lunedì 27 gennaio 2014

IL DIARIO DI ETTY HILLESUM




La lettura del Diario 1941-1943 di Etty Hillesum (1914-1943) è molto istruttiva: scritto in uno dei momenti più tragici del ‘900 da una donna destinata a morire in un campo di concentramento, possiede un profumo di speranza e, talvolta, di pallida felicità, che a tratti sconvolge. Nel libro ci sono naturalmente anche diverse parole di sconforto: ma l’autrice sembra arrivare, alla fine, a una sorta di distacco dal mondo che contribuisce, almeno in apparenza, a rendere meno dolorosa la sua vicenda. I brani che cito sono solo un piccolo esempio di questo atteggiamento. Quel che manca nel diario è soprattutto l’odio verso il nemico e la consapevolezza dell’esistenza di qualcosa di più puro e alto della vita terrena. È una religiosità che accomuna tutte le fedi e che dona a molte pagine del Diario leggerezza: “Quel che conta in definitiva è come si porta, si sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima”.
La guerra, l’invasione e l’occupazione tedesca, la minaccia costante della deportazione sono eventi che Etty Hillesum affronta spesso con forza; o almeno, questo è quel che traspare dalle sue pagine. La sua vita continua, ma non nelle forme stereotipate della rassegnazione a un destino tragico, bensì nella resistenza contro il male. Non è un atteggiamento consolatorio; l’autrice analizza con coraggio sia il proprio “io”, le sue reazione di fronte al male assoluto, sia i comportamenti delle altre persone. Ognuna di esse può cadere vittima dell’odio o produrre odio da se stessa in certi momenti: solo un rinnovamento spirituale umano potrà, forse, distruggere l’odio. Questo non significa ignorare la differenza tra carnefici e vittime, ma soltanto ricordare quanto la vittima di oggi possa diventare il carnefice del domani, se la pace non diventa una condizione dell’animo e non solo uno status politico.
“Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra”
Ecco, per la giornata della memoria mi è parso giusto ricordare alcune parole di Etty Hillesum (cito dall’edizione Adelphi, Milano 2004, IX edizione).


Bisogna saper accettare tutto quel che ci tocca: anche se un individuo nei panni del tuo prossimo ti si accosta all’uscita della farmacia dove hai comprato il dentifricio, ti punta l’indice addosso e ti chiede con aria inquisitoria: hai il permesso di comprare lì dentro? Ho risposto, timida e insieme decisa, e gentile come sempre: sì, signore, questa è una farmacia. Capito, ha detto lui diffidente e laconico, e se ne è andato. Io non so essere tagliente. So esserlo in una conversazione tra persone di spirito, ma sono del tutto indifesa di fronte alla gentaglia di strada, tanto per parlare senza mezzi termini: allora divento triste e mi stupisco che tra esseri umani ci si possa comportare così, ma una risposta ben forte tagliente – sia pur nei limiti del lecito – non mi viene. Quell’uomo non aveva il diritto d’interrogarmi. Uno degli idealisti che a suo tempo coopereranno a epurare la società dagli elementi ebraici. A ognuno il suo piacere in questa vita. Ma questi piccolo attriti col mondo esterno devono pur essere digeriti. Con ciò, non provo il minimo interesse a fare la figura di una persona coraggiosa di fronte a questo o quel persecutore – e dunque non mi sforzerò mai in questo senso. Possono benissimo accorgersi che sono triste e del tutto indifesa nei loro confronti. Non ho nessun bisogno di fare una figura coraggiosa e questo mi basta, il resto è irrilevante (146-47).

Mi chiedo cosa farei effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l’ordine di partenza per la Germania, e se dovessi partire tra una settimana. Supponiamo che quel foglio mi arrivi domani: cosa farei? Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa, cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di anima e corpo. Mi farei tagliare i capelli molto corti e butterei via il rossetto. Cercherei di finire di leggere le lettere di Rilke. Mi farei fare dei pantaloni e una giacchetta con quella stoffa che ho ancora per un mantello d’inverno. Naturalmente vorrei ancora vedere i miei genitori e racconterei loro molte cose di me, cose consolanti – e ogni minuto libero vorrei scrivere a lui, all’uomo di cui so già che mi farà morire di nostalgia. Certe volte mi sembra di morire già adesso, quando penso che dovrò lasciarlo e che non saprò più niente di lui. Tra pochi giorno andrò dal dentista per farmi otturare tutti quei denti bucati: sarebbe proprio grottesco che mi venisse mal di denti. Mi procurerò uno zaino e porterò con me lo stretto necessario, poco, ma tutto di buona qualità. Mi porterò una Bibbia e quei libretti sottili, i Briefe an einen jungen Dichter [Lettera a un giovane poeta di Rilke], e in qualche angolino dello zaino riuscirò a farci stare lo Stundenbuch? Non mi porterò ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me (164-165).

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