- Io non ti amo più,
non ho altro da dire.
- Ma perché?... Tu mi
amavi, no?
- Sì, ti ho amato
molto … molto… ma ora non ti amo più.
- Mi hai amato molto?
- Sì molto, ma ora è
finito.
- Ma perché? Ci sarà
un perché?
- Ci sarà, forse… ma
non lo so dire…
Il protagonista de Il disprezzo (pubblicato nel 1954)
riesce a far dire alla moglie quello che lui sospetta da tempo. È il momento
dell’epifania e lui, Riccardo Molteni, non esita a cercare la verità,
nonostante il dolore che prova. La moglie, Emilia, finalmente parla e lo fa a
colpi di accetta: non è tanto quel che dice a ferire l’uomo, bensì il tono con
cui lei confessa di non amarlo più: un tono ultimativo, senza speranza e, al
contempo, freddo, quasi indifferente.
Diversi segnali avevano preceduto
questo chiarimento. Non segni chiari della fine dell’amore, bensì episodi
minimi che però, messi assieme, costruiscono una catena drammatica. La scelta
della moglie di dormire da sola, sul divano, giustificata con l’impossibilità
di stare accanto al marito che, di notte, tiene la finestra aperta. E poi, la
fine del loro erotismo: Emilia si “concede” ancora al marito, ma senza
partecipazione, anzi, come fosse un dovere, un sacrificio inevitabile. E alla
fine Riccardo si rassegna, riducendosi a spiare con timore le nudità della
propria moglie, cercando di frenare il desiderio di lei voltando gli occhi da
un’altra parte, come fosse un estraneo.
Il protagonista soffre molto: benché
si aspetti le dure parole della moglie e, anzi, le abbia provocate, le sopporta
a fatica: “Si possono immaginare le cose
più spiacevoli e immaginarle con la sicurezza che sono vere. Ma la conferma di
queste supposizioni … giungerà sempre
inattesa e dolorosa, come se non si avesse immaginato nulla”. Ora che la
moglie ha confessato il suo disamore, si spalancano per la coppia le porte verso
l’abisso: Riccardo ha un impulso omicida che si spegne presto. Emilia reagisce
con rabbia a questo gesto violento, gridando: “Io ti disprezzo … ecco
quello che provo per te, ed ecco il motivo per cui non ti amo più. Ti disprezzo
e mi fai schifo ogni volta che mi tocchi”.
Questo dialogo è uno dei pochi
momenti in cui la donna parla con il marito dei loro rapporti. In realtà, per
tutto il libro, il lettore conosce solo i pensieri dell’uomo (Moravia narra in
prima persona) e può unicamente intuire, con molta fatica, quel che Emilia
pensa. D’altra parte, nonostante le ripetute richieste di Riccardo, lei non
rivelerà la causa del suo disprezzo. Benché il marito faccia delle supposizioni
che appaiono plausibili, e in parte le esterni a Emilia, la moglie non si
sbottona quasi mai. L’unica costante sarà la continua, desolante,
riaffermazione del disamore verso di lui.
Il protagonista è uno scrittore
di teatro che da poco ha conosciuto un produttore cinematografico: da quel
momento egli entra nel mondo del cinema, collaborando a diverse sceneggiature e
migliorando la propria situazione economica. Tuttavia, ben presto Riccardo
sperimenta una lacerazione tra le sue aspirazioni e la realtà vissuta. Non ama
scrivere sceneggiature nelle quali spesso le esigenze di “bottega” prevalgono
sulle ragioni artistiche; non ama il carattere del produttore, Battista, uomo
interessato solo al denaro, pieno di vitalità, abile a mascherare la propria
cupidigia dietro l’interesse per l’arte; infine, non è amato dalla propria
moglie, pur avendo scelto di scrivere sceneggiature solo per lei, per farla
vivere in un bell’appartamento.
Il naufragio definitivo della
coppia ha come scenario l’isola di Capri. Il produttore, infatti, vuole finanziare
un film sull’Odissea. Ha invitato a
Capri, nella sua villa, Riccardo, Emilia e un regista tedesco, Rheingold,
affinché, nell’atmosfera dell’isola, i due uomini trovino il modo di scrivere
il film. Riccardo accetta l’offerta solo perché spera che il viaggio a Capri
possa portare la pace con Emilia.
