giovedì 26 settembre 2013

UNA POESIA DI GIORGIO CAPRONI





ALBA
Amore mio, nei vapori di un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?... Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte,
qui, col tuo passo, già attendo la morte.



Questa poesia è contenuta ne Il passaggio di Enea (1956). Lo stile è malinconico, la scrittura di versi fitta, senza pause, come se l’autore volesse dire in fretta quel che ha nell’animo, prima che la morte giunga o che tutto finisca. In questa poesia è presente la sua idea di sonetto “monoblocco”, mentre la fluidità del verseggiare è resa utilizzando ampiamente gli enjambement.
Il senso della fine incombente appare spesso nelle poesie di Caproni. La morte si palesa prima nella figura della fidanzata scoparsa precocemente, Olga Franzoni; più tardi, negli anni ’50, sarà presente la madre, Anna Picchi, cui Caproni dedicherà gli splendidi Versi livornesi presenti ne Il seme del piangere. Sarà un ricordo privo di retorica, affatto melodrammatico, eppure vivido, non occultato dietro forme ermetiche o, peggio, dietro un inutile pudore.
Nella poesia qui riportata l’alba è livida e invernale, mentre il poeta è immerso nei profumi mattutini di un bar dai vetri appannati. L’amore atteso non arriva; c’è solo il rumore di un tram solitario. Si noti l’impiego di un vocabolo aulico, leopardiano, come “ermo”, unito al termine “rumore”, connesso con l’immagine prosaica di un tram. In questo modo l’autore mostra di possedere notevoli capacità poetiche, ma di essere anche cosciente della necessità di adattare il verso alla situazione vissuta o figurata. In altre parole, Caproni è aulico non nei termini che impiega, bensì nei temi che tocca. La sua esperienza individuale diventa certamente universale, ma egli non si erge a moralista, né a modello di comportamento, né a filosofo.Egli non è un retore: non insegna nulla, indica solo una viuzza, una stradina, un pertugio nelle nebbie del mistero. Forse vorrebbe rendere più tangibile la celebre “maglia rotta nella rete” di Eugenio Montale. 
In Alba il terrore della morte non urla, né crea una retorica del dolore. Il poeta appare quieto, quasi rassegnato, per nulla solenne sulla soglia del momento supremo (si pensi ai toni di Stanze della funicolare); egli tratta un tema universale, a tutti familiare, con delicatezza e attenzione.
Negli anni ’50 Caproni è già oltre l’ermetismo e, nei suoi versi, egli non è ossessionato dallo sperimentalismo, dall’avanguardia, bensì è curioso dell’esistenza: la vorrebbe conoscere sin nei dettagli, benché s’accorga che il senso del vivere sfugga inevitabilmente: “Di questo, sono certo: io/son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento./ Scendo. Buon proseguimento” (Congedo del viaggiatore cerimonioso).

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