«Ciò ch’io sono, qualunque cosa
sia, non è se non un po’ di carne, soffio vitale e principio direttivo». È una
frase tratta dai Pensieri
dell’imperatore romano Marco Aurelio (morto nel 180 d.C.), scritti in greco.
Non si tratta di pensieri filosofici puri bensì, e questo è il segreto del loro
fascino, di una serie di riflessioni maturate durante una vita passata a
dirigere un impero, a combattere, a frequentare migliaia di uomini della diversa
specie. Marco Aurelio ha vissuto pienamente, non si è mai ritirato dal mondo, ed
ha sempre saputo che esisteva un luogo in cui rifugiarsi con tranquillità e
serenità, ossia la propria anima: «Raccogliti in te stesso, dato che puoi, in
qualunque momento tu voglia, ritrarti in te stesso. Perché in nessun luogo più
tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; soprattutto, se si
hanno dentro di sé princìpi tali che, al solo contemplarli, si acquista una
perfetta serenità», scrive riecheggiando Epicuro.
Egli è cosciente della caducità
delle “cose” umane, del loro carattere effimero; ma non svaluta il mondo in cui
vive. Cerca invece di indicare al suo lettore le poche cose veramente
essenziali che l’esistenza racchiude in sé e che, invece, quasi sempre sfuggono
allo sguardo distratto degli esseri umani: «Considera con quale rapidità
l’oblio avvolge tutte le cose: quale abisso infinito di tempo tu hai dietro a
te come dinnanzi a te: quanto vana cosa è un rumore che si propaga; quanto
mutevoli e privi di giudizio sono coloro che sembrano applaudirti; considera
infine la piccola distesa che circoscrive la fama. Perché la terra
intera non è che un punto… ».
La fama è solo qualcosa che, nei
casi più fortunati, dura qualche secolo ma che di norma si spegne con la scomparsa
dell’uomo che l’ha tanto faticosamente cercata. I beni mondani sono destinati a
perire, non perché la vita sia ingiusta, ma perché fa parte della natura delle
cose il perire come il nascere. Dunque: «fin dall’eternità tutte le cose sono
sempre uguali e ripercorrono sempre lo stesso ciclo… si perde lo stesso a
morire sia vecchissimi che giovanissimi, perché il presente è l’unica cosa di
cui si può essere privati perché è l’unica cosa che possediamo». E poi: «Con
quanta rapidità tutto svanisce, nel mondo la sostanza stessa dei corpi, nel
tempo anche il loro ricordo! Che sono mai tutte le cose sensibili, e
soprattutto quelle che il piacere rende attraenti, il dolore terribili, la
vanità celebri! Come sono vili, spregevoli, sordide, corruttibili e senza vita!
Questo deve considerare la nostra ragione».
Senza dubbio Marco Aurelio è
affine allo stoicismo ma in lui questa dottrina filosofica si colora di
sfumature originali (raccogliendo elementi epicurei, cinici), non tanto negli
argomenti, bensì nel tono con cui egli la espone. L’idea di un universo
deterministicamente guidato dal logos
non diventa uno spunto per l’accettazione rassegnata del fato, ma per un
appello a vivere pienamente il proprio compito di uomo dotato di ragione. Vivere secondo ragione significa conformarsi
alla natura, che è specchio dell’ordine razionale del cosmo, e dunque essere un
uomo capace di avere un’etica sia sociale, che lo porti a non trascurare di
agire per il bene della comunità di cui fa parte e, sia volta al proprio bene: «Se
compi le azioni che ti si presentano al momento seguendo la retta ragione, con
impegno, con energia, con gentilezza, senza distrazioni, ma preservando il tuo
demone costantemente puro, come se dovessi restituirlo da un momento all’altro;
se ti attieni a questo, senza aspettarti nulla e senza nulla fuggire, ma
accontentandoti di agire sempre in armonia con la natura e di essere
coraggiosamente sincero in ogni tua parola, tu vivrai felice». E questo appello
al rispetto verso gli altri è un’indicazione che può essere rivolta anche verso
se stessi: «La cura di conservarsi gli amici senza averli mai a noia e neppure
infatuarsene; il bastar a se stesso in ogni occasione, e la serenità».