Naturalmente accade il contrario,
anche perché il protagonista vivrà con insofferenza la sceneggiatura, essendo
in disaccordo con il regista sul modo di scrivere il film: questi, infatti, sostiene
un’interpretazione assai moderna dell’opera di Omero. Egli pensa che l’Odissea sia la raffigurazione della
vicenda di un uomo come Ulisse, razionale e riflessivo, assai diverso dal mondo
culturale greco espresso nei poemi omerici. Secondo il regista, Ulisse va in
guerra solo perché si è accorto che Penelope non lo ama più. E perché non lo
ama più? Perché quando i Proci hanno tentato di sedurla o le hanno fatto dei regali,
Ulisse, da uomo razionale e sicuro della fedeltà della moglie, non ha reagito;
anzi, l’ha incoraggiata ad accettare i doni. Ma Penelope è una donna rozza,
figlia del suo tempo, della cultura dell’onore e della forza, e interpreta
l’atteggiamento di Ulisse come disinteresse verso di lei. Perciò smette di
amarlo. Solo scendendo a patti con quella cultura dell’onore e della violenza
che aborrisce, Ulisse potrà recuperare l’amore della moglie. Tuttavia egli è
riluttante a piegarsi: per questo vaga per dieci anni nel Mediterraneo, indeciso,
finché torna a Itaca e uccide i Proci. Ecco allora che Penelope lo riamerà.
Molteni sente avversione verso tale
interpretazione, ma è altrettanto contrario all’idea del rozzo produttore, che
vorrebbe invece realizzare un kolossal per fare soldi. In realtà, Molteni vede
un parallelo che l’inquieta tra l’interpretazione data dal regista della
vicenda di Ulisse e il suo rapporto con Emilia. Ulisse alla fine ha
riconquistato Penelope. E lui come può riconquistare la moglie? Certamente non
spargendo sangue, ma facendo sì che ella torni a stimarlo. Riccardo, infatti, crede
che lei non lo stimi più da quando, una sera, lui non è salito in macchina con
lei e Battista, preferendo prendere un taxi per recarsi a cena con loro. Che la
moglie quella volta abbia pensato che lui la volesse spingere tra le braccia
del produttore, in modo da essere poi agevolato nel rapporto con quest’ultimo? La
stessa cosa accade alla partenza per Capri: Battista invita la donna nella sua
macchina, ma Emilia sostiene di voler stare con il marito; ella allora guarda
con aria interrogativa Riccardo, il quale non dice nulla, e così la moglie,
cupa, sale nell’auto di Battista.
Riccardo commette lo stesso
errore una terza volta: una sera, a Capri nella villa, scorge Battista che
bacia Emilia. Più tardi, a cena, egli si comporta come se nulla fosse: impegnato
a recuperare la stima agli occhi della moglie, confessa al produttore di
scrivere sceneggiature solo per soldi e di non amare quel lavoro. Poi, nella
camera di Emilia, cerca conferma di questo suo “recupero” della sua stima, ma la
donna rimane fredda, impassibile, anzi, è pronta a criticarlo per quelle sue
parole temerarie. Infine, Riccardo non accenna al bacio che ha visto,
precludendosi, forse, l’ultima possibilità di essere riamato dalla moglie. I tentennamenti,
la sua indecisione sul fatto di accettare o meno la sceneggiatura, non
sortiscono comunque effetti di sorta. Per esempio, egli è convinto che la
moglie lo apprezzerebbe di nuovo se rinunciasse al lavoro, mostrandosi più
attaccato ai propri ideali che al denaro. Ma Emilia non muta atteggiamento
quando lui le confessa questo pensiero, né si scompone quando il marito, con un
giorno di ritardo, le rivela che ha scorto Battista baciarla. Lei infatti
risponde indifferente: “Lo sapevo che mi
hai visto… ti ho viso anch’io”.
È arduo per il lettore
comprendere le dinamiche di questa coppia in disfacimento. Essa sembra
disgregarsi per stanchezza, per noia, senza una ragione: “Emilia … desiderava continuare a disprezzarmi senza motivo, in modo da
togliermi ogni possibilità di discolparmi e giustificarmi e da precludere a se
stessa ogni ritorno alla stima e all’amore … in Emilia il sentimento di
disprezzo era venuto prima, molto prima delle giustificazioni vere o
immaginarie che io avevo potuto offrirle con la mia condotta … Ella avrebbe
potuto dissipare fin dagli inizi l’equivoco crudele in cui era naufragato il
nostro amore, palandomi, avvertendomi, aprendosi. Ma non l’aveva fatto, perché
… in realtà ella non voleva essere disingannata, voleva continuare a
disprezzarmi”.
