La lettura del Diario 1941-1943 di Etty Hillesum (1914-1943) è molto
istruttiva: scritto in uno dei momenti più tragici del ‘900 da una donna
destinata a morire in un campo di concentramento, possiede un profumo di
speranza e, talvolta, di pallida felicità, che a tratti sconvolge. Nel libro ci
sono naturalmente anche diverse parole di sconforto: ma l’autrice sembra
arrivare, alla fine, a una sorta di distacco dal mondo che contribuisce, almeno
in apparenza, a rendere meno dolorosa la sua vicenda. I brani che cito sono
solo un piccolo esempio di questo atteggiamento. Quel che manca nel diario è soprattutto
l’odio verso il nemico e la consapevolezza dell’esistenza di qualcosa di più
puro e alto della vita terrena. È una religiosità che accomuna tutte le fedi e
che dona a molte pagine del Diario
leggerezza: “Quel che conta in definitiva è come si porta, si sopporta, e
risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria
anima”.
La guerra, l’invasione e
l’occupazione tedesca, la minaccia costante della deportazione sono eventi che
Etty Hillesum affronta spesso con forza; o almeno, questo è quel che traspare
dalle sue pagine. La sua vita continua, ma non nelle forme stereotipate della
rassegnazione a un destino tragico, bensì nella resistenza contro il male. Non
è un atteggiamento consolatorio; l’autrice analizza con coraggio sia il proprio
“io”, le sue reazione di fronte al male assoluto, sia i comportamenti delle
altre persone. Ognuna di esse può cadere vittima dell’odio o produrre odio da
se stessa in certi momenti: solo un rinnovamento spirituale umano potrà, forse,
distruggere l’odio. Questo non significa ignorare la differenza tra carnefici e
vittime, ma soltanto ricordare quanto la vittima di oggi possa diventare il
carnefice del domani, se la pace non diventa una condizione dell’animo e non
solo uno status politico.
“Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata
trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro
il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà
trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere
troppo. È l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e
pagine. Quel pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in
una parola come in dieci volumi. Sono una persona felice e lodo questa vita, la
lodo proprio, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra”
Ecco, per la giornata della
memoria mi è parso giusto ricordare alcune parole di Etty Hillesum (cito
dall’edizione Adelphi, Milano 2004, IX edizione).
Bisogna saper accettare tutto
quel che ci tocca: anche se un individuo nei panni del tuo prossimo ti si
accosta all’uscita della farmacia dove hai comprato il dentifricio, ti punta
l’indice addosso e ti chiede con aria inquisitoria: hai il permesso di comprare
lì dentro? Ho risposto, timida e insieme decisa, e gentile come sempre: sì,
signore, questa è una farmacia. Capito, ha detto lui diffidente e laconico, e
se ne è andato. Io non so essere tagliente. So esserlo in una conversazione tra
persone di spirito, ma sono del tutto indifesa di fronte alla gentaglia di
strada, tanto per parlare senza mezzi termini: allora divento triste e mi
stupisco che tra esseri umani ci si possa comportare così, ma una risposta ben
forte tagliente – sia pur nei limiti del lecito – non mi viene. Quell’uomo non
aveva il diritto d’interrogarmi. Uno degli idealisti che a suo tempo
coopereranno a epurare la società dagli elementi ebraici. A ognuno il suo
piacere in questa vita. Ma questi piccolo attriti col mondo esterno devono pur essere
digeriti. Con ciò, non provo il minimo interesse a fare la figura di una
persona coraggiosa di fronte a questo o quel persecutore – e dunque non mi
sforzerò mai in questo senso. Possono benissimo accorgersi che sono triste e
del tutto indifesa nei loro confronti. Non ho nessun bisogno di fare una figura
coraggiosa e questo mi basta, il resto è irrilevante (146-47).
Mi chiedo cosa farei
effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l’ordine di partenza per
la Germania, e se dovessi partire tra una settimana. Supponiamo che quel foglio
mi arrivi domani: cosa farei? Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei
nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa,
cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di anima e corpo. Mi
farei tagliare i capelli molto corti e butterei via il rossetto. Cercherei di
finire di leggere le lettere di Rilke. Mi farei fare dei pantaloni e una
giacchetta con quella stoffa che ho ancora per un mantello d’inverno.
Naturalmente vorrei ancora vedere i miei genitori e racconterei loro molte cose
di me, cose consolanti – e ogni minuto libero vorrei scrivere a lui, all’uomo
di cui so già che mi farà morire di nostalgia. Certe volte mi sembra di morire
già adesso, quando penso che dovrò lasciarlo e che non saprò più niente di lui.
Tra pochi giorno andrò dal dentista per farmi otturare tutti quei denti bucati:
sarebbe proprio grottesco che mi venisse mal di denti. Mi procurerò uno zaino e
porterò con me lo stretto necessario, poco, ma tutto di buona qualità. Mi
porterò una Bibbia e quei libretti sottili, i Briefe an einen jungen Dichter [Lettera a un giovane poeta di
Rilke], e in qualche angolino dello zaino riuscirò a farci stare lo Stundenbuch? Non mi porterò ritratti di
persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le
immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con
me (164-165).
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