Mi piace pubblicare qui questo raccontino uscito l'anno scorso, con poche varianti, sul celebre sito Tornogiovedi, leggibile a questo link. Non ho cambiato la sostanza, solo la forma, e in minima parte. Volevo però che anche il mio blog potesse ospitare queste righe.
Non c'è molto da dire riguardo alle parole che seguiranno. È una non storia, anzi, la fine di una non storia. L'ispirazione (che parolona!!) mi è stata offerta dalle scene iniziali del meraviglioso film di Michelangelo Antonioni L'eclisse (1962). Queste scene sono riprodotte nel filmato di You Tube che ho incollato. Buona lettura.
«Cosa ti spinge, ancora, qui, vicino a
me?».
La domanda di lei lo scosse da quel
torpore fittizio, quasi forzato, provocato dalla tristezza. Non rispose, ma si
svegliò definitivamente. Guardò di fronte a sé: la stanza era accarezzata dalla
luce anonima di un’alba autunnale. Gli oggetti, i mobili, i quadri, le pareti,
sembravano emergere a fatica da un’oscurità senza fondo. Tutto era grigio oppure
macchiato da colori sporchi.
Lei fissava un quadro alle pareti. Ora
taceva. Non lo guardava in quel momento. Non lo aveva guardato nemmeno quando
gli aveva rivolto quell’ultima domanda. Non lo guardava da tempo, ormai.
Lei indossava una camicia da notte
bianchissima. I capelli erano spettinati. Era ancora molto bella, ma di una
bellezza ostile, marmorea, non più traboccante di passionalità. Era bella, l’aveva
sempre ammirata, e, ora che stava per perderla (perché era chiaro, sin da
quando avevano iniziato a parlarne, la sera prima, che lo stava lasciando),
avrebbe voluto stringerla a sé e amarla almeno un’ultima volta. Ma non aveva il
coraggio di rivelarle questo pensiero. E poi le frasi di lei, sin dalla sera
prima, gli erano parse definitive. Senza speranza. Né per lui né per lei.
All’improvviso lei si voltò, quasi di
scatto. Gli lanciò un breve sguardo, poi abbassò gli occhi. Sotto la camicetta
lui scorse il seno sollevarsi per un istante. Poi lei disse:
«Non ti amo più, credo. Quando ti amavo,
sai, pensavo che darmi a te significasse farlo per sempre. Ora invece, ora che
sento di non amarti più, fare l’amore mi sembrerebbe una cosa penosa, per me e
per te. No?».
Lui sussultò: si sentì smascherato, come
sei lei gli avesse letto nel pensiero. Quell’ultima domanda, però, forse era un
modo per chiedere la sua opinione. Chissà, magari lei non aveva ancora deciso
tutto. Allora lui si sollevò, mettendosi a sedere sul letto, e le parlò:
«Come fai a dire che non mi ami più? E
come fai a dire che mi hai amato?».
Lei, dopo questa domanda, lo guardò
fisso. Gli occhi verdi sembravano spenti per sempre, mentre il pallore delle sue
gote risaltava in modo quasi insultante, per lui, nella penombra plumbea di
quell’alba di ottobre. Era chiaro che quel pallore, quel dolore che lei
mostrava, fosse un’accusa contro di lui. Era dunque solo colpa sua se lei stava
così male? Alla fine lui non resse quello sguardo e si commosse. Abbassò gli
occhi e mormorò:
«Io sono colpevole, sì, so quello che
significa il tuo sguardo. Io non so amare, eppure, fin da ragazzo, cerco di
farlo. Ma sbaglio sempre. È come se avessi in mano le carte giuste, ma fossi
incapace di gettarle sul tavolo, per paura che tutto finisca e di annoiarmi una
volta raggiunto lo scopo».
Lei seguitava a guardarlo tacendo. Lui
sentì allora che il suo cuore batteva più forte. Poi lei mandò un sospiro lungo
e colmo di abbattimento. Lui allora pianse, ma cercò di non farsi vedere. Lei,
intanto, si era alzata, dirigendosi verso la finestra che lasciava penetrare il
bianco sbadigliante dell’alba. Disse con voce afflitta:
«Stai piangendo... Voi uomini vi
vergognate di piangere, chissà perché. Comunque, sai, forse hai ragione quando
dici che non sai amare, che hai paura della noia. È vero. Spesso amarsi è
banale. È la sofferenza che precede o segue l’amore che dà un po’ di sapore
piccante. Ma vedo che non capisci ancora qual è il problema. Sei concentrato su
di te, come un bambino. E parli sempre di te, anche adesso. Però io sono troppo
confusa per stare con te. Avrei bisogno di un briciolo di… non di certezza, né di
sicurezza, so che sono parole ridicole. Avrei bisogno di sapere che non sono da
sola, che ho un sostegno, qualcuno che condivide con me la mia vita. Penso che la vita sia così pesante… così… così stupida,
così insensata. Sopportare la stupidità da soli è impossibile. Sono atterrita
dall’idea di affrontare tutto da sola… Ma mi rendo pure conto che l’amore è
un’altra cosa. E che né tu e né io sappiamo cosa sia».
