sera. Altri sono scesi per non tornare.
Altri salgono quassù per disperazione.
E non scendono mai più.
Qualche laccio pende ancora, dai rami,
nel bosco verdeggiante.

Festa estiva in piazza, finalmente un divertimento,
gioia discreta negli occhi del parroco,
il matto ride di sé senza essere perso a calci,
ubriacarsi è un dovere, mentre laggiù
sfilano le spose del futuro, verginali e vogliose.
Poi è il lampo, il tuono, la pioggia:
è già finita l’estate.

Un cantiere là, un altro qua, un altro lassù,
un altro in costa, un altro in valle. Castelli di sabbia.
In cemento. Vuote di villeggianti.
Piene di speranze e di denari.
Come parole di una lingua straniera
scritte su manifesti che nessuno capisce.
E pieni di sputi.

A volte è un deserto di case, prati, nebbia e neve.
Non è sempre brutto, anzi. La vita pulsa anche qui.
Si mangia troppo e si beve male. Questo è un delitto.
E si consuma troppa carta per le poche penne in vendita
alla carto-libro-frutti-salumeria.

Qui non osano le aquile, solo i piccioni.
I merli ogni tanto, eppure quanti spari in autunno!
La mattina è un concerto. Le nubi poi sanguinano.
Ma nessuno se ne accorge. La terra è sempre fertile.
Le donne pure. Soprattutto straniere.
Una piccola moschea non starebbe male, qui.

Una vallata punteggiata di luci. E case buie.
Alberi di noci che nereggiano (alla Carducci)
oltre i vetri della pizzeria.
L’inverno sbadiglia nelle pieghe del pomeriggio.
Ah la signora Maria, che non invecchia mai!
Pure lei eterna. Come le pietre, i muri.

Il pensionato bivacca in piazza
sin dalla mattina del lunedì.
Martedì e mercoledì in farmacia,
giovedì a passeggio con la moldava
alta quattro metri più di lui.
La settimana finisce nell’accappatoio grigio,
ma forse non è mai cominciata…

È meglio parlare coi muri, quassù:
sanno più cose delle persone, sono più loquaci,
non contraddicono mai. Hanno l’alito migliore.
E non ruttano, né sputano. Rispondo a tono.
Loro sì che hanno una vita normale!

La noia, sì, la noia. Vissuta da tutti ma incompresa.
La salvezza, forse, o un’àncora di salvezza,
per chi vive in questo posto difficile
che non è più pianura e non ancora montagna.
Sospeso tra terra e cielo. Senza identità.
Se non quella anagrafica.

Febbraio 2012

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