Norberto Bobbio
(1909-2004) è scomparso dieci anni fa. Ho pensato di riportare alcune sue
parole che mi sembrano attuali. Il brano è tratto dal saggio Invito al
colloquio, pubblicato sulla rivista “Comprendere”
nel 1951, ora contenuto nel volume Politica
e cultura, Einaudi, Torino 1955 (cito
dall’edizione del 2005, alle pp. 3 e 5).
Il compito
degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non
già di raccogliere certezze. Di certezze – rivestite della fastosità del mito o
edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache
della pseudocultura, degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati.
Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli
argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di
decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale
dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva. Vi è qui un
aspetto importante del “tradimento dei chierici”; e il più importante, a mio
avviso, perché non è limitato al mondo contemporaneo ma si riconnette alla
figura romantica del filosofo-profeta: trasformare il sapere umano, che è necessariamente
limitato e finito, e quindi richiede molta cautela insieme con molta modestia,
in sapienza profetica. Donde deriva la posizione, così frequente tra i
filosofi, di ogni problema in termini di alternativa, di aut aut, di opzione radicale. […].
Non vi è
nulla di più seducente, oggi, che il programma di una filosofia militante
contro la filosofia degli “addottrinati”. Ma non si confonda la filosofia
militante con una filosofia al servizio di un partito, che ha le sue direttive
o di una chiesa che ha i suoi dogmi, o di uno stato che ha la sua politica. La filosofia
militante che ho in mente è una filosofia in lotta contro gli attacchi, da
qualsiasi parte provengano – tanto in quella dei tradizionalisti come da quella
degli innovatori – alla libertà della ragione rischiaratrice. Non è forse una
filosofia militante quella di colui che contro sette e chiese e stati del suo
tempo proclamò come prima condizione di dignità dell’uomo il diritto alla libertas philosophandi, e combatté con
incrollabile fermezza lo spirito superstizioso delle religioni ufficiali? Eppure
proprio Benedetto Spinoza, scrivendo ad un amico durante l’infuriare di una
guerra, disse parole che scandalizzerebbero ancor oggi uno di quegli ostinati
fautori dell’engagement: “Queste turbe non m’inducono né al riso né al pianto,
ma piuttosto a filosofare e ad osservare meglio la natura umana… Lascio,
dunque, che ognuno viva a suo talento e che chi vuol morire muoia in santa
pace, purché a me sia dato di vivere per la verità” (Ep., XXX). Spinoza sapeva esattamente qual sorta d’impegno fosse
quello che spettava al filosofo. Non già ch’egli non fosse impegnato: era
impegnato per la verità. E se questo impegno doveva in quei giorni, di fronte a
quegli avvenimenti, indurlo a non parteggiare, a non scegliere, egli aveva pure
il diritto, in nome della verità, di rifiutare all’una e all’altra parte il suo
assenso. Al di là del dovere di entrare nella lotta, c’è, per l’uomo di
cultura, il diritto di non accettare i termini della lotta così come sono
posti, di discuterli, di sottoporli alla critica della ragione. Al di là del
dovere della collaborazione c’è il diritto della indagine. Antonio Gramsci, in
uno dei suoi Quaderni del carcere –
uomo impegnato, ferramente e integralmente, se mai ve ne fu uno – scriveva: “Competere
e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario (e
talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi
liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco
fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista ‘critico’, l’unico
fecondo nella ricerca scientifica”. […]
Bobbio ha scritto migliaia di pagine; ma
questa scelta, personalissima, mi sembra rappresenti bene il suo atteggiamento
di uomo di cultura aperto al confronto con diverse tendenze etiche e politiche.
Laico verso il cattolicesimo liberale, aperto criticamente al marxismo,
interessato al liberalsocialismo, fedele al Partito d’Azione e capace di
dialogare con un intellettuale “eretico” e non violento come Aldo Capitini.