Lui pensò che avesse ragione. Invidiava quella
capacità di celare la propria disperazione controllandola. Ma sperava che
fosse, anche lei, un poco debole e confusa. Gli appariva una donna in preda a
una stanchezza mortale. Una donna diversa da quella che aveva amato.
«Ricordi?», la voce di lei interruppe
quei pensieri, facendolo lievemente trasalire, «ricordi le prime volte?». Ora
s’era voltata nuovamente verso il letto, ma non guardava lui, bensì faceva
vagare gli occhi tra il letto e il comodino, come fosse cieca. «Anzi, ricordi la
prima volta», soggiunse, «quella sera a casa di Barbara? Io mi ero versata il
vino sul vestito ed ero andata in bagno, poi ero uscita a prendere un po’
d’aria. Tu sei venuto, ricordi? Imbarazzato e silenzioso. Dicesti una banalità,
mi pare sul bel tempo di quella serata, e dopo due minuti, ricordi, un tuono…
».
Sì, lui si ricordava bene quel momento.
La conosceva già e gli piaceva da tempo, ma allora lei stava con quell’altro.
Quella sera il temporale li costrinse a rifugiarsi assieme sotto il portico. E
arrivò il primo bacio.
Rammentando quella sera, tacquero
entrambi, cercando di indovinare i pensieri l’uno dell’altro. Affondati in quella
nostalgia melmosa, non fiatavano più. Però lei, ricordando quell’episodio,
aveva sorriso. Ma senza allegria. L’aveva fatto come un gesto meccanico, come
se ci fosse un’associazione immediata tra quell’episodio dolce e il sorriso che
sempre, quando ne avevano parlato altre volte, lo aveva accompagnato. Poi aggiunse:
«Quel che mi piaceva di te era quel modo
un po’ buffo di porti, quella tua leggerezza, quella capacità di essere dolce e
tagliente, deciso e impacciato. Mentre Emilio mi sembrava una specie di padre padrone,
uno che organizzava tutto nei dettagli. E che mi trascurava. Quella sera,
quando ti baciai sotto il portico, però io non avevo deciso niente. Tu forse,
visto che poi mi sono messa con te, hai pensato che proprio quella volta io
abbia deciso di lasciare Emilio e di mettermi con te. Invece no. Quella sera fu
tutto casuale. Mi trovai lì con te e ti baciai perché eri stato dolce e buffo.
Se non fosse scoppiato quel temporale, non so cosa sarebbe accaduto».
Lui non replicò nulla, perché non capiva
dove lei volesse arrivare. Gli piaceva ascoltare la sua voce, gli era sempre
piaciuta quella voce lieve, quasi musicale, così espressiva. Anche in quel
giorno grigio, benché popolato solo da parole amare, quella voce gli piaceva.
Così decise di starla a sentire, perché lei voleva parlare ancora.
«Sai, quella prima volta tra di noi
forse commisi un errore. Volevo lasciare Emilio, è vero, ma per stare da sola.
E invece ho percepito che tu… insomma… che c’era qualcosa in te di cui avevo
bisogno. E mi sono buttata su di te. È mio l’errore, sono stata precipitosa. Tu
prima mi hai detto che sai che sbagli tu. Non so se sei sincero, ma sappi che
l’errore è mio. Non è stato uno sbaglio l’averti amato, ma lo è stato chiederti
quello che tu non potevi darmi. E la cosa che ti rimprovero, anche se non sei
colpevole in fondo e anche sei hai fatto ogni cosa a fin di bene, è di avermi
dato sempre solo quel che ti chiedevo io, anzi quello che esigevo io, di non
avermi quasi mai costretta a cambiare, a mettermi in discussione…. ».
Quelle parole lo impietrirono. Pensò che
quei due anni di relazione fossero stati la dimostrazione della sua
sprovvedutezza. Lui aveva agito sempre per il meglio. Ma evidentemente aveva
sbagliato ogni cosa. Si scusò, ma si sentì subito ridicolo. Dopo averlo
ascoltato, lei s’avvicinò, si sedette sul letto e gli accarezzò i capelli, sussurrandogli:
«Lo so, ma appunto il problema sono io
non tu… ».