Per Marco Aurelio le sensazioni
corporee avvicinano l’uomo alle bestie. Il corpo non va svalutato, ma visto
come parte di un tutto, una totalità nobilitata da un’anima, da un intelletto.
Certo, riflette Marco Aurelio, anche i disonesti possiedono un intelletto. Il
saggio, invece, è colui che indirizza questo intelletto alla vita secondo
natura, e che accetta quel che gli accade, senza turbarsi né irritarsi se gli
altri uomini lo prendono in giro e mettono alla berlina il suo modo di vita. Il
principio direttivo da cui ogni uomo deve essere guidato non è eterno. Spesso
esso si spegne ben prima che l’uomo muoia. E se si affievolisce che cosa
rimarrà? Un essere vivente schiavo delle passioni, delle immaginazioni
incontrollate, non più un uomo d’intelletto. «Occorre dunque affrettarsi, non
solo perché la morte si avvicina ogni giorno di più, ma anche perché la
capacità di comprendere le cose e applicarvi la mente si estingue in noi prima
della fine».
L’appello di Marco Aurelio a un
uomo che sappia sempre controllarsi, che segua la ragione, la verità, la
giustizia, che sia moderato e parco, onesto, pulito, è affascinante. La ricerca
dell’autosufficienza, del bastare a se stessi, in un mondo romano che, dopo i
fasti del passato, dava i primi segni di sgretolamento, suggerisce forse
all’imperatore queste belle parole: «L’uomo che ha scelto la sua mente e il suo
demone, e il culto dovuto alla potenza di questo, non fa scene, non geme, non
sentirà il bisogno né della solitudine né della folla e soprattutto vivrà senza
nulla cercare e nulla fuggire, né gli importa se sarà lungo o breve lo spazio
di tempo durante il quale potrà avvalersi dell’anima contenuta nel suo corpo».
Quel che affascina nei pensieri è
la loro “contemporaneità”, in altre parole il loro carattere universale, capace
di abbattere le distanze temporali. Essi ci parlano ancora oggi e ci parleranno
sempre. Perché non formano un trattato di filosofia, bensì un insieme di
esortazioni che un uomo fine e intelligente rivolgeva a se stesso quasi duemila
anni fa. Essi sono il frutto di un continuo interrogarsi, di una ininterrotta
ricerca di risposte a domande assai profonde e acute. Il loro autore non ha
sempre la certezza che le risposte che trova siano quelle giuste.
D’altra parte, Marco Aurelio
scrive a se stesso, ma parla a ognuno di noi, o meglio, a chi vuole ascoltarlo.
Egli non impone direttive, né prescrizioni etiche intransigenti, ma suggerisce
idee, modi di vivere, riflessioni spesso aperte. Per questo, leggendolo, si ha
la sensazione di poter dialogare ancora con lui, di confrontarsi con la sua
saggezza. Come ha scritto un grande (e trascurato) filosofo italiano, Piero
Martinetti (1871-1943) nel suo Breviario
spirituale, i pensieri di Marco Aurelio «debbono la loro efficacia
straordinaria … a questo: che essi non sono un trattato schematico di morale
derivato faticosamente da principii, ma un libro di esperienze morali, segnate
forse giorno per giorno, suggerite dalla realtà della vita e raccolte a
delineare un ideale insuperabile di bontà, serenità e di nobiltà morale».
La filosofia è lo sfondo
su cui si staglia l’opera di Marco Aurelio. Una filosofia vissuta, sentita,
nella carne e nell’anima. È questo tipo di filosofia che costituisce il rifugio
dell’imperatore-filosofo, l’unico vero rifugio, la grotta di pace e serenità
che egli consiglia a tutti e nella quale lui vive da tempo: «la vita è lotta e
viaggio in terra straniera; la fama dopo la morte, oblio. Che cosa dunque ci
resta che ci dia protezione? Unica e sola la filosofia».
Nessun commento:
Posta un commento