L’intellettuale è in primis uomo di cultura, non un politico; egli deve
certamente “scegliere”, ma senza immedesimarsi con un’ideologia (nel senso, definito da Gramsci, di “deteriore,
di cieco fanatismo ideologico”) perché altrimenti diventerebbe al servizio di
un’unica fazione. La volontà di non cadere nell’agone della strenua lotta
ideologica tra le due “chiese” d’allora (comunista e cattolica), pur mantenendo
viva l’idea dell’impegno dell’intellettuale e la fedeltà a un modello comunque “di
sinistra”, è un tratto nobile del pensiero di Bobbio. Non a caso in questo brano Bobbio cita Baruch Spinoza, un autore che, per molti giovani antifascisti, era stato un modello cui ispirarsi per resistere nonostante l’oppressione e l’impossibilità
di vivere la propria esistenza (non voglio ricordare le strumentali polemiche a
proposito di una lettera di Bobbio a Mussolini del 1935. Si veda in proposito
il volume Autobiografia, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. 29-40).
In queste righe Bobbio rivendica dunque l’autonomia
dell’intellettuale rispetto alla politica: il suo impegno non si traduce nell’abbracciare
un’ideologia o nell’iscriversi a un partito, bensì nell’essere indipendente dalla
politica stessa, affidandosi alla forza della ragione rischiaratrice della
cultura. Solo in questo modo l’intellettuale potrà pensare e scrivere
liberamente, dialogando con chiunque lo vorrà interrogare, ma senza indossare
uniformi né maschere. Il percorso che conduce al “tradimento dei chierici” (dal
titolo del celebre libro di Julien
Benda del 1927) per Bobbio è sempre drammaticamente in agguato e la sua
vicinanza a Benda si manifesta nella rivendicazione dell’autonomia, ma non dell’isolamento,
dell’intellettuale. Bobbio definisce così l’atteggiamento dell’intellettuale
quale uomo di cultura (da un saggio intitolato Politica culturale e
politica della cultura, pubblicato in “Rivista
di filosofia”, XLIII, gennaio 1952, ora in Politica e cultura, p. 21): “Tale atteggiamento non
coincide con quello della “apoliticità”, dal momento che la difesa della cultura
richiede vigilanza e fermezza da parte dell’intellettuale nei confronti delle
iniziative politiche; ma non coincide neppure con quello di “politicità”, dal
momento che la politica di cui si fa portatore l’uomo di cultura non è la
politica dei politici, ma è l’espressione di esigenze autonome e insopprimibili
della cultura nell’ambito della vita sociale”.
L’intellettuale, in quanto uomo di
cultura, deve elaborare in primis
un metodo di riflessione e di discussione, razionale e laico in senso ampio, da
utilizzare eventualmente anche nell’agone politico: l’intellettuale
è chiamato ad abbracciare un modello
culturale, etico, improntato al dialogo aperto, ma fermo nella propria
vicinanza a una democrazia basata sull’idea di libertà come autodeterminazione
politica di ogni individuo. La figura di intellettuale che Bobbio sostiene
non ha volutamente una fisionomia definita; d’altra parte, il ruolo di “seminatore”
di dubbi rende l'intellettuale sospetto per qualunque partito o fazione politica perché giudicato
incapace di possedere opinioni o idee durature. Eppure l’uomo di cultura si
caratterizza poiché dotato di una mite fermezza. Egli sa porsi all’ascolto
degli altri, è capace di comprenderli, senza abdicare dalle proprie
convinzioni. In altre parole, l’intellettuale non dovrebbe adottare un’idea
politica netta, bensì rimanere fedele al suo spirito di uomo che semina dubbi e
che invoca il dialogo fecondo e costruttivo: “Se oggi la propaganda
politica troppo spesso proclama l’impossibilità di intendersi, si alzi l’uomo
di cultura a proclamare il dovere d’intendere gli altri” (Politica e cultura, p. 25).
Come scrive Franco Sbarberi nell’Introduzione all’edizione di Politica e cultura, Bobbio sviluppa sin dagli anni Cinquanta: “Una
concezione dell’intellettuale come coscienza critica delle forme dell’esercizio
del potere, come promotore di dialogo nella ricerca aperta della verità e come
mediatore selettivo dei valori della sinistra, che vanno rintracciati,
sostanzialmente, nell’idea illuministica e liberale dei diritti dell’uomo e in
quella socialista di riduzione delle diseguaglianze economico-sociali” (p. IX).
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