Aveva parlato socchiudendo gli occhi e conferendo
alla propria voce un tono amabile. Forse per questo, un po’ pentita, quasi
subito si alzò in fretta, prese una sigaretta, l’accese e cominciò a fumare con
calma. Ma diede poche boccate, poi la gettò via. Lui allora, in lacrime, disse:
«Ci hai pensato bene, non c’è niente da
fare, vero? Non posso fare niente… io… Ci hai pensato?».
«A cosa?».
«Be’, dicevo, hai pensato se fai bene a
lasciarmi, a far finire tutto tra di noi».
«Non lo so, non so più pensare da tempo,
sono stanca di essere stanca… », gli rispose con un sorriso, tornando a scrutarlo,
«ti ricordi questa frase? è un tuo verso. Mi piacque quando mi dicesti che scrivevi poesie. La tua testa mi affascinava tanto. Ma ora non so più pensare, tutto mi sembra
oscuro, senza significato, persino la decisione di lasciarti mi appare senza
senso, perché è una cosa che sembra venire dal di fuori di me, come se io non
fossi autonoma, non fossi capace di decidere niente».
«Non ti capisco… », si arrese lui
soffiandosi il naso.
«Nemmeno io, credimi, e non ti sto
prendendo in giro. Ho paura. Penso che se stessi ancora con te, lo farei solo
per non affondare, ti tratterei come lo scoglio che può salvarmi dalla morte,
forse, ma non dalla vita… ».
Lui sbuffò leggermente spazientito. Non
capiva, vedeva solo buio davanti a sé; non comprendeva le parole di
lei né di cosa l’accusasse. Ma non aveva la forza per protestare, perché le
lacrime continuavano a bagnargli gli occhi. Poi lei si sedette al suo fianco. In quel momento lo osservava
di nuovo con dolcezza, ma a lui quello sguardo non piaceva più, perché gli sembrava
pieno d’indulgenza. Era lo sguardo dell’adulto che compatisce il bimbo che si
lamenta in modo infantile. Uno sguardo che sembrava un insulto.
Lei dovette intuire qualcosa perché
smise di guardarlo quasi subito. Sospirò ancora, rimanendo a sedere sul letto, poi
si voltò verso la parete e parlò:
«Scusami, scusami davvero. Non voglio apparirti
drammaturgica, ma sappi che oggi quasi non mi va più di vivere. Questa casa,
queste pareti, quest’alba così opaca, mi danno una tristezza mortale che tu non
puoi nemmeno immaginare. Mi sento nell’anima un’angoscia spaventosa perché mi
sembra di non amarti più, o almeno non più come una volta e invece, nel
passato, certe volte, mi sarebbe piaciuto che la vita passasse in un lampo e
noi diventassimo subito vecchi assieme, e fossimo ormai una cosa sola, e la
nostra unione fosse cementata dai decenni passati assieme. Mi sento stupida a
dirti così… ma è la verità… Mi sarebbe piaciuto continuare ad addormentarmi con
te, sbadigliare quando sbadigli tu, sudare quando sudi tu e piangere con te, se
necessario oppure ridere senza essere presa dal pensiero terribile che ogni
momento lieto è mortale. Il dolore invece è immortale. O forse lo dico solo
perché oggi tutto è così oscuro. Chissà, magari è vero che l’uomo è infelice
solo perché non vuole accettare di poter essere felice».
Lui si sentiva disperato. Avvertiva
dentro di sé una nostalgia insopportabile. Perché lei, mai, prima
di quel giorno, gli aveva parlato in quel modo? Disse:
«Non mi avevi mai parlato così. Perché mi
hai tenuto all’oscuro di tutto?».
«Perché se ti avessi confidato quel
pensiero sull’idea di diventare vecchi, mi avresti presa in giro. Con quel tuo
modo tagliente di rispondere, con quella tua assurda paura delle emozioni.
Sapevo che mi avresti ridicolizzata. O forse ero io a essere realmente ridicola
e mi sfinivo a cercare un ideale di amore che non esisteva. Che stupida,
cercavo l’amore perfetto! E non mi sono accorta quando mi è balenato davanti
l’amore vero, quotidiano quello che passa davanti pochissime volte durante
un’esistenza. Peccato, ormai è tardi. L’amore vero forse è un insieme di banalità
che diventano indispensabili perché ci tengono attaccati a questa vita e ci
sottraggono alle sue grinfie, alla sua mortale serietà. Come vorrei non sapere
pensare, avere il cervello piccolo ed essere felice!».
«Sei ingiusta», si difese lui, ma debolmente
perché sapeva che lei aveva ragione.
