Riporto stralci (l'intera conferenza si può leggere e ascoltare qui) della celebre conferenza che Eugenio Montale (1896-1981) tenne a Stoccolma nel 1975, al momento del conferimento del premio Nobel per la letteratura. Mi pare una idea rileggere questa parole, dato che domani è la giornata mondiale della poesia. Ascoltare un poeta che s'interroga sul senso del fare poesia è una bella cosa; certo, non è detto che chi scrive poesia sia adatto a parlare del senso del poetare, anche perché la poesia sfugge, per fortuna, a trattazioni oggettivanti. Però le parole di Montale hanno un significato ancor oggi assai attuale, soprattutto perché, tra i vari argomenti, costruiscono una riflessione sul ruolo della poesia nella modernità.
Ecco le parole del poeta:
Ho scritto poesie e per queste sono
stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico
letterario e musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di
fedeltà a un regime che non potevo amare. Pochi giorni fa è venuta a trovarmi
una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività
così diverse? Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all'attività
impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di spiegarle che non si può
pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c'è un
largo spazio per l'inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella
mercificazione dell'inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.
In ogni modo io sono qui perché ho
scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo
è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una
produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile.
Sono qui perché ho scritto poesie: sei
volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una
produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di
mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la
poesia non è una mercé. Essa è una entità di cui si sa assai poco, tanto che
due filosofi tanto diversi come Croce storicista idealista e Gilson cattolico
sono d'accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia. Per mio conto,
se considero la poesia come un oggetto ritengo ch'essa sia nata dalla necessità
di aggiungere un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche
tribali. Solo molto più tardi parola e musica poterono scriversi in qualche
modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la
musica si fa sentire. Quando la poesia tende a schiudersi in forme
architettoniche sorgono i metri, le strofe, le così dette forme chiuse. Ancora
nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della
poesia è il suono. Ma non tarderà a sorgere con i poeti provenzali una poesia
che si rivolge anche all'occhio. Lentamente la poesia si fa visiva perché
dipinge immagini, ma è anche musicale: riunisce due arti in una. Naturalmente
gli schemi formali erano larga parte della visibilità poetica. Dopo
l'invenzione della stampa la poesia si fa verticale, non riempie del tutto lo
spazio bianco, è ricca di « a capo » e di riprese. Anche certi vuoti hanno
un valore. Ben diversa è la prosa che occupa tutto lo spazio e non da
indicazioni sulla sua pronunziabilità. È a questo punto gli schemi metrici
possono essere strumento ideale per l'arte del narrare, cioè per il romanzo….
[Oggi nel 1975] le arti, tutte le arti
visuali, stanno democratizzandosi nel senso peggiore della parola. L'arte è
produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un
nuovo mondo nel quale l'uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della
propria coscienza. L'esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica
esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove
milioni di giovani si radunano per esorcizzare l'orrore della loro solitudine.
Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se
stesso?
Ovviamente prevedo le obiezioni. Non
bisogna confondere le malattie sociali, che forse sono sempre esistite ma erano
poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione non permettevano di
conoscere e diagnosticare la malattia. Ma fa impressione il fatto che una sorta
di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto
che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i
lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell'attuale
civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro
identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione,
hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e
di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano «
datate » e il bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi
diventa bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediato. Di qui l'arte nuova
del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non necessariamente
teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera sorta di massaggio
psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex macchina
di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di
coordinare gli allestimenti scenici, ma di fornire intenzioni a opere che non
ne hanno o ne hanno avute altre. C'è una grande sterilità in tutto questo,
un'immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico
quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia
così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora
oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il
sedicente poeta si mette al passo coi nuovi tempi. La poesia si fa allora
acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l'esplosione
di una granata, non esiste un vero significato, ma un terremoto verbale con
molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere
l'aiuto dello psicanalista. Prevalendo l'aspetto visivo la poesia è anche
traducibile e questo è un fatto nuovo nella storia dell'estetica. Ciò non vuoi
dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose
classicamente tradizionali e pseudo versi privi di ogni senso. C'è anche una
poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una folla entusiasta.
Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili
atleti del vocalismo poetico non sempre sono sprovveduti di talento. Citerò un
caso e mi scuso se è anche un caso che mi riguarda personalmente. Ma il fatto,
se è vero, dimostra che ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle
quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l'altra può
dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di
farlo.
La vera poesia è simile a certi
quadri di cui si ignora il proprietario e che solo qualche iniziato conosce.
Comunque la poesia non vive solo nei libri o nelle antologie scolastiche. Il
poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo vero destinatario.
Non si credo però che io abbia
un'idea solipsistica della poesia. L’idea di scrivere per i cosiddetti happy
few non è mai stata la mia. In realtà l'arte è sempre per tutti e per
nessuno. Ma quel che resta imprevedibile è il suo vero begetter, il suo
destinano. L'arte-spettacolo, l'arte di massa, l'arte che vuole produrre una
sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé
infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il
suo limite è il vuoto assoluto. Si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole
(io stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un
paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale…
La poesia lirica ha certamente rotto
le sue barriere. C'è poesia anche nella prosa, in tutta la grande prosa non
meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa o
almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti scrivono versi che non
hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla. Il mondo
è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile
che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca,
per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione.
Possiamo tutti collaborare a questo futuro. Ma la vita dell'uomo è breve e la
vita del mondo può essere quasi infinitamente lunga.
Ma ora per concludere debbo una
risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve discorso. Nella
attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e
nuovi linguaggi, nella civiltà dell'uomo robot, quale può essere la sorte della
poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l'arte tecnicamente
alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è
fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della
diffusione. L'incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti
della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far
sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta
appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della
moda. Che l'orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più
che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e
molti libri di poesia debbano resistere al tempo.
Diversa è la questione se ci si
riferisce alla reviviscenza spirituale di un vecchio testo poetico, il suo
rifarsi attuale, il suo dischiudersi a nuove interpretazioni. E infine resta
sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta
poesia d'oggi si esprime in prosa. Molti versi d'oggi sono prosa e cattiva
prosa. L'arte narrativa, il romanzo, da Murasaki a Proust ha prodotto grandi
opere di poesia. e il teatro? Molte storie letterarie non se ne occupano
nemmeno, sia pure estrapolando alcuni geni che formano un capitolo a parte.
Inoltre: come si spiega il fatto che l'antica poesia cinese resiste a tutte le
traduzioni mentre la poesia europea è incatenata al suo linguaggio originale?
Forse il fenomeno si spiega col fatto che noi crediamo di leggere Po Chü-i e
leggiamo invece il meraviglioso contraffattore Arthur Waley? Si potrebbero
moltiplicare le domande con l'unico risultato che non solo la poesia, ma tutto
il mondo dell'espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che
è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri
umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli
che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che
nessun'altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà
il destino delle arti. È come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani
magari lon-tanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si
dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può
essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi).
Una lettura davvero interessante. Grazie.
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