Nondimeno, le riflessioni che
Riccardo elabora per spiegare a se stesso il motivo della disaffezione di
Emilia, per quanto acute, arrivano solo a sfiorare la verità. La donna, da
parte sua, è un personaggio algido che probabilmente non ha ben chiaro il
motivo del proprio disamore; tuttavia, come accadeva per Penelope
nell’interpretazione del regista tedesco, la natura semplice della donna pare aderire
alla realtà meglio dell’intellettualismo di Riccardo. Infatti, verso la fine
del romanzo, di fronte all’ennesimo tentativo del marito per conoscere i motivi
del disprezzo che lei prova, Emilia risponde: “Come sei fatto non lo so, lo saprai tu, so soltanto che non sei fatto
come un uomo, non ti comporti come un uomo”. Nella sua semplicità, con
questa frase più adatta a un fotoromanzo che a una discussione colta, Emilia dimostra
di essere più concreta. La stessa cosa accade più tardi, quando ella grida al
marito: “Non te lo perdonerò mai, mai ti
perdonerò di aver rovinato il nostro amore”.
Di fronte a queste “lezioni” di
realismo e allo scacco delle proprie aspirazioni, Riccardo comprende due cose:
la prima, che la distanza dalla moglie è incolmabile, perché non è più solo di
natura affettiva, bensì culturale: essi desiderano mondi diversi e vivono
realtà lontane tra loro; la seconda, è che la moglie lo disprezza come uomo,
ovvero per la sua “essenza”, per la sua natura profonda. Allora non c’è più
nulla da fare: nonostante Riccardo covi ancora dentro di sé la speranza, la
situazione è conclusa. Durante una gita in barca, egli ha, infatti, un’allucinazione:
vede la moglie seduta vicino a lui che gli assicura che tutto è a posto e che
ogni cosa è tornata come prima. Ma è un sogno, anche perché la moglie in quel
momento, sta tornando a Roma con Battista, come gli ha annunciato con un
biglietto: “Caro Riccardo, visto che tu
non te ne vuoi andare, sono io che me ne vado. Da sola forse non ne avrei avuto
il coraggio: approfitto della partenza di Battista. Anche perché ho paura di
restare sola e la compagnia di Battista, dopo tutto, mi sembra preferibile alla
solitudine. Ma a Roma lo lascerò e andrò a vivere per conto mio. Se, però,
vieni a sapere che sono diventata amante di Battista, non ti meravigliare: non
sono di ferro e vorrà dire che non ce l’ho fatta e che mi è mancato il
coraggio. Addio. Emilia”. Tutto è finito, non c’è altro da raccontare. Il
film naturalmente non si farà, Riccardo ha finalmente comunicato al regista
l’intenzione di non collaborare alla sceneggiatura. Quando torna alla villa, l’uomo
trova un telegramma di Battista che gli annuncia che Emilia è morta in un
incidente stradale.
Forse questo grande libro è, talvolta,
un po’ freddo. La scrittura colta, lineare di Moravia appare oltremodo
impegnata ad analizzare in modo troppo intellettuale le pulsioni e i sentimenti
dei protagonisti, tanto da renderli, talvolta, irreali. Da questo punto di
vista, Gli indifferenti (1929) aveva
una tonalità molto più viva.
Tuttavia, la scelta di limitare a
tre i protagonisti (il regista Rheingold rimane sullo sfondo) è felice, come
efficace è l’idea di far svolgere quasi tutta la vicenda in un unico luogo,
l’isola di Capri. Questi fatti donano linearità e pulizia al romanzo. Moravia,
inoltre, descrive in modo mirabile le mille riflessioni e i patimenti
dell’uomo, riuscendo anche a istituire un originale parallelo tra la vicenda
narrata da Omero e la più prosaica crisi tra Riccardo ed Emilia. La crisi che
Riccardo vive investe sia la sua identità, sia quella del ruolo
dell’intellettuale in una società ormai avviata verso il consumismo. Però non
mi pare corretto attribuire a Il
disprezzo una valenza sociale: è il racconto della fine di una storia d’amore
per consunzione, per mancanza di ossigeno. Questa atmosfera, a mio parere,
viene ben riprodotta nel 1963 nel film di Jean-Luc Godard ispirato al romanzo
di Moravia, Le mépris, con Michel
Piccoli e Brigitte Bardot, il cui splendido fondoschiena è sovente al centro
delle scene del film.
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