«Sai», aggiunse lei con la voce sempre
più flebile ignorando la sua affermazione, «avrei voluto amarti per sempre, ma
ti vedevo sfuggente. Per questo la sola possibilità era pensarci vecchi e
innamorati. Che stupida sono stata! Sapevo che in questo modo mi stavo
attaccando a te, te l’ho detto prima, non per amore vero, ma per essere al
sicuro, eppure cercavo di convincermi di amarti perdutamente. Però, chissà,
forse ho confuso il mio desiderio di avere un uomo che mi salvasse con l’amore.
Non lo so. Balbetto, vedi, balbetto. Se potessimo ricominciare da capo, tornare
indietro… ma non avrebbe significato, perché ormai siamo troppo intimi per
mascherarci in un’altra maniera».
Quell’ultima frase gli donò un po’ di speranza.
Si voltò allora verso di lei che gli dava la schiena. Scorse nella penombra la
camicia da notte bianca, i capelli sulle spalle. Ebbe la tentazione di toccarle
la schiena. Ma non lo fece. Poi disse:
«Ma se dici così... significa che forse
mi ami ancora, che potresti amarmi, che
vorresti… volermi bene… vedi che non lo sai nemmeno tu? Perché rovinare tutto?
Pensaci».
«Io non rovino niente, sai, le cose a
volte finiscono senza motivo, si spengono così».
Intanto lui aveva cominciato ad
accarezzarla, a baciarla sul collo, ma lei si divincolò debolmente. Poi, all’improvviso, lo bloccò prendendogli le mani.
«No, ti prego, no… non così… non riesco
ad amarti, ho paura, non posso… ».
Lui però continuava ad accarezzarla e a
baciarla, nonostante la sua morbida resistenza. Le sussurrava: «Dai, non fare
così, un po’ mi ami ancora, lo sento, lo sappiamo… ».
«No, no, lasciami», sospirò lei
debolmente, senza opporre più resistenza, «non potrei farlo, adesso, non lo farei
per amore, ma solo per un senso di… compassione verso di te. Per non farti
soffrire, almeno per un po’».
Lui allora smise di baciarla. La osservò
meravigliato, ferito da quell’ultima affermazione. Lei aveva appoggiato la sua
testa contro il suo petto nudo con un atteggiamento arrendevole, come se fosse incapace
di mantenere con le azioni quel che sosteneva con le parole.
«Perché nomini la compassione?», le
domandò lui con decisione, obbligandola a guardarlo. Fu brusco quando la
sollevò verso di sé. Lei lo scrutava timorosa. Taceva e aveva gli occhi umidi.
Nella penombra di quel giorno che sembrava non volesse incominciare, lei lo
fissò come per penetrare nella sua anima. Non lo aveva mai fissato in quel
modo. Lui ne ebbe quasi paura, tanto che si allontanò un poco dal volto di lei,
come per metterla a fuoco meglio. Quindi si scosse, alzandosi come colto da
un’illuminazione, come se avesse finalmente compreso cosa lei intendesse comunicargli
attraverso le parole amare che gli aveva rivolto sin dalla sera prima. Cominciò
a vestirsi.
«Che fai?», gli domandò lei con voce flebile,
continuando a sedere sul letto.
«Me ne vado. Se vuoi cercami, sai dove
sono».
«Va bene… ma smettila di piangere, ti
prego… ».
Lui, infatti, aveva ricominciato a piangere.
I modi affrettati e bruschi con cui agiva non lenivano il suo dolore. A un
certo punto la sofferenza lo costrinse a smettere di vestirsi. Si sedette su
una poltrona, abbattuto.
«Non fare così», lo pregò lei, «perché
reagisci come un bambino?».
Lui rispose singhiozzando:
«Non sai dire altro, quando le cose non
vanno bene, mi accusi di essere infantile… Sei ingiusta, ma so che posso fare
ormai, dimmelo tu».
«Abbiamo sbagliato entrambi», chiosò
lei. Rimaneva immobile, seduta sul letto: il volto era ancora pallido, le
labbra quasi esangui e gli occhi sempre più spenti.
Lui si era alzato dalla poltrona, ma era
rimasto con i pantaloni slacciati e la maglietta a mezze maniche. Teneva in
mano la camicia, ma non l’indossava. Fuori dal vetro i rami degli alberi
ballavano al vento, mentre la nebbia era una coperta spessa gettata sul mondo
esterno.
