I
Non credo alle divinità dell’oggi
e so che quel che rimane dei giorni è poca cosa,
aria rifritta su padelle nere di rogna.
Alla fine cosa passa e cosa resta qui non interessa,
e sappiamo tutti gettare via il tempo
e pulire con stracci unti
i vostri pavimenti senza colore.
Abbiate paura!
II
Due monetine sull’impiantito.
I romanzi di Gadda e Meneghello mi guardano
poggiati anche loro sul tavolo di legno.
E poi fogli e carte e il riscaldamento rotto.
Voglia di dare calci al muro.
Il cesso dei vicini che si porta via
cacche di fritto e di sughi di cipolle.
Una penna e i detersivi della cucina nello scatolone.
Sanguineti è qui con me, aperto e oscuro.
Almeno lui non dice niente. Grazie.
III
La metafisica di un pensiero soave apre l’alba:
come insetti benefici le malinconie sfarfallano alla luce
che si muove sui muri e bacia le finestre rotte
senza finire di stupire chi si sveglia lento.
È un modo per sentirsi vivi, questo:
ferirsi gli occhi al sole, accecati e inermi,
di fronte al mondo oscuro che opprime il petto.
Alla fine la sveglia che rompe l’incanto.
IV
Che belle le battone nude sulla strada serale
con la pioggia che sferza i loro sobri collant!
Almeno loro hanno un’idea precisa dell’uomo
che sbanda in auto al loro nobile prostrarsi
per sbandierare le proprie natiche al mondo intero.
Ah, le sublimi puttane della strada provinciale,
dico così, echeggiando Stendhal…
V
“Io me ne devo andare”, disse, “voi restate”.
Voi chi? Era da solo, nella stanza oscurata
del pomeriggio primaverile che non voleva passare.
E le cose me le ha rubate senza fare rumore;
una sera rovistando nella scatola polverosa
ecco le fotografie di quel tempo,
e quei primi piani alla Antonioni,
sì, quelli sì, quelli dovevi rubarmi…
VI
Le carte scritte da me ballano al vento
e non mi sembra che valgano la fatica spesa
a dare forma alla confusione da onanista d’intelletto,
dei miei giorni a bighellonare tra le stanze di casa.
Quale casa? Quali carte? Quali versi e quali metafore
valide?
Marcisce la carta, marcisce l’inchiostro, marcisce la testa,
putrida vanità intellettuale che illude non essendoci mai!
VII
E io che ti parlavo di Fellini, Zurlini e di quel film,
La prima notte di
quiete, poi ti citavo Caproni
e interrogavo occhi e mani, intrecciate,
mi vantavo di belle poesie non mie…
per che cosa… nulla se non una striscia di parole
che non ho capito affatto, che fesso!
VIII
Vedi cara, è difficile sputare oltre la ringhiera
perché la saliva non è leggera come una piuma
e poi non sono cresciuto abbastanza da quella volta lontana
in cui bagnammo i passanti con olio e aceto.
Ma erano altre finestre.
Ora ci bagniamo di altre cose, a volte,
ma il romanticismo dell’olio, e dell’aceto,
ogni tanto mi manca…
ferisce e ben oltre il sole sugli occhi e dà la certezza di essere vivi, questo tuo dire, questo tuo fare e aver fatto e detto e ancora...tutto conta, tutto accade per un motivo e noi qui a cogliere parole, come affetti. purché ancora ci siano e ci siamo.
RispondiEliminaun abbraccio. forte.
AnGre
Boh! Forse vorrebbe vivere senza il fastidio di andare a buttare la spazzatura. Il problema si può risolvere non mangiando, non defecando,non scrivendo e non leggendo, non muovendosi dal posto che si è scelto per restarci, senza lavarsi, senza muoversi di pezza. Ma che bella vita! E questo darebbe certezza di esser vivi? Mah! Fossero solo le puttane, ci si potrebbe stare, ma quel ridurre certe cose altissime a strisce di parole, questo darebbe il senso d'esser vivi? Di nuovo mah! La poesia sì dovrebbe dare il senso della vita, ma così?! Che dire? Diciamo col Manzoni"Nui chiniam la fronte!" Tanto ci si ammoscia tutto a legger queste cose! Ci si ammosci anche le fronte!
RispondiEliminaDomenico Alvino
La metafisica di un pensiero soave apre l’alba:
RispondiEliminacome insetti benefici le malinconie sfarfallano alla luce
che si muove sui muri e bacia le finestre rotte
senza finire di stupire chi si sveglia lento.
È un modo per sentirsi vivi, questo:
ferirsi gli occhi al sole, accecati e inermi,
di fronte al mondo oscuro che opprime il petto.
Alla fine la sveglia che rompe l’incanto.
Tanti Complimenti Giuseppe, bravo :)
Ti conosco da poco, ma credo tu abbia detto tanto di te in queste strofe. Intravedo nottate sui libri e quel caldo umido così diverso dal nostro. Una zanzara forse ti distrae ed apri la finestra. Tutto sembra così indifferente a tutto il resto, tutto scorre assieme alla pioggia nei tombini e allo sciacquone del bagno dei vicini.
RispondiEliminaE si resta soli con tanti libri letti e altri acquistati per il piacere di sfogliarli, forse immaginando la pelle di una donna, sola come noi e sola con noi,
Valentina Di Caro