«Sai», le disse a un certo punto fissandola
e cambiando espressione all’improvviso, «non so dove abbiamo sbagliato. E poi…
abbiamo veramente sbagliato in qualche cosa? Non hai detto poco fa che le cose
finiscono senza ragione, che si spengono senza rumore? Allora credo che non
dobbiamo aggiungere altro. È inutile stare qui a farsi macerare dall’angoscia
per trovare il colpevole, il responsabile. Che senso ha aggiungere parole a
parole? Serve solo a farci ancora del male, a rovinare anche quel poco (o quel
tanto) di bello che c’è stato tra di noi in questi anni. Perché farlo?
Lasciamoci così, senza altre parole, senza altre lacrime, senza altri baci. Non
devi avere compassione di me, non devi averne più. Abbiamo parlato per ore e
ore da ieri e siamo sempre fermi nello stesso punto. Non facciamo un passo, da
mesi, in nessuna direzione. Sono mesi che andiamo avanti per inerzia, senza più
sapere chi siamo. Siamo stanchi e non abbiamo il coraggio, o l’onestà, di
ammetterlo. Due solitudini non fanno una coppia. Ci siamo quasi rovinati l’un
l’altro. Adesso però è giusto fermarci, finché siamo in tempo… ».
«Sì», ora era lei ad apparire esausta e amareggiata.
Parlava per monosillabi, aveva il volto colorato da un’espressione di tristezza
stupita. Forse non s’aspettava che lui avrebbe capito tutto prima di lei. E in
quel frangente toccava a lei sentire le lacrime incipienti ed essere
attraversata da una malinconia insostenibile.
Lui nel frattempo aveva indossato la
camicia. Si guardarono per un istante. La penombra della stanza era sempre più densa
e soffocante. Non si baciarono per l’ultima volta, né si abbracciarono. Lui
aprì la porta con un gesto che voleva essere definitivo: il suo viso adesso
aveva un’espressione decisa, come non succedeva da mesi. Lei, distrutta, realizzò
solo in quel momento che tutto era veramente finito, dentro e fuori di lei.
«Addio».
«Addio».
Lui, ragionamento elementare, tipico da uomo
RispondiEliminalui che conosce il bianco e il nero
Lei, che se dice bianco può voler dire bianco avorio, bianco neve, bianco sporco
Due mondi, due realtà...concreta quella di lui, sfumata e irrazionale quella della lei
per questo forse lui ne rimase attratto ai tempi...sì ai tempi...perchè le donne cambiano e cambiano sempre...e non sai mai con chi ti svegli.
Gli uomini crescono e poi invecchiano e non riconoscono più chi hanno sposato.
Perchè lui si cela dietro una falsa anaffettività? Non è vero, lui sa amare. Solo che non sa amare nella maniera difficoltosa con cui pretende d'essere amata lei. E' lei che posa lo sguardo sugli oggetti, in cerca di conferme. E' lei l'insicura, lei che non è soddisfatta, ma non da lui, bensì da se stessa. L'uomo non si vergogna a piangere. All'uomo è stato insegnato, purtroppo, che la donna ha bisogno di un uomo forte e fin da bambino gli è stato ripetuto d'essere un maschio, un maschio, un maschio...
Poi ad un tratto lei inizia a far la vittima, si prende tutte le colpe e come al solito sporca anche il ricordo del primo incontro...
' Vedi, io volevo lasciare Emilio, ma per stare sola'.
Ebbene, anni ed anni gettati nel cesso...perchè se un amore finisce bisogna per forza rovinare tutto? Ogni amore ha una fine degna di rispetto...
' Siamo troppo intimi per mascherarci in un'altra maniera'...Questa frase la tatuerei a fuoco sulla mia pelle , con il suo seguito però:
Siamo troppo intimi per mascherarci in un'altra maniera, per questo finalmente adesso possiamo amare anche le nostre miserie.
Lui le dice : forse mi ami ancora un pò...mai dire così ad una donna...un pò non è sufficiente. La donna si sposa perchè sognava il lieto fine per il suo romanzo. Per lei è lo scopo principe. Per l'uomo è un punto di partenza, quindi quel poco può ancora crescere, mentre per lei è una retrocessione...
Lei le dice: potrei stare con te solo per compassione...mai dire questo ad un uomo, lo si colpisce nella sua virilità...
Addio... che altro dirsi, dopotutto...questo succede quando non si capisce che quella banalità altro non è che la stabilità che si è sempre cercata...
Al di là del finale prevedibile e dell'aver raccontato una situazione comune a molti, credo che il resto della storia lo scriva il lettore che come me avrà sicuramente molto da dire e tanti atteggiamenti in cui riconoscersi...è ben scritto, bel articolato, mai monotono...i due ruoli sono coerenti, probabili e soprattutto non risultano due macchiette.
Grazie di cuore, per avermi resa partecipe...